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lunedì 10 Marzo 2025
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Cassazione: accertamento valido, anche su proventi illeciti vanno pagate le imposte

La capacità “reddituale” proveniente dai proventi illeciti non può valere come prova contraria idonea a superare la presunzione da accertamento sintetico. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con l’Ordinanza numero 4965, del 26/02/2024. 

Sembra una cosa scontata, ma, evidentemente, c’è voluto un intero giudizio, fino alla Suprema Corte, per chiarire il concetto. Vediamo i fatti.

Nel caso di specie, la controversia derivava dall’impugnazione da parte del contribuente di un avviso di accertamento, con cui veniva rettificato il reddito, ai sensi dell’art.38, commi 4 e 5, del d.P.R. n.600 del 1973, per l’anno di imposta 2009. La Commissione Tributaria Regionale delle Marche rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza di primo grado, che aveva a sua volta accolto il ricorso proposto dal contribuente.

In particolare, il Giudice di appello rilevava che l’Amministrazione Finanziaria aveva, a suo avviso erroneamente, omesso di considerare l’effetto giustificativo delle somme conseguite dal contribuente a titolo di provento del delitto da appropriazione indebita, le quali superavano quindi la presunzione accertativa di maggiore capacità contributiva di cui al detto accertamento sintetico.

Il contribuente, rilevavano i giudici di merito, era stato del resto molto solerte nel fornire ampia dimostrazione della realizzazione della condotta illecita, che dimostrava, secondo gli stessi giudici, una capacità di spesa compatibile con il reddito dichiarato.

Avverso la sentenza l’Agenzia delle Entrate proponeva quindi ricorso per cassazione, deducendo, per quanto di interesse, l’evidente errore in diritto commesso dalla Commissione Tributaria Regionale, laddove questa aveva ritenuto che la percezione di proventi di derivazione illecita da reato di appropriazione indebita fosse idonea a giustificare il reddito (non dichiarato).

Secondo la Cassazione la censura era fondata. Evidenziano i giudici di legittimità che in tema di imposte sui redditi, l’accertamento del reddito con metodo sintetico non impedisce al contribuente di dimostrare, attraverso idonea documentazione, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte “da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenute alla fonte a titolo di imposta” e, più in generale, che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore.

Ma, evidenzia la Corte, ai sensi dell’art.14, quarto comma, della legge n. 537 del 1993 i proventi illeciti, lungi da costituire redditi esenti, costituiscono redditi sui quali vanno in ogni caso pagate le imposte. Particolare che, evidentemente, era sfuggito ai giudici delle Commissioni di merito.

Ne conseguiva pertanto la palese erroneità della sentenza impugnata, laddove aveva riconosciuto che l’appropriazione indebita di somme considerevoli da parte del contribuente potesse costituire prova contraria “idonea” ai sensi del citato articolo 38.

La pronuncia rappresenta comunque l’occasione anche per un accenno alla tematica generale della tassazione dei proventi illeciti. Il quadro normativo di riferimento è costituito, come visto, dalla L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4, che prevede che “Nelle categorie di reddito di cui al testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, comma 1, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria”.

La Cassazione ha del resto a tal proposito già affermato il principio secondo cui i proventi derivanti da fatti illeciti, qualora non siano classificabili nelle categorie reddituali di cui al Dpr. n. 917 del 1986, art. 6, comma 1, vanno, comunque, considerati come redditi diversi, in base a quanto espressamente stabilito dal Dl. n.223 del 2006, art. 36, comma 34-bis, norma quest’ultima avente efficacia retroattiva, in quanto interpretazione autentica della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4.

Non occorre peraltro in questi casi neppure che la sussistenza del delitto presupposto sia accertata da una sentenza di condanna passata in giudicato, essendo sufficiente che il fatto costitutivo di tale delitto non sia stato giudizialmente escluso, nella sua materialità, in modo definitivo.

E, anche nel caso in cui il contribuente/imputato abbia patteggiato, la prova della legittimità della pretesa (fiscale) dell’Amministrazione sarà fornita ex se, laddove la Corte di Cassazione ha infatti stabilito che il patteggiamento costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice tributario nel processo relativo alla legittimità dell’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate per il recupero a tassazione dei proventi illeciti.

Il cosiddetto “pretium sceleris” si deve quindi sempre considerare come reddito imponibile, dovendo assoggettarsi a tassazione ogni tipo di proventi illeciti. Il reddito derivante dagli illeciti, essendo il reddito un dato economico e non giuridico è dunque comunque tassabile. Per chi commette delitti da cui deriva un determinato provento non vige, in sostanza,alcuna immunità fiscale.

In base all’articolo 53 della Costituzione, infatti, ciascuno deve contribuire alle spese pubbliche. E vi deve dunque contribuire (a maggior ragione) anche chi delinque, ocomunque ottiene proventi da attività illecite.

In conclusione, l’importanza di una tale azione di contrasto rileva sotto vari profili, sia latu sensu etico, come reazione a comportamenti riprovevoli, sia economico/giuridico, come giusta imposizione su redditi comunque non dichiarati.

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