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domenica 6 Ottobre 2024
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Fisco, concorrenza e appalti, il corridoio stretto di Palazzo Chigi per proteggere la ripresa (Corriere della Sera)

Fisco, concorrenza e appalti Il corridoio stretto di Palazzo Chigi per proteggere la ripresa

Di Federico Fubini

Uno degli aspetti passati più inosservati dell’Italia all’epoca della pandemia riguarda la simmetria fra quanto sta accadendo nel settore pubblico e nel settore privato. I bilanci dello Stato da una parte e quelli delle famiglie e delle imprese di tutti i settori, dall’altra, si sono trasformati in maniera speculare. Nel 2020 e nel 2021, il settore pubblico ha accumulato nuovo debito nello sforzo — opportuno — di salvare il settore privato dal collasso dovuto alla paralisi economica. Questo è sotto gli occhi di tutti e farà parte a lungo dell’eredità della crisi sanitaria. C’è meno consapevolezza invece del fenomeno uguale e contrario che sta avendo luogo nei bilanci non solo delle famiglie, ma anche delle imprese: la cassa non era mai cresciuta così in fretta e non era mai stata così abbondante. I conti bancari delle famiglie e delle imprese rigurgitano di denaro liquido in maniera spettacolare, proprio mentre i conti dello Stato rigurgitano di debito. Che significato ha questa strana evoluzione, uguale e contraria? Vediamo più in dettaglio. Nei sedici mesi dall’inizio della pandemia fino a giugno (i dati più recenti della Banca d’Italia), i depositi liquidi delle imprese italiane sono cresciuti di 90 miliardi di euro: una crescita del 30%, senza precedenti da quando esistono le serie statistiche. Le aziende italiane — nel complesso — non avevano mai avuto nei loro conti in banca tanto denaro immediatamente spendibile.

Negli stessi sedici mesi anche la liquidità delle famiglie – intendiamo solo quella in contanti, non la ricchezza molto più vasta investita in titoli o in immobili – è cresciuta a tassi cinesi: del 7,7%, cioè ottanta miliardi in più, fino a superare a quota 1.130 miliardi di euro il valore del prodotto interno lordo della Spagna. Nel complesso, mentre l’economia subiva il peggiore collasso dalla guerra, famiglie e imprese italiane hanno aggiunto 170 miliardi ai loro conti in banca. Non tutte naturalmente ci sono riuscite, ma molte senz’altro sì. Nel frattempo il governo si sobbarcava il più rapido indebitamento dal tempo di guerra. Nel complesso del 2020 e 2021 il saldo «primario» del settore pubblico (cioè prima di pagare gli interessi sui titoli di Stato) conosce il terzo più rapido deterioramento in tutta l’Unione europea, dopo Malta e la Grecia. Gian Maria Milesi-Ferretti di Brookings, ex vice-capoeconomista del Fondo monetario internazionale, spiega perché: più il turismo era importante per un’economia alla vigilia di Covid, più la recessione pandemica è stata dura. Era ovvio che la finanza pubblica ne soffrisse ed è stato giusto che i governi abbiano speso per proteggere persone e imprese.

Però la simmetria colpisce: mentre i conti in banca dei privati crescono di 170 miliardi, il deficit primario dello Stato nello stesso biennio peggiora di 167 miliardi. Ora, i fenomeni non sono mai così schematici e tanti fattori diversi saranno entrati in gioco. Ma sembra chiaro che in questo biennio in Italia è avvenuto un enorme travaso di ricchezza: dal debito pubblico a carico dei nostri figli, ai nostri conti in banca. Le imprese in certi casi sono state «ristorate» e «sostenute» due volte, perché è stato loro indennizzato l’intero fatturato a livelli pre-pandemici mentre la cassa integrazione tutta a carico dello Stato le sollevava dal dover pagare i dipendenti. Anche certe famiglie benestanti sono state trattate generosamente: il bonus per ristrutturazioni ecologiche al 110% — produrrà oltre venti miliardi di deficit — è utilizzabile anche per le seconde case al mare che inquinano ben poco, perché d’inverno non sono abitate; lo è persino per certi abusi edilizi non sanati. In sostanza vengono pagate integralmente con debito pubblico anche famiglie abbienti per valorizzare il loro patrimonio, a volte con scarsi benefici per l’ambiente.

Forse questi errori erano inevitabili, data l’enormità dello sforzo pubblico dell’ultimo anno e mezzo. Di sicuro l’impostazione di fondo è stata corretta: prima tenere in vita l’economia, poi disinnescare i conflitti distributivi – le proteste di piazza, il rancore antisistema – in modo da preparare il terreno in vista delle riforme del Recovery Plan. Perché è difficile cambiare le regole del gioco in un Paese paralizzato, quando molti milioni di cittadini sono impauriti e furibondi per il restringersi dei salari e dei posti di lavoro. Per trasformare l’Italia con le scomode riforme del Recovery, bisogna partire da una base di crescita elevata. Prima la torta deve espandersi. Ora lo fa, perché l’accelerazione del reddito nel 2021 forse supererà il 5%. Ma è un’opportunità da prendere subito, perché non può durare.

Non molti sembrano notare ad esempio che Mario Draghi e Daniele Franco non si stanno unendo alla retorica celebrativa per i numeri della ripresa. Il premier e il ministro dell’Economia sanno che qui non c’è nessun miracolo: in parte si tratta di un rimbalzo meccanico dopo il crollo del 2020, in parte il carburante lo fornisce l’enorme deficit pubblico accumulato per due anni. Ma appunto, il deficit non può continuare e la ripresa futura va protetta con le riforme adesso. La finestra di tempo è stretta. Gli interventi ai quali l’Italia è impegnata per avere i 205 miliardi del Recovery sarebbero urgenti anche senza il «cronoprogramma» concordato con Bruxelles.

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