Il riordino della tassazione dei patrimoni immobiliari, esigenza sollevata da più parti fin dagli anni ’90, è ancora in attesa. Il governo Draghi ha espresso il proposito di aggiornare gli estimi catastali. Una decisione politicamente difficile da praticare che ha incontrato infatti l’opposizione di gran parte dei partiti che compongono l’attuale maggioranza. Il tentativo non ebbe miglior fortuna con il governo Renzi, che lasciò in parte inattuata un’altra legge delega in materia, la 23 del 2014 varata da un suo predecessore a Palazzo Chigi. La riforma congegnata da Mario Monti prevedeva come base di calcolo delle nuove rendite catastali per abitazioni e uffici pubblici e privati non più il numero dei vani ma dei metri quadri di superficie, come si fa per le attività commerciali. Inoltre l’aggiornamento della tariffa catastale avrebbe incluso caratteristiche innovative, quali il contesto urbano, la tipologia edilizia, lo stato di conservazione, l’ascensore, la superficie, il piano e l’affaccio. Nella delega l’imponibile era definito dai valori medi di mercato nel triennio, aggiornati ogni 5 anni e tutta l’operazione doveva essere a parità di gettito, cioè senza un aumento del prelievo complessivo sul comparto casa. E’ lecito pensare che anche l’intervento riformatore ipotizzato da Mario Draghi dovrebbe mantenere l’impianto della mancata riforma Monti.
Come è noto tutto nasce dalla giungla di aliquote e imponibili delle imposte immobiliari italiane (Imu, Irpef, registro, Iva, ipotecarie, successione, Tasi) che poggia su valori che risalgono a quarant’anni fa. Le tariffe degli estimi degli immobili e dei terreni sono state aggiornate l’ultima volta, rispettivamente, nel 1992 e nel 1988 sulla base di informazioni relative al periodo 1988-89 e 1978-79. Una revisione in solo 17 comuni fu effettuata a seguito della legge finanziaria del 2015.
Oggi il prelievo sul mattone ha raggiunto, dopo la crisi del 2011, i 41 miliardi, pari al 2,4% del Pil , in linea con la media europea e con un’evasione stimata tra il 5 e il 6%. Il centrodestra ha fatto della tentata revisione degli estimi catastali una questione identitaria, bollandola come una manovra neanche tanto subdola della sinistra per fare cassa con un aumento della pressione fiscale sui già tanto tartassati proprietari di immobili. Effettivamente i tributi locali sul mattone, nel passaggio dall’Ici all’Imu sono lievitati dopo il 2011 da 9 a 23 miliardi e il ricordo ancora brucia. Il problema, al quale anche la delega di Monti cercava di dare a suo modo una soluzione, non è come aumentare le tasse sulla casa ma ripartirle in modo equo tra i contribuenti e eliminando sperequazioni divenute intollerabili tra immobili anche nello stesso quartiere. Aree di grande pregio possono avere perso valore in questi ultimi decenni e viceversa. Il proprietario della casa nuova costruita in periferia si trova spesso a pagare un’imposta maggiorata rispetto al detentore dell’abitazione, vetusta ma di maggior pregio sul mercato, situata nel centro storico o nei quartieri limitrofi. Da qui l’esigenza di attuare una riforma per semplificare e rendere il sistema fiscale più equo, come suggeriscono da tempo il Fondo Monetario Internazionale, il Consiglio dell’Unione Europea e da ultima la Commissione Ue nelle sue raccomandazioni di riforma anti-pandemia.
Di una “eliminazione di un ingiusto vantaggio”, riferendosi alla riforma del Catasto, parla apertamente un dossier elaborato lo scorso anno dall’Osservatorio dei conti pubblici dell’Università cattolica. Quel che spaventa la politica sono gli effetti redistributivi della riforma. Le famiglie povere oggi sono gravate da un onere maggiore rispetto a quelle più facoltose ( la differenza tra il valore di mercato e quello catastale è molto maggiore per i ricchi). Quindi alcuni contribuenti pagherebbero di più, ma altri meno, a condizione che si conservasse il requisito della parità di gettito. Benefici ne trarrebbe anche la lotta all’evasione: La Guardia di Finanza e gli organismi di accertamento avrebbero uno strumento di controllo migliore. Il mancato gettito (tax gap) per la sola Imu nel 2017 era di 4,9 miliardi su un totale di 18,9. I dati pubblicati nel Rapporto immobili in Italia 2019 del Mef, calcolata sulla consistenza delle proprietà immobiliari fotografata al 2016 , pone il legislatore davanti a un dilemma tutto politico. Il valore imponibile potenziale attuale passerebbe da un valore medio di 100 mila 820 euro a una stima di mercato di 190 mila 434, l’89 per cento in più, con una forbice che si allarga fortemente con la crescita del reddito. Si potrebbero rivedere imponibili e aliquote per mantenere la parità di gettito. Oppure fare come suggeriscono l’Ocse e la stessa Banca d’Italia ancora nell’ultima audizione in Parlamento: accrescere la tassazione sui patrimoni immobiliari più consistenti per abbassare il cuneo fiscale sul lavoro.