Pubblichiamo il testo della lectio magistralis tenuta dal professor Paolo Liberati, Università Roma Tre, Dipartimento di Economia Centro di Ricerca in Economia e Finanza Pubblica (CEFIP), in occasione della consegna del premio Lef 2024.
Nel campo dei tributi, si fa generalmente riferimento a due semplici criteri di equità per l’applicazione delle imposte: il criterio di equità orizzontale e il criterio di equità verticale. La loro definizione è intuitiva: nel primo caso (orizzontale), si richiede che a parità di condizioni corrisponda parità di trattamento fiscale; nel secondo caso (verticale), si richiede che a condizioni differenti corrispondano trattamenti tributari differenti.
A questa semplicità definitoria fanno riscontro problemi applicativi di una certa rilevanza, che si presentano nell’applicazione di qualsiasi imposta, ma che si manifestano con maggiore chiarezza nel caso della tassazione dei redditi personali. Perché è in confronto alle persone fisiche e ai redditi da esse percepite che, più di ogni altro caso, si manifesta l’esigenza sociale di un trattamento tributario che sia ‘equo’ e non discriminatorio. E anche perché è dalla percezione del funzionamento della finanza pubblica da parte delle persone fisiche che dipendono in gran parte gli esiti delle votazioni, e – in ultima analisi – anche il corretto funzionamento della democrazia.
Se si volesse calare il contenuto di questi due principi nell’ambito applicativo dell’imposta personale, si potrebbe affermare che il rispetto dell’equità orizzontale sarebbe garantito da uguale trattamento fiscale di individui che possiedono lo stesso reddito (anche poi in presenza di correttivi rivolti a determinare con maggiore precisione l’effettiva capacità contributiva della persona); mentre l’equità verticale sarebbe soddisfatta in presenza di imposte crescenti al crescere del reddito.
Entrambi i criteri pongono elementi di riflessione: il primo (l’equità orizzontale), perché si tratta di definire quando due contribuenti possano essere considerati in posizione uguale (stesso reddito oppure stesso reddito e composizione familiare, ecc.). La soluzione a questo passaggio richiede di delimitare con una certa precisione quali siano gli elementi che misurano la capacità contributiva individuale. E la soluzione non è scontata. Il secondo criterio (l’equità verticale) è più problematico, perché richiede di ‘scegliere’ quale sia il giusto grado di differenziazione del prelievo al variare del reddito. Se si avesse come obiettivo quello di chiamare i contribuenti a pagare di più in valore assoluto, allora sarebbe sufficiente un’imposta proporzionale; se invece si volesse fare in modo che i contribuenti più abbienti paghino di più in termini relativi (cioè in percentuale del loro reddito) allora si avrà bisogno di un’imposta progressiva.
Accettando questa seconda ipotesi, i problemi applicativi non si esauriscono, perché a questo punto si apre la necessità di ‘scegliere’ quanto progressiva debba essere l’imposta. In questo senso, anche storicamente, sono esistite ed esistono marcate differenze tra sistemi economici. Il grado di progressività, infatti, non è unico, ci sono infiniti modi di realizzazione della progressività, e molto del grado di progressività dipende dalla graduazione delle aliquote e dal numero degli scaglioni. Si può passare dai modelli teorici di flat tax – ad aliquota unica e deduzione di base – ai modelli che hanno anche caratterizzato l’Irpef al momento della sua introduzione (32 scaglioni). Si può ottenere una progressività bassa o moderata o una progressività elevata in relazione all’elevatezza delle aliquote marginali massime e al numero di contribuenti che vi ricadono. In Italia, al momento dell’introduzione dell’Irpef, vigeva un’aliquota marginale massima del 72 per cento; ora è del 43 per cento. Ovviamente, l’aliquota marginale massima è un parametro rilevante di ogni imposta personale sul reddito, perché segna il limite dell’aliquota media al crescere del reddito e – quindi – indirettamente del grado di progressività del prelievo.
Tuttavia, non bisogna cadere nell’equivoco di valutare la progressività solo in relazione all’andamento delle \aliquote legali. Ciò che conta – per la progressività del sistema – è in realtà l’andamento delle aliquote medie effettive, il cui livello dipende non solo dalle aliquote, ma anche dalla definizione della base imponibile, dalla presenza di deduzioni o detrazioni, e dalla considerazione di elementi di personalità atti a ridurre il carico fiscale in capo ad alcuni contribuenti e non ad altri.
Ma il punto che si vuole qui discutere riguarda la relazione che può esistere tra l’organizzazione di un sistema di imposizione personale, le decisioni collettive, e gli effetti sulla legalità dei comportamenti individuali. Finora, ci si è spesso riferiti al fatto che bisogna ‘scegliere’, senza però dire nulla su chi sia effettivamente titolato alla scelta. Al riguardo, si possono richiamare vecchie categorie, però molto attuali per fornire un’interpretazione del funzionamento di un sistema tributario.
La questione si potrebbe porre nel seguente modo: le regole di funzionamento della finanza pubblica dovrebbero essere definite e condivise nell’ambito di un contratto sociale, intendendo con questo termine – che ha lontane origini – la possibilità che all’interno di un’organizzazione statale ci si sia accordati – con almeno una quasi unanimità di ispirazione wickselliana – sulla natura dei prelievi, sulla ragione per cui essi debbano essere effettuati e sul modo in cui essi debbano essere ripartiti. La definizione di questi parametri, in qualche forma di contratto sociale, costituisce il primo perimetro di garanzia del buon funzionamento della finanza pubblica. E per i modi in cui tale contratto (teoricamente) dovrebbe essere ‘stipulato’ si può pensare che esso costituisca un principio fondamentale non violabile a meno che un nuovo contratto sociale (ugualmente condiviso) rimpiazzi il precedente.
Nella realtà dei sistemi economici e sociali, il ‘contratto sociale’ è la Costituzione (o denominazioni equivalenti). Si consideri qui il caso italiano, per comprendere quali regole basilari del funzionamento della finanza pubblica vi si possano rintracciare. A mio modo di vedere, più di quante ne possano apparire a prima vista. La base per il funzionamento del sistema tributario è l’art. 53, di cui si fornisce qui un’interpretazione fondata su criteri strettamente ‘economici’, nel senso di non invadere il terreno di studio dei costituzionalisti.
L’art. 53 afferma che “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. Si tratta di una dizione molto densa, che richiama alcune caratteristiche importanti del prelievo. A voler calare questa prescrizione nell’ambito di un sistema di imposizione personale sui redditi, si possono rilevare le seguenti implicazioni:
- il “Tutti” richiama la necessità che l’imposta sia quanto più possibile generale, nel senso di non ammettere – implicitamente – sottrazioni dal prelievo che non siano motivate dall’impossibilità di contribuire;
- a quest’ultimo riguardo, è proprio la restante parte dell’art. 53 ad affermare che ‘tutti’ debbono contribuire secondo capacità contributiva, delineando uno schema di tassazione per il quale in presenza di risorse appena sufficienti a garantire la sussistenza dell’individuo si deve escludere qualsiasi possibilità che si possa contribuire agli obiettivi collettivi. Potrebbe essere, ad esempio, la logica del minimo esente (o delle implicite no-tax area) nell’applicazione delle imposte personali;
- ma il punto rilevante, anche per ciò che ci servirà tra poco, è che l’art. 53 non afferma che tutti sono tenuti al pagamento delle imposte, ma che tutti sono tenuti a concorrere al finanziamento delle spese pubbliche. Si introduce in questo contesto – e neanche troppo velatamente – il concetto che il prelievo sia destinato a finanziare le esigenze collettive, e che il fine ultimo dell’imposta – come anche da una rilevante tradizione italiana di scienza delle finanze – sia costituito dalle necessità di spesa pubblica. La causa del tributo, dunque, è la spesa pubblica. E poiché la spesa pubblica è a beneficio di tutti, tutti devono contribuire; ma devono contribuire secondo capacità contributiva, per cui chi non ha capacità non sarà chiamato a contribuire pur potendo godere dei benefici della spesa pubblica.
Questa struttura dell’art. 53 è particolarmente apprezzabile per il modo in cui in una riga sia in grado di delimitare i caratteri essenziali e fondamentali dell’applicazione dei tributi. E nel ‘tutti secondo capacità contributiva’ ricade sia la necessità di tributi generali sia l’applicazione del principio di equità orizzontale, da definirsi come uguale contribuzione in presenza di uguale capacità contributiva. Ma l’art. 53 è particolarmente attento anche al criterio di equità verticale, e qui la scelta di campo è molto netta, anche se in passato alcuni economisti hanno affermato come questa dizione abbia in realtà qualche elemento di contraddizione con la prima parte. Nel secondo comma dell’art. 53, si afferma che “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Si tratta, dunque, di una definizione precisa di come il prelievo debba essere differenziato tra soggetti che si trovano in condizioni differenti, anche se – piuttosto ovviamente – la Costituzione, dettando principi generali, non indica la forma precisa che la progressività dovrebbe assumere, da rimettersi invece alla realizzazione pratica delle imposte e del sistema tributario e ammettendo – in linea di principio – la non necessità che ogni singola imposta abbia un carattere progressivo, ma che sia il sistema nel complesso a doverlo assumere.
Ora, nel ‘contratto sociale’ delineato dalla Costituzione appare molto importante un elemento che, a mio avviso, è irragionevolmente trascurato nel dibattito corrente e che finisce per riflettersi nell’applicazione pratica dei tributi. L’elemento a cui ci si riferisce è la necessità che il tributo debba essere collegato al finanziamento della spesa pubblica, una relazione che in tempi passati era appunto definita teoria causale del tributo. La ragione per cui questa relazione è fondamentale consiste nel rendere evidente come il funzionamento della finanza pubblica e di un sistema economico non possa reggersi esclusivamente su un lato del bilancio, ma debba considerare entrambi.
È l’assenza di questa corrispondenza tra prelievo e spesa che – sempre più spesso – legittima comportamenti rivolti ad evitare il prelievo, sapendo che evitare il prelievo non implica – almeno fino a un certo punto – l’esclusione dai benefici della spesa pubblica. È in effetti la non escludibilità dai benefici della spesa pubblica a rendere conveniente questa opzione di exit dal sistema tributario, talvolta molto più conveniente – dal punto di vista individuale – che far ricorso a meccanismi di voice. Ciò ha consentito e tuttora consente la proliferazione di trattamenti tributari differenziati, che nell’imposta personale si traducono in uscita dalla progressività del sistema. Si tratta di forme di imposizione sostitutive dell’imposta personale progressiva, che rendono grave danno al criterio di equità orizzontale e verticale, pur se giustificate – e su ciò si dovrebbe discutere – da ragioni attinenti a fenomeni esterni e non direttamente controllabili (la concorrenza fiscale internazionale ne è esempio per giustificare il ridotto e generalmente non progressivo prelievo sui redditi da capitale).
Da ciò derivano profonde violazioni del criterio di equità orizzontale, dato che al di fuori di uno schema di tassazione generale e onnicomprensiva non è più l’uguaglianza di reddito a determinare l’uguaglianza del carico fiscale, ma è l’uguaglianza di reddito all’interno di una stessa categoria. Queste gravi violazioni del criterio di equità orizzontale, poi, privano di fondamento economicamente interpretabile la graduazione delle aliquote che dovrebbe garantire la differenziazione del prelievo, dato che tale differenziazione diviene settoriale e non più generale, e quindi potenzialmente non unica.
Queste forme di sottrazione al prelievo – almeno alla sua progressività – sono possibili solo in quanto l’esercizio dell’opzione di exit dal sistema tributario non comporta l’uscita dai benefici della spesa pubblica. Ragione per cui il funzionamento della finanza pubblica non può essere assimilato al funzionamento di un mercato privato. Ne consegue che qualsiasi riduzione del prelievo, da parte di chi la può esercitare, si presenta come un gioco a somma positiva, un sistema in cui si riducono gli oneri e non i benefici. Ragione per cui, da forme legali di violazione del contratto sociale, si passa poi facilmente a forme illecite di violazione di quello stesso contratto attraverso l’evasione, niente altro che una forma estrema di free-riding. In questo schema – più di quanto non accada con trattamenti tributari differenziati – il godimento dei beni pubblici avviene senza il pagamento di un ‘corrispettivo’.
Definisco volutamente in questo modo l’onere dell’imposta, perché a ben vedere, nell’ambito di un sistema di finanza pubblica in cui prelievo e spesa pubblica siano inscindibilmente legati, la progressività assume il carattere di prezzo differenziale che all’interno della collettività ciascun contribuente sostiene – in ragione della sua capacità contributiva – per fare in modo che l’intera collettività possa fruire dei benefici di quella spesa pubblica in beni e servizi che costituisce il presupposto fondamentale per la percezione dei redditi individuali. Senza gran parte della spesa pubblica che spesso si assume scontata (difesa, ordine pubblico, giustizia, istruzione, sanità, trasporti pubblici), la formazione dei ‘redditi di mercato’ potrebbe essere almeno parzialmente compromessa.
Ne consegue che i due elementi del bilancio pubblico debbano viaggiare paralleli; così come aumenti di spesa pubblica dovranno prima o poi essere finanziati con imposte, le promesse di riduzione del prelievo avranno prima o poi effetti sulla composizione e sul livello della spesa pubblica. Sta a noi scegliere questi livelli, sapendo che uno tiene l’altro. E sapendo che dal buon funzionamento di un sistema tributario dipende l’equità del sistema, dipende la tenuta del contratto sociale, e – in ultima analisi – dipende la tenuta della democrazia e la forza della legalità. Se la scelta di pagare o non pagare le imposte diviene un fatto di convenienza individuale senza alcun riferimento ai principi generali del contratto sociale e alle conseguenze in termini di diritti sociali, le democrazie saranno destinate ad assumere meri assetti procedurali, in cui la sostanza dei diritti sarà eludibile e condizionata dalle opportunità individuali.