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martedì 29 Aprile 2025
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Fiat-Chrysler, gli aspetti fiscali trascurati della fusione

Il governo sembra disinteressarsi degli aspetti fiscali della fusione tra Fiat e Chrysler. Ma si tratta di una variabile che ha il suo peso: sarebbe opportuno valutare gli effetti della eventuale separazione del gruppo dall’Italia anche in termini di diritti impositivi.

di Yoda

La messa a fuoco delle implicazioni fiscali di un eventuale trasferimento di sede della Fiat negli Usa non può certo attendere che l’atto si perfezioni sotto il profilo giuridico. In qualsiasi altro paese il confronto preliminare tra Amministrazione e azienda sarebbe stato avviato da tempo. Auguriamoci che esso sia in corso anche in Italia, anche se si ha l’impressione che il Governo tuttora non conosca quale sia, oltre la contingenza, il piano di Marchionne. Una situazione che preclude qualsiasi consapevole ponderazione delle implicazioni fiscali. Eppure, il principale interesse della parte pubblica non è certo presentare, ex post, il conto della exit tax, quanto piuttosto agire affinché il gruppo Fiat  mantenga nel suo Paese d’origine le proprie principali funzioni industriali, di progettazione e di innovazione ad alto valore aggiunto, a beneficio delle capacità collettive e della capacità del sistema di produrre ricchezza.

 

L’uscita di Fiat da Confindustria potrebbe essere l’ultimo step, in ordine cronologico, di un lungo processo di separazione del gruppo dall’Italia. Una delle rare iniziative di successo di una grande impresa italiana che era riuscita a ‘conquistare’ la terza casa automobilistica di Detroit rischia di tradursi in una operazione in forte perdita per il sistema industriale nazionale, tenuto conto che potrebbero ridursi l’occupazione e l’innovazione di prodotto con le conseguenti ricadute in termini di tecnologia. Alcuni commentatori hanno interpretato la recente mossa di Marchionne come un assist al Governo Berlusconi chiamato a rifinanziare con denaro pubblico, oltre quanto già programmato, la cassa integrazione dei dipendenti di Mirafiori, cui erano stati invece prospettati tempi brevi per la piena ripresa dell’attività, con la messa in produzione di un suv di medie dimensioni. Ora Fiat ha invece fatto sapere che a Mirafiori verrà prodotto un mini suv a marchio Jeep, e soltanto a partire dalla seconda metà del 2013. Possiamo aggiungere che non è solo questa la posta in gioco nei rapporti con il Governo. Infatti, siamo di fronte ad una tappa rilevante del processo di integrazione con Chrysler e di progressivo trasferimento dall’Italia della testa del gruppo, su cui il Governo, e in particolare l’Amministrazione finanziaria, sono chiamati a riflettere, venendosi a porre in termini nuovi anche il problema della corretta ripartizione dei diritti impositivi. Del resto, quando nel 2000 Fiat rischiò di dover essere ‘preda’ di General Motors, l’Amministrazione finanziaria sostenne il suo complesso progetto di ristrutturazione, condividendo modalità e condizioni che potessero legittimamente ‘alleggerire’ il carico fiscale dell’operazione.

Oggi che la situazione si è rovesciata in senso favorevole a Fiat, la messa a fuoco delle implicazioni fiscali di un eventuale trasferimento di sede – cui finora nessuno ha fatto cenno – non può certo attendere che l’atto si perfezioni sotto il profilo giuridico. Come è noto, la perdita della residenza per effetto del trasferimento all’estero della sede o dell’incorporazione in una società estera costituisce (o almeno dovrebbe costituire) una operazione fiscalmente molto onerosa per una impresa, perché determina l’assoggettamento a tassazione di tutti i plusvalori latenti, compresi quelli relativi alla tecnologia, ai marchi, all’avviamento etc. Per il fisco, il primo problema – di fronte a progetti complessi come quelli che oggi scuotono il gruppo Fiat – è stabilire quale sia il momento in cui si può considerare trasferita la residenza. È forse la data in cui si perfeziona giuridicamente il trasferimento della sede o l’incorporazione transoceanica della società? Oppure il momento, di gran lunga antecedente, in cui altri fatti ed eventi significativi potrebbero avere segnato la spostamento oltre frontiera del centro di direzione effettiva? E, ancor prima, che rilievo assumono, ai fini fiscali, gli accentuati processi di integrazione industriale che determinano il trasferimento, a vantaggio di strutture estere del gruppo, di beni, tecnologia e competenze che erano state generate in Italia? Ed inoltre, vi è stata adeguata ‘compensazione’ con la tecnologia ‘importata’ dall’esterno, a beneficio della forza produttiva del gruppo e del sistema industriale nazionale? Tutti si chiedono se, quando e con quali modalità, Fiat darà attuazione all’atto di fusione con Chrysler, ma c’è da scommettere che si tratterà di un’operazione in sé priva di effettivo interesse fiscale.

E’ assai probabile, infatti, che l’incorporazione o il trasferimento di sede riguarderanno, giuridicamente, la holding capogruppo che potrà godere del regime di esenzione (i.e della participation exemption) in relazione alle plusvalenze relative alla partecipazione nella società operativa Fabbrica Italia Automobili. Addirittura, con i tempi che corrono e le forti perdite dei mercati azionari, il distacco dall’Italia – a livello di holding – potrebbe facilmente comportare il conseguimento – piuttosto che di plusvalenze – di minusvalenze da computare in deduzione: molti sono infatti – e già sperimentati da qualche altro grande gruppo – i possibili schemi di riorganizzazione che, facendo venire meno le condizioni di applicabilità della Pex ai pacchetti azionari trasferiti, potrebbero addirittura consentire la deducibilità dalla base imponibile domestica delle minusvalenze relative alle partecipazioni. Attendere questo eventuale epilogo per accendere un ‘faro’ sulla variabile fiscale potrebbe essere rischioso per il gruppo, e altrettanto pregiudizievole per il Paese. Il problema di fondo, infatti, è che nel momento in cui si dovesse arrivare alla fusione giuridica di Fiat (a livello della holding o subholding di controllo) in Chrysler, tutto potrebbe già essere stato ‘consumato’: trasferiti intangibles e competenze alle strutture estere del gruppo, senza adeguata compensazione, e trasferita la sede di direzione effettiva e, con essa, la testa pensante del gruppo.

Rivolgere l’attenzione alle future modalità di perfezionamento giuridico dell’esodo (qualunque esse siano), lasciarsi distrarre dalle incertezze e dal mistero che ancora avvolgono i futuri processi di riorganizzazione societaria, potrebbero indurci a sottovalutare tutto ciò che è già avvenuto ed è in corso di attuazione e il cui saldo (attivo o passivo per il sistema Paese) dovrebbe essere attentamente esaminato. In altri termini, l’esodo non si consumerà in un sol giorno; e, ben prima di riguardare le holding, coinvolge giorno dopo giorno le aziende operative, la dislocazione dei marchi, della tecnologia e dei progetti innovativi. Le vicende del gruppo Fiat degli ultimi anni sono estremamente significative e non prive di originalità. Dopo l’acquisizione di Chrysler, il gruppo non ha, infatti, puntato alla piena integrazione verticale delle funzioni; anzi ha avviato un complesso processo di costruzione di un nuovo soggetto globale i cui elementi distintivi sono costituiti , da un lato, dalla riaffermazione della importanza delle articolazioni territoriali per aree geografiche e, dall’altro, dalla parallela attribuzione degli effettivi poteri di gestione ordinaria e strategica ad un nuovo organo, il Group Executive Council, costituito non dagli azionisti di riferimento, ma da managers di differenti nazionalità ed esperienze: un organo di per sé privo di elementi qualificati che lo colleghino in modo specifico con l’uno o con l’altro Stato delle diverse aree, Italia compresa.

Semmai vi è da ricordare che il capo del Gec, Marchionne, si è messo personalmente alla guida dell’area che raccoglie le strutture del gruppo in Usa. Su base territoriale, infatti, l’organizzazione è articolata nei 4 gruppi operativi delle aree regionali strategiche (Usa, Europa, America latina e Oriente), per ottimizzare, come è stato affermato, l’incrocio tra i prodotti e i mercati di Fiat e di Chrysler. Le ‘conoscenze’, tuttavia, sono state integrate a livello sovranazionale ed è stato attribuito il potere di indirizzo strategico ad un soggetto globale unitario, il Gec (Group Executive Council). Costituito ad opera del Consiglio di amministrazione di Fiat riunitosi per la prima volta a Betim in Brasile il 26 luglio scorso, e insediatosi il 1 settembre, il Gec riunisce, sotto la presidenza di Marchionne, i 22 managers (di nove differenti nazionalità) di più alto livello, “che riflettono le diversità culturali e geografiche del nostro business”. Esso rappresenta, ad un tempo, il punto di arrivo di un complesso percorso di interscambio di competenze, di leadership e di tecnologia, di armonizzazione di processi e procedure, di unificazione delle reti distributive, etc. e, insieme, il punto di partenza di una unione – quella tra Fiat e Chrysler – che viene costruita, day by day, come un ‘processo’, rispetto al quale la futura integrazione giuridico – societaria è destinata a perdere di rilevanza e significatività. Nel comunicato diffuso in luglio dal Lingotto si precisa che il compito del Gec “è la supervisione dell’andamento del business”. E’ ben vero che, nella linea di comando, il Gec è sotto-ordinato rispetto al consiglio di amministrazione di Fiat, e – quando assume decisioni che hanno impatto su Chrysler – deve ottenere l’approvazione anche del consiglio di amministrazione di quest’ultima; ma è il Gec che detta l’indirizzo strategico, assume le decisioni più importanti e si occupa della gestione quotidiana sia di Fiat che di Chrysler definendo “gli obiettivi le decisioni strategiche e gli investimenti del gruppo, condividendo le best practices e lo sviluppo delle risorse manageriali”.

Nel suo articolo su Il Sole 24 Ore del 26 luglio “E Marchionne accelera ancora” Giuseppe Betta sottolinea che la nuova squadra di managers funzionerà “come un soggetto d’impresa unitario”, anticipando l’integrazione globale delle compagini aziendali di Fiat e Chrysler -“prima ancora che la fusione tra le due società si realizzi”. La costruzione di una direzione unitaria sarebbe un modo per fare emergere immediatamente i vantaggi della ristrutturazione, distogliendo l’attenzione dal tema della localizzazione della testa di comando. Attraverso il Gec – sottolinea l’articolo – Fiat è indotta ad operare, sin d’ora, come “un corpo unico ” con Crysler “spostando l’attenzione dall’interrogativo ricorrente sulla sua natura e matrice nazionale (basta scorrere i blog americani per accorgersi che anche là sussistono timori per un’eventuale perdita del carattere ‘made in USA’ da parte della terza delle case storiche di Detroit). Adottando questa configurazione, l’enfasi viene spostata sulle opportunità precipue offerte dalle varie aree mondiali e sulle politiche più valide per garantire il loro presidio”.Forse Marchionne pensava anche alla variabile fiscale, quando nel commentare l’evento, ha tenuto a sottolineare che il Gec sarà senza sede “sarà una banda di nomadi in viaggio tra tutte le regioni”. Come dire, se sono i managers del Gec a dettare effettivamente l’indirizzo strategico, se essi hanno nove differenti nazionalità e sono senza sede, in quale paese sarà possibile localizzare la sede di direzione effettiva, ossia l’elemento qualificante che incardina la residenza fiscale in uno o in altro paese? Intanto, tutte le quattro regioni sono unitariamente sottoposte a questo medesimo organo di indirizzo strategico, si sono già ‘scambiate’ tecnologia e conoscenze e ‘mischiato’ i marchi.

Utilizzano procedure uniformi per regolare i processi interni e la produzione e adottano modalità omogenee di analisi e di valutazione delle performance. Così, possono ora essere facilmente messe a confronto, e in competizione tra di loro, non solo le aziende, ma, nel loro complesso, i diversi “sistemi paese”. Prima che la competizione giunga al suo epilogo e venga deciso in quale Paese incardinare la testa pensante del gruppo, i soggetti interessati (pubblici e privati) dovrebbero valutare quanta parte delle eccellenze, della progettualità e delle competenze formatesi nella lunga storia degli stabilimenti Fiat in Italia sono già andate a rafforzare le performance delle altre regioni; e quanta parte delle eccellenze altrui è stata ‘importata’: ponderando l’analisi alla luce dei principi dettati a livello internazionale dalle Guidelines Ocse sui prezzi di trasferimento e, in particolare, dal recente rapporto Ocse sulle Business Restructuring. La variabile fiscale ha indubbiamente il suo peso. Ma ha anche il suo ruolo da giocare preventivamente e in senso positivo. In qualsiasi altro paese il confronto preliminare sarebbe stato avviato da tempo. Auguriamoci che esso sia in corso anche in Italia, anche se si ha l’impressione che il Governo tuttora non conosca quale sia, oltre la contingenza, il piano di Marchionne; e che ciò precluda qualsiasi consapevole ponderazione delle implicazioni fiscali. Eppure, il principale interesse della parte pubblica non è certo presentare, ex post, il conto della exit tax, quanto piuttosto agire affinché il gruppo Fiat mantenga nel suo Paese d’origine le proprie principali funzioni industriali, di progettazione e di innovazione ad alto valore aggiunto, a beneficio delle capacità collettive e della capacità del sistema di produrre ricchezza.

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