Irragionevole per i giudici della Consulta la norma che consentiva al fisco di effettuare accertamenti presuntivi sulla base dei movimenti bancari che il contribiente non era in grado di giustificare o non aveva dichiarato.
di Pasquale Fabbrocini
La Corte Costituzionale[1] ha recentemente bocciato la disposizione che consentiva al fisco di qualificare, sulla base di una presunzione legale relativa, come compensi “in nero”, i prelievi bancari, effettuati dai lavoratori autonomi, quando non era provato chi fosse il beneficiario delle somme prelevate e le stesse non trovavano riscontro nelle scritture contabili[2]. In sostanza, la Consulta ha ritenuto che una siffatta presunzione è lesiva del principio di ragionevolezza nonché del principio della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito. Invero, l’Agenzia delle Entrate, aveva già, nella sostanza, anticipato tali conclusioni della Consulta, nell’ambito degli indirizzi operativi sull’attività di accertamento per il 2014[3] (i primi della gestione Orlandi).
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Vediamo, innanzitutto, come si è originata la questione controversa. La norma censurata prevede, in primo luogo, che le risultanze dei rapporti finanziari detenuti dal contribuente possono essere utilizzati ai fini dell’accertamento di un maggior reddito, salvo che il contribuente dimostri che ne ha tenuto conto nella determinazione dei redditi tassati o che essi non hanno rilevanza a tal fine. Prevede, poi, che i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti sono posti come ricavi o compensi a base delle rettifiche e degli accertamenti (e sono quindi assoggettabili a tassazione), se il contribuente non ne indica i soggetti beneficiari e sempreché non risultino dalle scritture contabili.
La questione devoluta alla cognizione della Consulta, scaturisce dal fatto che la presunzione disciplinata da tale ultima parte della norma, nella sua originaria formulazione, era limitata ai soli ricavi, ossia, ai proventi delle attività di impresa, e, pertanto, la disposizione in parola interessava esclusivamente gli imprenditori. La Finanziaria per il 2005, inserendo nella disposizione censurata anche il riferimento ai compensi, ossia, ai proventi delle attività di lavoro autonomo, ne ha esteso l’ambito applicativo anche a tale categoria di operatori economici[4]. Stante tale quadro normativo, la questione devoluta all’esame della Consulta è consistita nello stabilire se la disposizione censurata fosse rispettosa del principio di capacità contributiva[5], laddove prevede che quando un lavoratore autonomo effettua un prelievo di danaro, che non trova riscontro nelle scritture contabili[6] e senza essere in grado di indicare il beneficiario della spesa sostenuta con tale somma, si radichi una doppia presunzione, ossia, che con le somme prelevate il professionista abbia effettuato acquisti “in nero” di beni e servizi, avvalendosi dei quali, a sua volta, abbia effettuato prestazioni di servizi sempre “in nero”.
La Consulta ha osservato che “anche se le figure dell’imprenditore e del lavoratore autonomo sono per molti versi affini nel diritto interno come nel diritto comunitario, esistono specificità di quest’ultima categoria che inducono a ritenere arbitraria l’omogeneità di trattamento prevista dalla disposizione censurata, alla cui stregua anche per essa il prelevamento dal conto bancario corrisponderebbe ad un costo a sua volta produttivo di un ricavo. (…) Il fondamento economico-contabile di tale meccanismo è stato ritenuto da questa Corte (sentenza n. 225 del 2005) congruente con il fisiologico andamento dell’attività imprenditoriale, il quale è caratterizzato dalla necessità di continui investimenti in beni e servizi in vista di futuri ricavi. L’attività svolta dai lavoratori autonomi, al contrario, si caratterizza per la preminenza dell’apporto del lavoro proprio e la marginalità dell’apparato organizzativo[7].”. Per tali motivi la Corte Costituzionale ha ritenuto la suddetta presunzione contraria al principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.).
La pronuncia della Corte Costituzionale ha effetto sui rapporti tributari non ancora definiti, ossia, sugli accertamenti non ancora emessi e su quelli già notificati ma non ancora definitivi. Questi ultimi sono tutti gli accertamenti per i quali, alla data del 6 ottobre scorso. (data di pubblicazione della sentenza in Gu)[8], non sono scaduti i termini per l’impugnazione dinanzi alle Commissioni Tributarie, per i quali non sia intervenuta sentenza passata in giudicato e che non siano già stati definiti mediante conciliazione giudiziale, accertamento con adesione o mediazione tributaria[9].
E’ opportuno tuttavia ricordare che già prima della pronuncia della Consulta qui brevemente commentata, l’Agenzia delle Entrate, con i primi indirizzi operativi sull’attività di accertamento della gestione Orlandi[10], aveva notevolmente calibrato la presunzione censurata dal Giudice delle Leggi, in quanto era già stato indicato agli Uffici operativi di utilizzare tale presunzione “secondo logiche di proporzione e ragionevolezza avulse da un acritico automatismo”. Inoltre, nelle suddette istruzioni si prescrive di valutare la portata probatoria dei prelievi operati dal professionista nell’ambito di un contraddittorio con il contribuente, non dando rilievo a quelle movimentazioni bancarie di modico valore, coerenti con il reddito dichiarato dal professionista e riferibili, secondo la comune esperienza, al consumo personale e familiare del medesimo.
Note:
[1] Si fa riferimento a Corte Cost., sentenza n. 228, decisione del 24/09/2014, depositata-pubblicata in G.U. il 6/10/2014.
[2] La norma censurata è la disposizione contenuta all’articolo 32, comma 1, secondo periodo del D.P.R. n. 600/1973 (contenente disposizioni sull’accertamento tributario), come integrato dall’articolo 1, comma 402, lett. a), n. 1 della Legge n. 311 del 30/12/2004 (Legge Finanziaria per il 2005).
[3] Si veda la Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 25/E del 6/08/2014, par. 2.3 (imprese minori e lavoratori autonomi).
[4] E’ utile rilevare che la Consulta ha sposato la tesi del carattere innovativo e non meramente ricognitivo della disposizione censurata, riconoscendo che essa non era applicabile anteriormente all’entrata in vigore della Finanziaria per il 2005.
[5] Tale principio è sancito dall’articolo 53 della Costituzione.
[6] Si segnala che gli esercenti arti e professioni assolvono, di regola, all’obbligo di tenuta delle scritture contabili mediante la c.d. “contabilità semplificata”, ossia, mediante la tenuta dei soli registri IVA, opportunamente integrati con la rilevazione dei componenti reddituali (costi, compensi, ammortamenti e plusvalenze): tale circostanza è stata valorizzata dalla Consulta, la quale ha evidenziato che la contabilità semplificata determina, fisiologicamente, una promiscuità tra i flussi finanziari personali e quelli relativi all’attività.
[7] La Consulta, tuttavia, ha riconosciuto le difficoltà operative connesse alla ricostruzione degli incassi a pannaggio dei lavoratori autonomi, valorizzando la disciplina sulla tracciabilità dei movimenti finanziari, contenuta all’art. 15 del D.L. n. 179/2012, in attuazione del quale è stato emanato il D.M. del MISE del 24/01/2014, in base al quale, dal 1/01/2014, vi è l’obbligo, sia pure sprovvisto di sanzioni, di accettare pagamenti di importo superiore a trenta euro, effettuati con carte di debito in favore di imprese e professionisti per l’acquisto di prodotti o per la prestazione di servizi.
[8] Infatti, posto che la sentenza in commento si colloca tra quelle “di accoglimento”, ossia, quelle che in accoglimento di una censura di incostituzionalità di una norma primaria (leggi, decreti legge e decreti legislativi), ne riconosce il contrasto con la Costituzione, la sua efficacia si produce dal giorno successivo a quello di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Ciò in quanto il principio generale fissato dall’art. 136 della Costituzione e ribadito dall’art. 30 della L. 11 marzo 1953, n. 87, è nel senso che la legge dichiarata incostituzionale cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione – da effettuarsi nelle medesime forme stabilite per la pubblicazione dell’atto dichiarato costituzionalmente illegittimo – del dispositivo della decisione emessa dalla Corte costituzionale.
[9] Per un’ampia e puntuale descrizione degli effetti delle sentenze della Corte Costituzionale sui rapporti tributari, si veda la Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 2/E del 3/01/2005.
[10] Si veda la nota 3.