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martedì 29 Aprile 2025
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Delega fiscale (1): L’onere della prova a carico dell’Amministrazione in vigore da 50 anni. Una lettura critica dell’articolo 4

 di Francesco Ferrari

Con questo primo articolo Lef avvia una serie di riflessioni su alcuni aspetti del disegno di Legge Delega sulla Riforma Fiscale approvato dal Consiglio dei ministri il 16 marzo 2023 generalmente trascurati nei primi commenti apparsi sulla stampa, che si sono concentrati sugli aspetti di maggiore impatto quali la riduzione delle aliquote IRPEF, la razionalizzazione delle aliquote dell’IVA e l’abrogazione dell’IRAP.

Altri elementi, infatti, presentano criticità notevoli che meriterebbero di essere comunque discusse.

Il primo aspetto su cui vorremmo soffermarci è come molte delle disposizioni previste, in realtà, siano una mera riproposizione di disposizioni normative già in vigore, con la conseguenza che l’inserimento di tali previsioni nella legge delega da un lato sembra voler attribuire a presunti mancati coordinamenti normativi inefficienze dovute a mere disfunzioni organizzative, dall’altro non crediamo possa risolvere le stesse, attesa l’assenza di novità che le nuove disposizioni apporterebbero.

Un secondo aspetto, altrettanto critico, è rappresentato da diversi tentativi della legge delega di “amministrare per legge” tentando di incasellare in specifiche previsioni normative, prassi, presunzioni e assetti giurisprudenziali che meglio sarebbe governare impartendo istruzioni agli uffici e legiferando (se necessario) per principi. Solo in tal modo, a nostro parere, si darebbe al costrutto normativo un respiro ampio che consenta di adeguare ai singoli casi riscontrati le disposizioni, evitando automatismi che, in taluni casi, potrebbero raggiungere risultati paradossali almeno quanto quelli che con le disposizioni si vuol tentare di scongiurare.

Un terzo aspetto da ponderare è quello relativo a talune previsioni il cui impatto sul procedimento appare invece discutibile e difficilmente ponderabile.

Da ultimo, alcune disposizioni, anche opportune, hanno a nostro giudizio un costo notevole che rischia di essere sottostimano, o di non essere affatto stimato, concentrando l’attenzione sulle sole disposizioni (riduzione aliquote IRPEF e flat tax) che hanno un impatto significativo di più immediata evidenza.

Un primo commento lo dedichiamo all’articolo 4, che si prefigge la revisione della L. 212/2000.

Nella lettera a) ci si propone di rafforzare l’obbligo di motivazione degli atti impositivi “anche mediante l’indicazione delle prove su cui si fonda la pretesa”.

L’onere della prova a carico dell’amministrazione finanziaria è stato recentemente aggravato mediante l’inserimento nell’art. 7 del D.Lgs. 546/1992 del comma 5 bis ad opera della legge n. 130/2022.

La disposizione testualmente recita «L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni. Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati.»

La previsione della delega, quindi, appare avere una mera valenza simbolica, in quanto già la disposizione contenuta nel decreto che regolamenta il processo tributario sembra ridurre l’ambito di applicazione delle presunzioni, né si comprende cosa la disposizione delegata possa aggiungere al contenuto dell’articolo 42 del d.P.R. 600/1973 che prevede esplicitamente che l’atto impositivo debba essere motivato, a pena di “nullità”, «in relazione ai presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo hanno determinato».

Per quanto attiene alla lettera b) contenente l’indicazione di valorizzare il principio del legittimo affidamento del contribuente e di certezza del diritto, ci si limita ad osservare come l’affidamento e la buona fede siano già tutelate dall’articolo 10 comma 2 dello Statuto (per la cui riforma l’articolo 4 della legge delega fornisce indicazioni). Inoltre, temiamo che difficilmente una legge che enunci elementari principi di certezza del diritto, quali quello di irretroattività delle norme e di chiarezza delle stesse possa raggiungere un qualunque obiettivo in quanto, come noto, una legge ordinaria non può in alcun modo limitare il potere del Legislatore (delegato o meno) di redigere norme poco chiare, o di modificare le stesse in maniera caotica e ravvicinata nel tempo, come spesso avviene. D’altronde, anche l’idea di poter scrivere leggi, per loro stessa natura generali ed astratte, che non necessitino di interpretazione è una mera illusione ed anzi si teme che scrivere norme tributarie per “ribadire” principi già presenti nell’ordinamento (rectius: redigere leggi a pura valenza simbolica) contribuisca solo a ridurre tale certezza, aumentando (inutilmente) la generale confusione in cui versa il diritto tributario. Probabilmente, ciò a cui il redattore della bozza mira è porre un (condivisibile e comprensibile) argine alle interpretazioni, talvolta sorprendenti, fornite dalla Cassazione. Se così è, lo strumento prescelto è poco consono: non si sa se tale (evidentemente avvertito) problema possa avere una soluzione definitiva, ma sicuramente, consentire al diritto di consolidarsi, rinunciando alla produzione incessante di norme temporanee, speciali, e asseritamente “urgenti”, potrebbe essere una scelta da vagliare.

La lettera c) si prefigge una razionalizzazione dell’istituto dell’interpello ribadendo, (ad eccezione della previsione di onerosità dell’interpello contenuta al numero 4) in realtà quanto già contenuto nella L. 212/2000 all’articolo 11 commi 1, 4 e 6. Le disposizioni sembrano voler evitare il ripetersi di una situazione di sostanziale ingestibilità dell’istituto verificatasi a seguito dell’emanazione delle norme che hanno previsto i vari “bonus edilizi”. Anche in questo caso, però, non è chiaro quale novità possa contenere la legge che non sia ampiamente raggiungibile in base ad una riorganizzazione del processo ad opera dell’amministrazione. Nessuna norma vieta oggi all’amministrazione finanziaria di

  • “emanare provvedimenti interpretativi di carattere generale”, anche prevedendo una “casistica delle fattispecie di abuso del diritto” (la cui presenza, peraltro, contrasterebbe non con una espressa disposizione legislativa ma con lo spirito dell’articolo 10-bis che chiaramente prevede una valutazione “case by case” delle singole situazioni e finirebbe, paradossalmente, con l’attribuire una vera e propria funzione legislativa all’amministrazione, atteso che “elusione” è ciò che non è “evasione” e quindi ciò che la legge prevede o non vieta ma che ne stravolge i principi);
  • dichiarare inammissibili le questioni che “trovano soluzione in documenti interpretativi già emanati”;
  • oppure mettere a disposizione dei contribuenti “strumenti di interlocuzione rapida”.

Anche in questo caso, quindi, non si tratta di altro se non di ribadire quanto già oggi normativamente previsto o comunque raggiungibile mediante una diversa organizzazione, amministrativa, del procedimento.

In merito all’onerosità dell’istituto, desta seria preoccupazione la generalizzazione della previsione. Appare evidente, infatti, che ottenere chiarimenti da parte dell’amministrazione in relazione all’applicazione delle disposizioni tributarie in presenza di condizioni di incertezza (art. 11.1.a L. 212/2000), è un chiaro diritto di tutti e che chiunque ponga il quesito interpretativo, non può che sollecitare una risposta il cui beneficio, una volta resa pubblica, si riversa sull’intera collettività a cui, come ribadito dalla legge delega, vuole essere garantita la “certezza del diritto”.

In tal senso, la previsione di un onere a carico dell’interpellante, sia pure commisurato alle proprie condizioni economiche, appare in evidente contrasto con tale principio e si trasforma nell’ennesimo “balzello” che pure la delega punta ad eliminare (vedi art. 2, comma 1, lettera c), numero 2).

Analoghe conclusioni possono essere svolte con riferimento agli interpelli di cui all’art. 11 comma 2 (disapplicativi “obbligatori”) in quanto le singole disposizioni antielusive disapplicabili sono poste a presidio di specifiche esigenze fiscali andando a prevedere, cautelativamente, degli aggravi “anti sistema”, cui il contribuente non dovrebbe essere assoggettato qualora non si concretizzino le fattispecie ritenute “elusive” che le disposizioni mirano a disinnescare (es. limitazione riporto posizioni soggettive in operazioni di fusione e scissione).

Discorso a parte va invece effettuato per i cosiddetti interpelli “probatori” (art. 11.1.b) e “antiabuso” (art. 11.1.c) nonché per le procedure previste dall’art. 31 ter del d.P.R. 600/1973 (accordi preventivi).

In questi casi, infatti, le procedure di interpello o comunque di confronto con l’amministrazione vengono attivate per mero interesse del contribuente volto ad ottenere una verifica preventiva della propria situazione soggettiva al fine di non incorrere nelle conseguenze che il mancato rispetto della normativa tributaria, eventualmente successivamente contestato, comporterebbe.

In tali casi, quindi, risorse pubbliche vengono utilizzate al fine principale di ridurre i rischi del singolo contribuente interpellante e, pur essendo comunque presente un generale interesse alla compliance, lo stesso appare perseguito con costi maggiori rispetto a quelli altrimenti sostenuti qualora il controllo venisse effettuato a posteriori e solo sulle situazioni che l’amministrazione finanziaria valuta come potenzialmente rischiose.

In tali ipotesi, quindi, la prevista onerosità appare giustificabile sotto il profilo della ragionevolezza in quanto le istanze si traducono nella richiesta di accesso ad un servizio la cui utilità è principalmente, se non esclusivamente, fruita dall’interpellante.

Al contrario, l’utilizzo della “fee” di accesso come sistema volto a ridurre il numero di richieste di interpretazione, in un sistema in cui la legislazione tributaria è confusa, caotica e spesso contraddittoria, appare addirittura classista, finendo per discriminare in base al censo il diritto di comprendere il senso delle norme tributarie, con potenziale violazione del diritto sancito dall’art. 3 della Costituzione.

La lettera d) dell’art. 4 delega il governo a prevedere una disciplina generale del diritto di accesso agli atti del procedimento tributario.

La disposizione appare opportuna benché la disposizione difficilmente avrà un reale impatto sul procedimento tributario e sulla tutela dei diritti di difesa e di partecipazione a cui l’istituto amministrativo è volto. In presenza di una giurisprudenza granitica del Consiglio di Stato che garantisce l’accesso agli atti del procedimento di accertamento tributario, limitando lo stesso esclusivamente nella fase istruttoria del provvedimento, l’esigenza di una disciplina generale appare piuttosto volta a regolamentare l’utilizzo (distorto?) che dell’istituto è stato fatto con finalità estranee a quelle del procedimento tributario. È cosa nota, infatti, che l’amministrazione finanziaria detenga dati e informazioni sui contribuenti che spesso possono assumere rilevanza nell’ambito di procedimenti civili. In tali casi l’attuale normativa prevede, in linea generale, che sia l’amministrazione a dover ponderare l’interesse “giuridicamente tutelato” del richiedente con quello alla riservatezza dei terzi, pur non mancando norme che attribuiscono tale valutazione al giudice del procedimento civile. Ne consegue che il principale problema che l’amministrazione finanziaria affronta in tale ambito si differenzia da quello degli altri soggetti sottoposti alle discipline sugli accessi, esclusivamente per la numerosità delle informazioni detenute, e quindi richieste (oltre che, ovviamente, per la natura delle stesse). Ne consegue che la soluzione adottata di prevedere una disciplina genera dell’accesso agli atti del procedimento tributario appare comunque parziale e volta esclusivamente a ridurre l’ambito di discrezionalità (e di responsabilità) dell’amministrazione, e non a tutelare i diritti del contribuente quando coinvolto nel procedimento tributario.

La lettera e) si prefigge di prevedere un regime di nullità dell’atto qualora adottato in violazione del principio del contraddittorio. Sul punto vanno svolte riflessioni su due aspetti: il primo relativo al regime di nullità e il secondo relativo all’estensione che la disposizione delegata vorrà dare al “principio del contraddittorio”. Sul primo punto, la legge delega non sembra voler intervenire sul regime di nullità degli atti tributari che, in base alla posizione assunta dalla Cassazione in più sentenze, deve essere sostanzialmente ricondotto ad un regime di annullabilità (escludendo la rilevabilità d’ufficio del vizio e richiedendo la tempestiva impugnazione del provvedimento). Tale aspetto, d’altronde, sembra non differenziare, nella pratica, la contestabilità dell’invalidità degli atti tributari da quella degli altri atti amministrativi, per i quali la nullità viene comunque relegata ad ipotesi meramente residuali dall’art. 21-septies della L. 241/1990. Conseguentemente, il richiamo alla “nullità” deve probabilmente essere interpretato come un’ulteriore imperfetta qualificazione del regime di invalidità dell’atto amministrativo presente in una disposizione tributaria.

In merito al secondo punto, non può non osservarsi come un intervento legislativo volto ad estendere il ricorso al contraddittorio preventivo all’emissione dell’atto impositivo sia stato recentemente compiuto dalla Legge del 28/06/2019 n. 58 di conversione del decreto-legge 34/2019 che ha introdotto nel d.lgs. 218/1997 l’articolo 5-ter, rubricato “invito obbligatorio” (in vigore dal 1° luglio 2020). La disposizione attuale prevede un “obbligo” di contraddittorio preventivo, prevedendo tuttavia, per la declaratoria di invalidità dell’atto, un meccanismo probatorio astrattamente riconducibile a quello previsto dall’articolo 21-octies, comma 2, della L. 241/1990. La norma sul procedimento amministrativo, infatti, statuisce la non annullabilità del provvedimento per vizi del procedimento sia nei casi in cui si tratti di atti a natura vincolata, sia nei casi in cui si tratti di atti connotati da discrezionalità qualora il vizio sia riconducibile alla mancata comunicazione dell’avvio del procedimento e a condizione che l’amministrazione sia in grado di dimostrare in giudizio che “il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.” Nella sostanza, quindi, in merito ad atti a contenuto discrezionale, il vizio conseguente la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, viene derubricato ad irregolarità prevedendo tuttavia un onere della prova che, almeno in teoria, dovrebbe essere difficilmente sopportabile dall’amministrazione procedente.

La disposizione tributaria, dopo aver previsto espliciti casi in cui l’obbligatorietà dell’invito è esclusa, prevede che «il mancato avvio del contraddittorio mediante l’invito di cui al comma 1 comporta l’invalidità dell’avviso di accertamento qualora, a seguito di impugnazione, il contribuente dimostri in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere se il contraddittorio fosse stato attivato.»

Analizzando il testo della norma attualmente in vigore e valutando le conseguenze pratiche che la stessa ha avuto nel primo periodo di applicazione, pur dovendo osservare come “l’invito” fatto dal legislatore all’amministrazione finanziaria sia stato nella generalità dei casi accolto, non può non sottolinearsi come di mero “invito” si tratta, restando nella pratica privo di conseguenze il mancato accoglimento dello stesso da parte dell’Agenzia delle entrate.

Infatti, la disposizione tributaria, a differenza di quella contenuta nella legge sul provvedimento amministrativo, non pone l’onere della prova “di resistenza” delle proprie argomentazioni a carico dell’amministrazione ma a carico del contribuente (coerentemente con la natura vincolata degli atti di accertamento tributario). Diretta conseguenza è che non si comprende per quale motivo, in assenza di tale disposizione, il giudice avrebbe dovuto accogliere le tesi dell’amministrazione qualora il contribuente fosse stato comunque in grado di dimostrare in giudizio l’infondatezza della pretesa. Vero è che, testualmente, l’onere del contribuente dovrebbe essere quanto meno più limitato, ma la locuzione adottata (“dimostri in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere”) è difficilmente circoscrivibile.

Peraltro, non può non sottolinearsi il fatto che la stessa Agenzia delle entrate, nella circolare esplicativa 17/E del 2020, si è preoccupata di chiarire l’ambito applicativo della disposizione circoscrivendolo agli accertamenti relativi alle imposte dirette e all’IVA ed escludendone, pertanto, dall’ambito applicativo l’imposta di registro “considerato che il nuovo obbligo è stato inserito nel Capo II del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218”. La nota di prassi, pur perfettamente coerente col dettato normativo, non sembra cogliere in pieno l’indirizzo che il legislatore ha voluto fornire all’amministrazione adottando, nei confronti della stessa una sollecitazione morale che avrebbe potuto essere, anche nei termini oltre che nei fatti, meglio recepita (specie in un ambito come quello dell’accertamento di valore in cui una discrezionalità, quanto meno tecnica, non appare eliminabile).

Conseguentemente, una migliore previsione legislativa della partecipazione del contribuente alla fase istruttoria dell’atto impositivo appare opportuna, sia al fine di garantire i diritti di difesa e di partecipazione al diretto interessato, sia per imporre all’amministrazione una miglior ponderazione degli elementi di fatto a supporto dell’attività di accertamento.

A tal fine, quello che tuttavia appare opportuno, è di meglio definire gli ambiti di esclusione dell’obbligatorietà dell’invito. Ad oggi, infatti, la stessa viene esclusa sia in presenza di un processo verbale di constatazione sia qualora l’atto impositivo sia riconducibile ad un cosiddetto “accertamento parziale” previsto «dall’articolo 41-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600», e/o «dall’articolo 54, terzo e quarto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633».

Benché tale posizione sia stata criticata da autorevole dottrina, è nostra opinione che la previsione di esclusione dell’invito in presenza di processo verbale di constatazione sia assolutamente coerente con il diritto unionale dal cui sviluppo l’obbligo di contraddittorio preventivo deriva. Quello che, infatti, appare necessario per la CGUE in caso di accertamento relativo ai tributi armonizzati è che il contribuente sia stato posto nella condizione di argomentare in merito alla contestazione, prima dell’emissione da parte dell’amministrazione del provvedimento volto al recupero del tributo (cfr. Sentenza del 18/12/2008, causa C-349/07, Sopropé c/ Fazenda Publica). Nel nostro ordinamento, la disposizione di cui all’articolo 12 comma 7 della legge 212/2000 appare sufficiente a tutelare il diritto del contribuente, pur non prevedendo esplicitamente l’invalidità dell’atto emanato in violazione della stessa in quanto la disposizione comunque impone la valutazione delle “osservazioni e richieste” comunicate dal contribuente nei 60 giorni successivi e tale valutazione difficilmente potrebbe essere esplicitata in luogo diverso dalla motivazione dell’atto. Conseguentemente, un atto che non argomentasse in merito alle osservazioni addotte dal contribuente destinatario del processo verbale di constatazione, sarebbe comunque annullabile per violazione di legge in relazione all’obbligo di motivazione e tale rimedio rende condivisibile l’eccezione contenuta nell’articolo 5‑ter del d.lgs. 218/1997.

Al contrario, in relazione, ai cosiddetti “accertamenti parziali” (tra cui, per altro, sarebbero ricompresi quelli fondati sul processo verbale di constatazione), non può non osservarsi come la quasi totalità degli accertamenti relativi alle imposte dirette e la quasi totalità delle rettifiche IVA sia riconducibile alla definizione di accertamento parziale in base alle definizioni legislative dello stesso.

Ne consegue che l’attuale disposizione contenuta nell’articolo 5‑ter, benché sia apprezzabile lo sforzo in concreto fatto dall’amministrazione di dare attuazione alla volontà legislativa, sia, nella sostanza priva di efficacia difensiva per il contribuente, risolvendosi, come già affermato, in un mero invito fatto dal legislatore all’amministrazione.

Conseguentemente appare opportuno che la norma delegata intervenga al fine di meglio definire cosa debba intendersi per contraddittorio preventivo, prevedendo un regime di generale invalidità degli atti adottati in violazione del declamato principio, nella consapevolezza, tuttavia che una disposizione significativamente diversa da quelle attualmente vigenti potrebbe configurare un rafforzamento degli elementi formali del procedimento a danno della rilevanza del contenuto sostanziale degli atti totalmente asimmetrico rispetto a quanto codificato da quasi vent’anni con riferimento al procedimento amministrativo.

Tra le disposizioni più critiche contenute nell’articolo 4 della legge delega vi è quella prevista dalla lettera g) del comma 1 che mira ad estendere le ipotesi di applicazione dell’autotutela (si ritiene in relazione all’annullamento degli atti impositivi emanati), nonostante la definitività dell’atto, prevedendo l’impugnabilità del diniego ovvero del silenzio dell’amministrazione sull’istanza del contribuente ed escludendo, da ultimo, la responsabilità amministrativa per colpa grave del funzionario che ha adottato il provvedimento di annullamento.

La norma vuole evidentemente intervenire per impedire che lo spirare dei termini per l’impugnazione dell’atto possa condurre all’esecuzione di provvedimenti impositivi manifestamente infondati e, in tal senso, sembra perseguire un intento condivisibile, ma non appare correttamente ponderare i diversi interessi in gioco.

La principale critica che ci sentiamo di muovere alla disposizione è quella di presupporre che o la Corte dei conti mal interpreti il ruolo dell’amministrazione finanziaria, ipotizzando che lo stesso sia di perseguire il massimo incasso e non di conseguire il doveroso adempimento dell’obbligazione tributaria sostanziale, o che gli uffici dell’amministrazione mal interpretino la loro mission, individuando la stessa nel gettito “pur che sia”.

È infatti innegabile che già l’attuale disciplina sull’annullamento in autotutela degli atti preveda esplicitamente la necessità di annullamento degli stessi qualora rivelatisi infondati (d.l. 564/1994 art. 2‑quater e regolamento approvato con DM 37/1997 art. 2), riconoscendo quale unico limite al potere dell’amministrazione, l’intervenuto passaggio in giudicato di sentenza di merito confermativa dell’accertamento (e scongiurando, in tal modo, l’elusione del giudicato).

Conseguentemente quello su cui la disposizione delegata dovrebbe intervenire è la previsione di impugnabilità del diniego, espresso o tacito, del provvedimento di annullamento in esercizio del potere di autotutela dell’atto impositivo nei casi in cui l’errore dello stesso sia “manifesto”. È assolutamente prevedibile che tale disposizione non potrà che comportare un significativo aumento del contenzioso consentendo l’aggiramento dei termini ordinari di impugnazione degli atti anche alla luce della ineludibile soggettività del carattere di “manifesta infondatezza”. La norma, infatti, conferisce natura provvedimentale al “diniego di annullamento”, categoricamente esclusa dalla giurisprudenza (a volte ricorrendo infelicemente alla tassatività di previsione degli atti impugnabili contenuta nell’art. 19 del d.lgs. 546/1992) proprio in quanto tale previsione avrebbe comportato la sostanziale perdita della caratteristica di inoppugnabilità degli atti impositivi, funzionale alla stabilità dei rapporti giuridici e quindi, in definitiva, alla certezza del diritto.

Ulteriormente critica è la disposizione volta ad escludere la responsabilità amministrativa dell’agente in caso di colpa grave, limitando la responsabilità di cui all’articolo 1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, alle ipotesi di dolo. La previsione, in vero, non rappresenta una novità. In ambito tributario la responsabilità erariale è infatti limitata ai casi di comprovato dolo già nei procedimenti “deflattivi” del contenzioso diversi dall’annullamento in autotutela ex art. 29 comma 7 del d.l. 78/2010 e in altri procedimenti particolarmente critici. In tal senso, l’estensione della limitazione anche ai provvedimenti di autotutela sembrerebbe coerente con l’attuale assetto normativo.

Per altro, analoga previsione è stata introdotta (ricevendo aspre critiche da parte della Corte dei Conti), in via temporanea, dall’art. 21 del d.l. 76/2020 che nella versione attuale, limita la responsabilità erariale dell’agente ai casi di dolo per le condotte commissive e non per quelle omissive, giustificando tale previsione con l’esigenza di ridurre i ritardi e gli immobilismi attribuibili “alla paura della firma”, in un periodo in cui le amministrazioni sono state chiamate “a fare e fare subito” a causa dell’emergenza sanitaria prima (originario periodo di durata della disposizione era quello decorrente dal 17/07/2020 al 31/07/2021) e dei tempi stringenti per l’attuazione del PNRR poi (attualmente la norma esplica effetti per le condotte commissive perfezionate entro il 30/06/2023).

Lasciando in disparte ogni valutazione in merito agli effetti che l’ordinaria configurazione della responsabilità erariale ha sull’operato delle amministrazioni (nonché sull’opportunità ed efficacia della disposizione transitoria attualmente in vigore) e limitando l’ambito agli atti del procedimento tributario, in sede di attuazione della delega un’attenta riflessione andrebbe fatta su quelle che sono le conseguenze già apprezzabili dell’attuale normativa introdotta nel 2010.

Ad oggi, e in maniera paradossale, i funzionari dell’amministrazione finanziaria rischiano in maniera significativamente superiore qualora decidano di non dar seguito ad elementi istruttori (e cioè di non emettere atti impositivi in base agli stessi) la cui fondatezza appare critica sin dall’inizio, che non ad emettere avvisi di accertamento del tutto infondati e poi “rivedere” gli stessi nell’ambito delle procedure di adesione, mediazione e conciliazione giudiziaria. La norma che ci si accinge ad introdurre riduce la responsabilità anche in caso di annullamento (totale o parziale) della pretesa in esercizio del potere di autotutela. Il paradosso sta nel fatto che la disposizione invita implicitamente ad emettere provvedimenti di accertamento anche infondati che, in caso di inerzia del contribuente, diventano definitivi. La soluzione adottata, quindi, invece di arginare l’emissione di atti connotati da “errori manifesti”, incentiva alla successiva rimozione degli stessi solo qualora il contribuente vi si opponga, benché tardivamente.

Quello che non si comprende, quindi è perché (ove si ritenga che l’ostacolo alla rimozione di errori manifesti sui presupposti sostanziali sia la paura della responsabilità erariale) non venga prevista l’estensione dell’esimente alla generalità degli atti del procedimento tributario ottenendo, potenzialmente, quanto meno una significativa riduzione del contenzioso, inteso nel senso più ampio e, forse, contribuendo ad un incremento del rapporto di fiducia tra fisco e contribuenti che vedrebbero ridursi il numero di atti connotati da “errori manifesti” che si vedono recapitare.

Deve inoltre a margine osservarsi che, qualora la disposizione transitoria attualmente contenuta nell’articolo 21 del D.L. 76/2020 dovesse andare “a sistema” la specifica disposizione tributaria risulterebbe inutile in quanto l’annullamento di un atto sicuramente configurerebbe una condotta commissiva.

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