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martedì 29 Aprile 2025
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Federalismo, il coordinamento della finanza pubblica nel rispetto delle autonomie

Per superare le criticità nel rapporto tra Stato centrale ed enti decentrati puntare alla regionalizzazione del patto di stabilità. In 10 anni di applicazione non ha prodotto nè un miglioramento del disavanzo pubblico nè una buona allocazione delle risorse.

di Ipazia

Il patto di stabilità va rivisto in un’ottica federalista. Tenendo conto dell’esperienza di 10 anni di applicazione occorre puntare ad un adeguamento che conduca ad una effettiva regionalizzazione del Patto stesso. Partendo dal complessivo rinnovamento degli assetti istituzionali occorre prendere atto che l’attuale formulazione del patto è in contrasto con i principi del disegno federalista e si è rivelato inidoneo a garantire una strategia di coordinamento finanziario. Serve dunque un nuovo strumento più avanzato in grado di mostrare la necessaria flessibilità superando la logica del vincolo uguale per enti diversi. In pratica si tratterebbe di adottare un sistema di cooperazione concertata tra centro e periferia che fissi criteri di disciplina fiscale di lungo periodo in grado di responsabilizzare i livelli decentrati di governo nella realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica. Ciò spingerebbe certamente verso un sistema fiscale più efficiente e non sempre più impegnato a rincorrere una spesa fuori controllo e fatta ancora di troppi sprechi.

Il coordinamento della finanza pubblica è un’attività impegnativa: la fissazione dei principi fondamentali per la redazione dei bilanci consolidati non può prescindere dalla considerazione del ruolo istituzionale di rilievo attribuito dalla Costituzione (art. 114) alle Regioni, che posseggono, oltre alla potestà autonoma (come le valutazioni dei fabbisogni di infrastrutture), anche quella concorrente con lo Stato nell’organizzazione delle finanza di Province e Comuni. Le Regioni possono istituire tributi locali con riguardo ai presupposti non assoggettati a imposizione da parte dello Stato e possono effettuare, sulla base di criteri stabiliti con accordi sanciti in Conferenza Unificata e previa concertazione con gli Enti locali, proprie quantificazioni delle entrate standardizzate e della spesa corrente standardizzata, in base ai criteri tassativi (nelle ultime frontiere normative federaliste indicate in quote uniformi per abitante, corrette in base all’ampiezza demografica, alle caratteristiche territoriali, sociali e produttive dei diversi enti, tenendo conto anche della spesa per servizi esternalizzati o svolti in forma associata). La filosofia federalista ha, infatti, da sempre assegnato rilevanza alle Regioni motivandola con la capacità di cui sono dotate di possedere notevole conoscenza del territorio e dei fenomeni locali. Proprio questo ruolo di rilievo è all’origine della storica opposizione dei Comuni che è uno dei motivi che ostacolano un efficace coordinamento della finanza locale anche relativamente al monitoraggio dei possibili modelli di ripartizione dei fondi perequativi comunali e provinciali differenziati per Regione.

Le problematicità legate all’armonizzazione delle politiche locali potranno essere temperate e semplificate se le Regioni rispetteranno l’autonomia dei Comuni e delle Province, assicurando un loro forte coinvolgimento, con esclusione di rapporti gerarchici e grazie ad accordi interni e meccanismi partecipativi, nel rispetto del principio di equiordinazione di cui all’articolo 114 della Costituzione. La gestione del decentramento di funzioni e risorse dovrà, nel contempo, rispettare gli obiettivi complessivi di bilancio elaborati in sede europea e ai vincoli sui saldi, centrali e territoriali, e sulla pressione fiscale, centrale e locale, connessi a tali obiettivi ed indicati nei documenti programmatici nazionali. I comportamenti delle Autonomie locali debbono essere, infatti, in linea con le direttive generali concernenti l’andamento della spesa dell’intera Pubblica amministrazione, il livello complessivo della pressione fiscale, gli obiettivi redistributivi fissati a livello centrale e la compatibilità con lo schema di incentivi generale.

Un rinnovamento degli assetti istituzionali che conduca alla regionalizzazione effettiva del Patto di stabilità interno potrebbe essere la condizione per superare talune delle criticità attuali. Basti considerare che le disposizioni dettate nel Patto nei suoi dieci anni di applicazione non hanno prodotto un miglioramento certo del disavanzo complessivo della Pubblica amministrazione e, soprattutto, non hanno inferito nell’ottima allocazione delle risorse. La realizzazione degli investimenti pubblici, in particolare, ha continuato a risentire degli effetti di scelte di politica economica distorsive che, a causa del ricorso ai tetti di spesa basati sulla spesa storica dei singoli enti, hanno proiettato nel tempo le situazioni di inefficienza, esasperandone gravemente l’entità. Va da sé che i principi informatori del patto di stabilità interno, sicuramente in contrasto con quelli che supportano il disegno federalista, si sono rivelati inidonei alla pianificazione di una minima strategia di coordinamento finanziario. Le ultime evidenze denunciano l’impossibilità di individuare margini di compensazione tra il miglioramento del saldo di alcuni comuni e il peggioramento di altri, così come tra avanzi e disavanzi nel medio periodo ovvero possibilità di adattamenti alle fluttuazioni cicliche del mercato.

Una flessibilità del sistema, come auspicato dalla scuola federalista, avrebbe dovuto limitare la restrittività di un vincolo uguale per enti diversi consentendo, in accordo con il dettato costituzionale recato dall’art. 119, una pianificazione degli investimenti sul territorio basata su una cooperazione concertata tra centro e periferia che fissi criteri di disciplina fiscale di lungo periodo che responsabilizzino maggiormente i livelli decentrati di governo nella realizzazione degli indirizzi di politica finanziaria. L’assenza di responsabilizzazione da p parte degli amministratori rappresenta, tuttavia, uno dei grandi ostacoli alla creazione di un sistema fiscale efficiente e scevro da quegli sprechi che sono da evitare. L’etica federalista fa del superamento di una tale consuetudine organizzativa uno dei capisaldi anche attraverso l’azione di controllo da parte dei cittadini. Un controllo impossibile se si considera che l’assenza o lo scarso livello dell’informazione precludono i poteri di controllo da parte dei cittadini, pregiudicando le possibilità di competere sul mercato in termini di efficienza.

Ma la visualizzazione dei processi e la possibilità di monitorare servizi, costi e fabbisogni non giova solo agli elettori se la predisposizione di schemi contabili, sostenuti da informazioni esaustive, comparabili con quelle fornite da altri enti e tempestive, viene recepita in un sistema dei conti integrato, non frammentato, che consenta alle autorità di governo di valutare, sulla base di criteri contabili prestabiliti[1], i diversi gradi di efficienza dell’azione pubblica. La messa a punto dei parametri di omogeneità e comparabilità, tempestività, esaustività, attendibilità, sistematicità ed organicità, imparzialità, condivisione, internalizzazione o pubblicità – il cui rispetto non implica alcuna mancanza di rispetto verso l’autonomia della condotta finanziaria dei vari enti – consentirà la piena realizzazione degli obiettivi di trasparenza verso i quali è orientato il primo avvio della riforma attraverso l’armonizzazione. Se si condivide l’assioma che l’autonomia contabile non significa arbitrario uso delle risorse del bilancio è inerziale la conclusione che in una prospettiva eticamente corretta l’autonomo utilizzo di tali risorse non deve equivalere all’ adozione di sistemi individualistici, incomparabili e privi di trasparenza.

L’attuale giungla contabile non può sicuramente definirsi un modello di autonomia, quanto di personalismo che sconfina nell’arbitrio. Una soluzione al problema resta sempre l’utilizzo di un sistema di monitoraggio sulle grandezze degli Enti territoriali. Tale metodica, infatti, potrebbe favorire il superamento degli attuali limiti conoscitivi all’accesso alle informazioni sulla spesa statale regionalizzata e sulle imposte statali regionalizzate[2] necessarie – al pari delle altre numerose variabili[3] che con essa interferiscono- per la corretta quantificazione della spesa standard locale. Ad aggravare la situazione critica dell’armonizzazione della finanza pubblica, concorre l’assenza di impegno culturale da parte dei vari livelli di governo nell’abbattere le barriere ideologiche che si oppongono alla attivazione di soluzioni coordinate che contemperino le scelte degli amministratori con le necessità e preferenze dei cittadini. Basti ripercorrere le ultime tappe normative per comprendere in quale direzione stiano confluendo gli intenti di coordinamento delle finanza pubblica e quali riverberi producano in ambito fiscale.

L’art. 10 della legge n. 133/1999 nella quale esordiva la locuzione federalismo fiscale conferiva al Governo la delega per il finanziamento delle regioni a statuto ordinario e l’adozione di meccanismi perequativi interregionali, da rendere effettivi con la compartecipazione regionale all’Iva, che ha visto la luce con il D.Lgs. n. 56/2000. Si diceva del federalismo fiscale classe 1999. Ebbene, dopo 10 anni, con la legge 42 del 2009 è intervenuta un’altra delega al Governo “in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’art. 119 della Costituzione” e sono state costituite le due Commissioni( una politica e l’altra tecnica) foriere di altri decreti legislativi : il D.Lgs. n. 23/2011 “Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale” , il D.Lgs. n. 68/2011 “Disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuito ordinario e delle province” e, in particolare, il D.Lgs. n. 23/ 2011 generatore del sistema fiscale/finanziario per i Comuni basato sulla compartecipazione al gettito dell’Iva, sulla devoluzione della fiscalità immobiliare, sull’imposta di soggiorno, sull’imposta municipale propria,sull’imposta municipale secondaria, sulla compartecipazione al gettito di tributi sui trasferimenti immobiliari, sul Fondo perequativo collegato con i fabbisogni standard e sul Fondo sperimentale di riequilibrio.

Ma siamo nel 2012 e la Sose( la società incaricata – a seguito del protocollo d’intesa sottoscritto con il ministero dell’Economia e delle finanze – di progettare , con la collaborazione di Ifel e Upi, la rilevazione che determinerà i Fabbisogni Standard di Comuni, Città metropolitane e Province, come previsto dal D.Lgs. n.216/2010) sta (forse) ultimando adesso gli studi e i prospetti (che dovevano essere ultimati nel 2011) anche per la difficoltà di ricevere dai comuni i questionari compilati necessari per la predisposizione dei costi standard, ossia per definire il parametro principe per l’attuazione del federalismo. Parametro indispensabile per settori quali quelli della sanità. Sui costi in materia di sanità e sui beni demaniali è sceso inesorabilmente il silenzio tombale. Ci si chiede verso quali rotte è orientato l’impianto normativo federalista considerando che il decreto Monti Salva Italia ha anticipato, sebbene in via sperimentale, al 2012 l’istituzione dell’Imu (l’imposta erariale sugli immobili) e che con il D.Lgs. n. 68/ 2011 vengono soppressi i trasferimenti statali a favore delle Regioni, si rafforza l’addizionale regionale Irpef e la compartecipazione regionale all’Iva (a base regionale dal 2013).

Note:

[1] I criteri contabili sono molteplici: competenza giuridica (strumento amministrativo di controllo sull’attività operativa delle varie amministrazioni); cassa (valutazione delle conseguenze finanziarie dell’azione pubblica, sino al ricorso al mercato del credito); competenza economica (individuazione degli effetti dell’azione pubblica sul settore privato dell’economia e indispensabile per i confronti aggregati a livello internazionale).

[2] I dati in possesso dell’Agenzia delle entrate sono, in tal senso, il migliore riferimento.

[3] In aggiunta alle variabili di tipo finanziario assumono rilievo nei comportamenti di spesa degli enti quelle relative alle caratteristiche territoriali (superficie, densità abitativa, sismicità, altimetria, ecc.), demografiche (popolazione, composizione per classi di età, percentuale di stranieri,ecc.,) economiche (struttura produttiva, occupati per settore, tasso di occupazione, capacità ricettiva, ecc.).

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