Contrastare l’aumento delle diseguaglianze anche attraverso una profonda e radicale riforma fiscale in grado di attuare una più incisiva redistribuzione del reddito a favore delle classi sociali meno abbienti. E’ il pensiero del presidente emerito della Corte Costituzionale Franco Gallo ascoltato nei giorni scorsi dalla commissione finanze della Camera. Gallo si è soffermato in particolare sulla “essenziale funzione redistributiva dei tributi in tempi di recessione”. L’aumento delle diseguaglianze pone il problema di recuperare “elementi sostanziali di progressività del sistema fiscale” a partire dall’imposta sulle persone fisiche.
Gallo analizza l’ipotesi di razionalizzare le cosiddette ‘minipatrimoniali’ in una imposta unica e si sofferma anche sulle nuove forme di imposizioni legate ai cosiddetti beni ‘base’, come le tasse legate all’uso di beni ambientali scarsi, alle emissioni di gas inquinanti, all’occupazione dell’etere. Infine la delega varata dal Parlamento, che non rappresenta quella “riforma del sistema di cui c’è bisogno”.
Ripensare il sistema. La gravità dell’attuale situazione non consente di porre rimedio alla crisi del sistema fiscale con provvedimenti legislativi temporanei di tipo congiunturale nella logica, un po’ stantia, risalente alla riforma degli anni settanta. Andrebbe, invece, ripensato il sistema fiscale e il ruolo dello Stato impositore nel senso di una maggiore giustizia distributiva e, quindi, di un più equo riparto della ricchezza ai sensi degli artt. 53 e 3 Cost. Dopo più di quarant’anni dall’ultima riforma fiscale generale, sarebbe comunque giunto il momento di cominciare a pensare alla costruzione, nel medio e lungo termine, di un nuovo sistema tributario che, avvalendosi anche degli strumenti comunitari e nella prospettiva della creazione di un’unione (anche) fiscale europea, meglio distribuisca le basi imponibili secondo il concetto allargato di capacità contributiva e, nel contempo, ci restituisca una progressività che, pur senza avere la perfezione teorica della curva degli anni ’70, abbia comunque l’effetto di premiare gli svantaggiati secondo la regola rawlsiana del maximin. Il che non significa che si debba rinunciare ad una piena e ragionevole tassazione dei redditi e dei patrimoni. Significa solo spostare parzialmente l’onere fiscale dal reddito di impresa e di lavoro e dai patrimoni immobiliari su diverse entità, su new properties che denotino specifiche posizioni di vantaggio e di soddisfazione di bisogni valutabili economicamente e meglio si prestino a concorrere all’equo riparto dei carichi pubblici.
Nuovi indici capacità contributiva. Il legislatore tributario, nazionale ed europeo, avrebbe a disposizione un’ampia gamma di altri indici di capacità contributiva – finora parzialmente o niente affatto tassati – da assoggettare ad imposizione, senza con questo provocare shock economici di stampo keynesiano. Penso all’uso di beni ambientali scarsi, all’emissione di gas inquinanti, alle diverse forme di occupazione dell’etere (ad esempio, la c.d. bit tax), al consumo o produzione o cessione di alimenti dannosi o di tipo suntuario (le c.d. fat taxes), alla raccolta gratuita di dati compiuta nel nostro paese dalle imprese dell’economia digitale per produrre redditi tassati poi in altri stati a più bassa tassazione.
Interessi contrapposti. In questo momento storico i “ricchi” non vogliono le stesse cose che vogliono i “poveri” o quella parte del ceto medio entrata recentemente nell’area della c.d. “povertà relativa”. Chi dipende dal posto di lavoro per la propria sussistenza e paga le imposte in base a ritenuta non vuole le stesse cose di chi vive di investimenti e dividendi e può permettersi di praticare sofisticate pianificazioni fiscali per sottrarsi, anche lecitamente, al pagamento del giusto tributo. Insomma, chi non ha bisogno di servizi pubblici o ne ha un bisogno limitato non cerca le stesse cose di chi dipende esclusivamente dal settore pubblico.
Recuperare progressività al sistema. Occorre puntare su una progressività sostanziale ben diversa da quella, eccessivamente formale e nominalistica che ci trasciniamo dagli anni Settanta. Il che potrebbe avvenire, in termini generali, ridisegnando le aliquote, gli scaglioni, le deduzioni, le detrazioni, la quota esente e ogni tax expenditure in modo tale che, a regime, le classi meno abbienti maggiormente colpite dall’attuale sfavorevole congiuntura risultino ragionevolmente più avvantaggiate o meno svantaggiate rispetto a quelle più ricche o, comunque, assoggettate ad imposizioni cedolari proporzionali. Se non si vuol far deperire definitivamente l’Irpef, quelle poche risorse che via via i governi saranno in grado di trovare per finanziarne la riforma dovrebbero essere destinate a realizzare mix di interventi a favore delle famiglie che non si esauriscano, però, solo sul piano fiscale. Tali interventi dovrebbero essere diretti, in particolare, a compensare i livelli dei contribuenti più bisognosi – per i quali il sistema delle deduzioni o detrazioni per carichi familiari si rivela incapiente – con una sorta di imposta negativa avente la forma di credito di imposta. Nel contempo, essi dovrebbero essere integrati dall’erogazione di contributi sociali specifici e dal potenziamento dei servizi di appoggio alla famiglia, fino ad arrivare, se lo stato della spesa pubblica lo consentirà, alla garanzia di un “reddito minimo sociale” di inserimento.
Nuova Irpef. La redistribuzione potrebbe essere perseguita con maggiore sofisticatezza e attenzione tecnica anche in presenza di un numero ridotto di scaglioni e di aliquote e presupporrebbe interventi legislativi diversificati, interessanti altri tributi e coordinati con politiche, previdenziali ed assistenziali, strutturali della spesa. Avremmo, evidentemente, non una progressività in senso tecnico-formale basata su un numero eccessivo di scaglioni e su una altrettanto eccessiva differenzazione delle aliquote, ma una redistribuzione selettiva fondata, da un lato, su una riduzione delle aliquote marginali effettive a basso livello di reddito e, dall’altro, su una reale differenzazione tra bassi e alti redditi, perseguita, come si è detto, anche con lo strumento dei contributi al nucleo famigliare. Il tutto, in coerenza con i princìpi fondamentali di solidarietà e di uguaglianza, e cioè con quei princìpi che sono cardine e ispiratori dei princìpi di capacità contributiva e di progressività.
Patrimoniale. In prospettiva si potrebbe pensare all’introduzione, in via di discriminazione qualitativa, di una imposta sui grandi patrimoni ad aliquota ridotta, la quale potrebbe sostituire parzialmente ed aggregare molte delle numerose minipatrimoniali ora applicate. In teoria, con lo sviluppo dell’economia digitale un’imposta di questo genere diverrebbe di più facile accertamento potendo l’Agenzia delle Entrate utilizzare a tal fine la raffinata strumentazione informatica nella tracciabilità e, quindi, operare in regime di trasparenza finanziaria avvalendosi della trasmissione automatica delle informazioni bancarie.
Tassazione imprese. Quanto alla tassazione dei redditi societari, il nostro Paese dovrebbe produrre il massimo sforzo in sede comunitaria quanto meno per ridurre le forti differenze di regime attualmente esistenti tra paesi occidentali e paesi dell’Europa dell’Est. Andrebbe costruito, inoltre, un sistema più trasparente in cui i tax rate effettivi non siano significativamente superiori a quelli nominali e le divaricazioni tra risultati economici e basi imponibili siano rappresentate da poche misure selettive di incentivo alla crescita (innovazione, investimenti produttivi, localizzazione di nuovi rami d’azienda, aumenti di capitale) e recuperino gettito dall’area dei profitti societari, meramente speculativi (differenziali da trading, operatività in derivati non da copertura, ecc.), oltre che dall’evasione.
Federalismo. I tributi “propri” degli enti territoriali dovrebbero essere caratterizzati, piuttosto che come tributi generali e progressivi, come tributi paracommutativi di scopo o come tributi “controprestazione” aventi aliquote proporzionali. Sarebbe bene che alla vicinanza tra governanti e governati consegua una maggiore possibilità di monitorare il legame tra costi e benefici, ovverosia tra imposte prelevate e servizi locali resi, fino al punto di giungere in alcuni casi a “trasformare” il tributo in un vero e proprio canone-corrispettivo, riconducibile più al prezzo pubblico in senso stretto che allo schema dell’imposizione fiscale.
Delega. La legge delega fiscale approvata dal Parlamento nei primi mesi del 2014 rappresenta un apprezzabile intervento ma non sembra innestarsi sufficientemente in un coerente, più vasto disegno di riforma da realizzare negli anni a venire.
Ruolo amministrazione finanziaria. In questa situazione, è evidente che un riacquistato senso della funzione fiscale potrebbe sottrarre la lotta all’evasione alla logica di compromesso “politico” con le categorie interessate, la riporterebbe ai parametri dell’efficienza amministrativa e la rimetterebbe nelle mani dell’unico soggetto deputato istituzionalmente a farla, e cioè nelle mani dell’amministrazione finanziaria e, per essa, dell’Agenzia delle Entrate. Questa dovrebbe a sua volta potenziare tutti quei controlli che si fondano sulla tracciabilità delle operazioni economiche, e cioè sulla conoscenza in via telematica sia delle consistenze patrimoniali e finanziarie dei contribuenti, sia sulle spese da essi effettuate. L’obiettivo della creazione e dell’utilizzo di queste banche dati sarebbe quello non solo di accertare le imposte evase, ma anche di identificare i soggetti che hanno maggiore potenzialità evasiva. (Vai al documento integrale)
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