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lunedì 10 Marzo 2025
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La nuova disciplina penale in materia tributaria dopo la conversione del DL Fiscale: i reati riformati

Di Fabio Di Vizio – Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Firenze

(Da Il Quotidiano giuridico)

Il legislatore vara una nuova riforma del diritto penale tributario, confermando la più parte delle scelte innovative contenute nel decreto legge n. 124/2019. A tali mutamenti corrisponde un quadro generale di maggior severità della risposta repressiva, non solo verso i reati a struttura fraudolenta ma anche per quelli di infedeltà o di omissione dichiarativa; sicuro, inoltre, è il potenziamento degli strumenti investigativi e cautelari, specie quelli di natura reale, volti a contrastare la criminalità da profitto tributario, raccogliendo auspici formulati a livello eurounitario ed in sede giurisprudenziale. Inaspettatamente, invece, nonostante la vastità del fenomeno soggiacente, non tornano a condizione di maggior rigore i delitti di omesso versamento delle imposte dichiarate e si aprono inattese prospettive di patrimonializzazione della responsabilità per condotte fraudolente sviluppate. La riforma costituisce un passo avanti non risolutivo, ma affatto trascurabile.Ddl approvato di conversione del Decreto fiscale

Le premesse della riforma

La legge di conversione del Decreto legge 26 ottobre 2019 n. 124 ribadisce le linee essenziali dell’originario provvedimento ad “urgenza differita” che ha annunciato la novella penal-tributaria, conformandosi ad alcuni rilievi critici emersi nel dibattito pubblico e nella riflessione giuridica. Nel contesto di un generale accrescimento della severità della risposta sanzionatoria la riforma costituisce una svolta consistente nell’impostazione repressiva, contribuendo ad accrescere la centralità della componente tributaria in seno al diritto penale dell’economia ed a dotarla di strumenti di reazione maggiormente regolabili rispetto alle diverse forme di evasione.

Come si è anticipato su questa rivista in una precedente riflessione (F. Di Vizio, Reati tributari: il Decreto fiscale innalza le pene e abbassa le soglie, in Quotidiano Giuridico, 7 novembre 2019) molteplici sono le direttrici fondamentali che consentono di ricostruire l’intelaiatura dell’intervento: (i) l’innalzamento delle pene edittali, minime e massime, della più parte delle fattispecie penali tributarie, anche quelle a struttura non fraudolenta (pur se, in taluni casi, di importo più contenuto di quanto ipotizzato nel decreto di urgenza), accompagnato, talora, dall’enucleazione di ipotesi circostanziali attenuate; (ii) l’abbassamento delle soglie di rilevanza penale dell’imposta evasa o dell’imponibile sottratto all’imposizione per il solo delitto di dichiarazione infedele previsto dall’art. 4 D.Lgs. n. 74/2000, impostazione però derelitta (rispetto all’iniziale D.L. n. 124 cit.) per i reati di omesso versamento ex art. 10 bis e 10 ter D.Lgs. n. 74/2000; (iii) l’abbandono dell’enucleazione di una nuova fattispecie penale collegata all’estensione del reverse charge per contrastare le pratiche di illecita somministrazione di manodopera (come ipotizzato nella versione originaria del D.L. n.124/2019), “sostituita” dall’innovativa previsione di una causa di non punibilità ex art. 13, comma 2, D.Lgs. n. 74/2000 anche per i delitti di frode cui agli artt. 2 e 3 d.lgs. n. 74/2000 (al pari dei reati di cui agli articoli 4 e 5) per effetto dell’art. 39, comma 1, lett. q-bis del d.l. n. 124/2019; (iv) l’estensione della misura patrimoniale della confisca allargata, prevista dall’art. 240 bis c.p., a peculiari figure di reati tributari, delimitate da elementi di ulteriore specificazione indicati dal nuovo art. 12 ter D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (art. 39, lett. q, D.L n. 124/2019); (v) l’innesto nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato (nuovo art. 25-quinquiesdecies del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231) di un novero di delitti tributari, ampliato rispetto all’unico delitto prospettato dal D.L. n. 124/2019 (l’art. 2 D.Lgs. n. 74/2000) ora espressamente esteso anche alla forma attenuata ex artt. 2, comma 2 bis, D.Lgs.n. 74/2000, alla dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici ex art. 3 D.Lgs.n. 74/2000, all’emissione di fatture per operazioni inesistenti ex artt. 8, comma 1 e 2 bis, D.Lgs.n. 74/2000 ed alla sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte ex art. 11 D.Lgs. n. 74/2000.

Il quadro generale che ne consegue è connotato da maggior severità della risposta repressiva, non solo verso i reati a struttura fraudolenta (artt. 2 e 3 D.Lgs. n. 74/2000) ma anche per quelli di infedeltà o di omissione dichiarativa, che vedono innalzate le pene edittali, nel minimo, oltre che nel massimo. Non tornano a condizione di maggior rigore, però, i delitti di omesso versamento delle imposte dichiarate, essendo stato rimeditata l’opportunità di abbassare le soglie di punibilità dell’imposta evasa e non versata.

Ne corrisponde, in via di estrema sintesi, un potenziamento degli strumenti investigativi e cautelari, specie quelli di natura reale, volti a contrastare la criminalità da profitto tributario, raccogliendo auspici formulati dai regolatori eurounitari ed in sede giurisprudenziale; nondimeno, si aprono inaspettate prospettive di patrimonializzazione della responsabilità per condotte fraudolente sviluppate.

I reati riformati: la frode fiscale ex art. 2 D.Lgs. n. 74/2000

Se la riforma del 2015 aveva immaginato di riferire alla fattispecie delineata dall’art. 3 del D.Lgs. n. 74/2000 sicura centralità nel contrasto dell’evasione più insidiosa, ora è la fattispecie penale prevista dall’art. 2 D.Lgs. n. 74/2000 ad essere divenuta quella elettivo per il contrasto del ridimensionamento fraudolento di basi imponibili. Più che l’inserimento nel catalogo dei reati fonte della responsabilità amministrativa degli enti ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001 (come anticipato, non più esclusiva del delitto in esame), lo conferma l’assoluto primato della severità nella risposta sanzionatoria apprestata per essa, che giunge ad oltrepassare – nel minimo – quella della dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3 D.Lgs. n. 74/200), alla quale sinora era appaiata.

Per il delitto di dichiarazione fraudolenta ex art. 2 D.Lgs. n. 74/2000, infatti, la penapassa a quattro anni nel minimo ed otto anni nel massimo, accrescendosi in maniera consistente rispetto a quella originaria, oscillante dal minimo di un anno e sei mesi al massimo di sei anni. L’incremento nel minimo mira a contrastare la prassi giudiziale di commisurare la sanzione finale muovendo da una pena base prossima ai minimi edittali. Inoltre, l’incremento sanzionatorio (nel massimo) riveste effetti sul prolungamento dei termini di prescrizione (cfr. artt. 157, 161 c.p.) considerato l’aumento di un ulteriore terzo previsto in via generale dall’art. 17, comma 2, D.Lgs. n. 74/2000 per i reati da 2 a 10 del D.Lgs. n. 74/2000. Ciò al netto della riforma della legge n. 3/2019.

Alla già acquisita capacità del delitto in esame di legittimare lo strumento delle intercettazioni ex art. 266, comma 1, lett. a c.p.p. oltre che le misure cautelari coercitive più severe (ex artt. 273, 274, 278, 280 c.p.p.) si aggiunge quella di avallare il fermo, al ricorrere degli altri presupposti previsti dall’art. 384 c.p.p.; misura pre-cautelare provvista, nel caso del delitto in esame, di maggior spazio di potenziale operatività rispetto all’arresto facoltativo in flagranza di reato (art. 381, comma 1, c.p.p.), considerato che il momento consumativo del delitto si identifica con la dichiarazione.

Per integrare il reato, infatti, non è sufficiente registrare fatture o altri documenti per operazioni inesistenti nelle scritture contabili obbligatorie, ovvero detenerli a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria. Tali comportamenti, che integrano il concetto normativo di avvalimento della documentazione falsa, rilevano nella misura in cui la stessa venga concretamente posta a corredo dell’indicazione nella dichiarazione di elementi passivi fittizi. Per il disposto dell’art. 6 D.Lgs. n. 74/2000, infatti, in difetto di dichiarazione, gli atti prodromici all’evasione non sono punibili (la penale irrilevanza dei comportamenti prodromici, cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 52752/2014). Nella riflessione giurisprudenziale, si è posta, piuttosto, la questione del rilievo penale dell’utilizzazione dei documenti in fase successiva alla dichiarazione, come può verificarsi allorché l’autore decida di predisporre la documentazione mendace nel corso di una verifica tributaria. Se il contegno è connotato da fraudolenza non meno intensa della condotta di pregressa registrazione e detenzione in antagonismo con ipotetico controllo, unanime è l’opinione giurisprudenziale per cui il delitto di frode fiscale ha natura istantanea e si consuma al momento della dichiarazione, cosicché la presenza di tutti gli elementi costitutivi del reato deve realizzarsi entro la data di presentazione della predetta dichiarazione. L’utilizzazione dei documenti falsi, dunque, per rendere fraudolenta la dichiarazione, in sé infedele, deve precederla e non seguirla. Sembra questa l’unica lettura compatibile con il dato letterale, salva l’integrazione della diversa fattispecie penale ex art. 11, legge n. 214/2011 (informazioni e documentazioni false). Inoltre, se la dichiarazione è unica, unico è il reato commesso pur se i documenti utilizzati sono plurimi o abbiano diversi destinatari (Cass. Pen., Sez. III, n. 626/2009). D’altro canto, se il reato si perfeziona nel momento in cui la dichiarazione è presentata agli uffici finanziari, è anche vero che prescinde dal verificarsi dell’evento di danno, non assumendo rilievo l’effettività dell’evasione, né dispiegando alcuna influenza l’accertamento della frode (Cass. Pen., Sez. III, n. 16459/2017; Id., n. 25808/2016), trattandosi di reato di pericolo e di mera condotta.

Tornando alla novella in diretto commento, la sanzione originaria prevista per il delitto di frode fiscale ex art. 2 cit. è conservata per una particolare configurazione della nuova fattispecie di cui si immagina l’introduzione, con innesto di un comma 2 bis nell’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000, per il caso in cui l’ammontare degli elementi passivi fittizi sia inferiore a centomila euro.

E’ agevole pronosticare che l’accresciuta severità sanzionatoria vivificherà i contrasti interpretativi che hanno sin qui accompagnato la fattispecie penale, che, nel tempo, ha guadagnato progressivamente spazi applicativi rispetto alle figure di reato limitrofe. A seguire se ne offre un cenno per chiarire l’importanza che può essere riconnessa all’irrobustimento sanzionatorio del delitto.

Si pensi, sotto tal ultimo aspetto, all’orientamento favorevole alle configurabilità del delitto ex art. 2 cit. a discapito del delitto ex art. 3 D.Lgs. n. 74/2000 in caso di utilizzo di fatture materialmente false (da ultimo cfr. Cass., Sez. III, n. 6360/2019). Si considerino, ancora, le posizioni giurisprudenziali favorevoli alla configurazione del concorso materiale con il delitto previsto dall’art. 8 D.Lgs. n. 74/2000 nel caso di utilizzo di fatture autoprodotte dall’utilizzatore, con esclusione dell’applicabilità dell’art. 9 D.Lgs. n. 74/2000 in caso di imprenditore cd. “self made”, nel quale ricorre identità soggettiva tra emittente materiale ed utilizzatore materiale (Cass. Pen., Sez., III, 21 maggio 2012, n. 19247; Id. n. 5434/2017) così come quando l’amministratore della società che ha emesso le fatture per operazioni inesistenti coincida con il legale rappresentante della diversa società che le abbia successivamente utilizzate (Cass. Pen., Sez., III, n. 19025/2013).

Sia pure in via sommaria, tra i principali temi del dissidio pare annoverabile, anzitutto, la ricomprensione dell’inesistenza giuridica nella nozione di operazione oggettivamente inesistente (a favore, la prevalente giurisprudenza di legittimità, sia pure con distinguo, a partire da Cass. Pen., Sez. III, n. 13975/2008; nello stesso senso, cfr. Cass., 10 ottobre 2002, n. 38199; Cass., 21 gennaio 2004, n. 5804; Cass., 15 gennaio 2008, n. 1996; Cass., 7 ottobre 2010, n. 45056; Cass., 8 luglio 2010, n. 26138; Cass. Pen, III, n. 38754/2012.; Id., n. 24540/2013; Cass. Pen., Sez. VI, n. 52321/2016 che ha specificato di condividere il principio «almeno quando l’operazione dissimulata è sottoposta ad un trattamento fiscale diverso da quello riservato all’operazione formalmente documentata»; cfr. anche Cass., 21996/2018; in dottrina ammette la tipicità Napoleoni, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario, Milano 2000, 174; Ambrosetti, Art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, in Codice penale ipertestuale. Leggi complementari, a cura di Ronco, Ardizzone, Torino 2007, 202; in senso contrario Imperato, Art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, in Falsitta, Fantozzi, Marongiu, Moschetti, Commentario breve alle leggi tributarie, Padova 2011, 537, nonché la dottrina che ritiene che a seguito del D.Lgs. n. 158/2015 l’unica forma di inesistenza giuridica di rilievo penale-tributario sarebbe la simulazione, oggettiva o soggettiva, condotta integrativa del delitto previsto dall’art. 3 D.Lgs. n. 74/2000, confinando la fittizietà delineata dalla frode fiscale ex art. 2 D.Lgs. n. 74/2000 all’interno della sola inesistenza materiale).

Se per costi incongrui (effettivamente sostenuti) per un’operazione realmente effettuata la giurisprudenza di legittimità ha convintamente negato la riconducibilità al concetto di elementi passivi fittizi (Cass. Pen., Sez. III, n. 1996/2008), lo stesso non può dirsi per i costi non inerenti. Per essi l’approdo prevalente è favorevole ad ammetterla. Infatti, i costi “riconducibili” a condotte criminose, quand’anche non direttamente usati per la loro consumazione, rilevano ai fini della fattispecie penale dell’art. 2 D.Lgs. n. 74/2000 in quanto violano i principi di inerenza, testimoniando una destinazione extra imprenditoriale. Tale carenza di inerenza, in definitiva, per mancanza di attinenza rispetto al conseguimento del reddito imponibile, rende tali costi fiscalmente indeducibili e attribuisce loro il connotato di costi fittizi ai fini della fattispecie penale in esame. Sostanzialmente unanime la giurisprudenza della Cassazione nel ritenere irrilevante ai fini della fattispecie penale in esame l’art. 8 del D.L. 16/2012, conv. in Legge n. 44 del 2012, che, modificando l’art. 14, comma 4- bis, L. n. 537 del 1993, ha fissato un regime della deducibilità dei costi applicabile alle sole procedure di accertamento tributario ai fini delle imposte sui redditi, ma ininfluente sulle condotte di dichiarazione fraudolenta punite dall’art.2 D.Lgs. n. 74 del 2000 (cfr. Cass. Pen, Sez. III, n. 46194 del 24/04/2013; Id., n. 22108/2015; Id., n. 316287/2015; Id. n. 42994/2015; Id. n. 53637/2018; Id., 7063/2019). Per tale impostazione i costi documentati in fatture per operazioni soggettivamente inesistenti non possono essere dedotti ai fini delle imposte dirette dal committente/cessionario che consapevolmente li abbia sostenuti, in quanto espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività dell’impresa; onde, l’irrinunciabile inerenza tra i costi medesimi e l’attività imprenditoriale sarebbe preclusa. Perciò la consapevolezza da parte del contribuente di partecipare ad un sistema sofisticato di frode fiscale (si pensi alle frodi carosello) comporta tuttora l’indeducibilità di qualsiasi componente negativo (costi o spese) riconducibile a fatti, atti o attività qualificabili come reato, per violazione del principio di inerenza, laddove la mancanza di tale consapevolezza (ex art. 14, comma 4-bis, cit.) comporta la deducibilità del costo, salvo che i componenti negativi del reddito siano comunque relativi a beni e servizi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività configuranti condotte delittuose non colpose (cfr. Cass. Pen., Sez.III, n. 31628/2015; Id. 22108/2015). Muovendo da tali approdi la Cassazione ha ribadito che «in tema di reati tributari, la regola della indeducibilità dei componenti negativi del reddito relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di delitti non colposi (prevista dall’art. 14, comma 4-bis, l. n. 537 del 1993, come modificato dall’art. 8 del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, conv. in l. n. 44 del 2012), trova applicazione anche per i costi esposti in fatture che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi nell’ambito di una frode c.d. carosello, trattandosi di costi comunque riconducibili ad una condotta criminosa» (Cass. Pen., Sez. III, n. 42994/2015). I principi affermati dalla Corte paiono di persistente attualità rispetto al delitto ex art. 2 D.Lgs. n. 74/2000, rispetto al quale la nozione di elementi passivi fittizi resta presente nel tessuto lessicale ed ancorata ad un’impostazione nella quale assume rilevanza penale l’indeducibilità o la non inerenza di costi effettivamente sostenuti, diversamente da quanto previsto per il delitto di dichiarazione infedele ex art. 4, comma 1 e 1 bis, D.Lgs. n. 74/2000. A fronte di questo orientamento, però, nella giurisprudenza penale di legittimità risultano anche decisioni che precisano che il reato di utilizzazione fraudolenta in dichiarazione di fatture per operazioni inesistenti è integrato, con riguardo alle imposte dirette, dalla sola inesistenza oggettiva delle prestazioni indicate nelle fatture (quella relativa alla diversità, totale o parziale, tra costi indicati e costi sostenuti), mentre, con riguardo all’IVA, esso comprende anche l’inesistenza soggettiva, ovvero quella relativa alla diversità tra soggetto che ha effettuato la prestazione e quello indicato in fattura (per questo indirizzo cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 6935/2018; Id., n. 53146/2017; Id., n. 2643/2016; Id., n. 47471/2013; Id., n. 10394/2010).

Il dolo specifico che connota la fattispecie sembra contrastare l’operatività di quello eventuale, richiedendo che la condotta tipica sia tenuta al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto. In realtà, in punto di dolo tipico del delitto ex art. 2, D.Lgs. n. 74/2000, la Cassazione ha chiarito in passato che «il dolo specifico costituito dal fine di evadere le imposte, […], sussiste anche quando ad esso si affianchi una distinta ed autonoma finalità extraevasiva non perseguita dall’agente in via esclusiva» (Cass. Pen., Sez. III, n. 27112/2015; Id., 42520/2019). Quando lo specifico dolo di evasione della condotta tipica si coniuga con una distinta e autonoma finalità extra-tributaria, sempre che quest’ultima non sia perseguita dall’agente in via esclusiva, non pare dubitabile la compatibilità del dolo specifico di evasione fiscale con una concorrente finalità extra-evasiva (come l’esigenza di procurarsi, attraverso le false fatturazioni, riserve occulte per pagare in nero le retribuzioni dei dipendenti). In ogni caso, il contrasto interpretativo sul punto appare destinato ad aggravarsi in ragione delle severe conseguenze sanzionatorie connesse all’ammissione o all’esclusione della compatibilità del dolo evasivo con finalità di diversa natura.

L’introduzione dell’ipotesi prevista dall’art. 2 comma 2–bis (« Se l’ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore a euro centomila, si applica la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni») rinvigorirà la disputa qualificatoria sulla natura della previsione della fattispecie punita meno severamente. In passato la contrapposizione era stata risolta dalla Corte di Cassazione rispetto alla fattispecie descritta dall’art. 2, comma 3, del D.Lgs. n. 74/2000 («se l’ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore a € 154.937,07 si applica la reclusione da sei mesi a due anni», abrogata dall’art. 2, comma 36 vicies semel, lett. a) del D.L. 13 agosto 2011, n. 138 convertito con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148). I giudici di legittimità avevano in prevalenza rigettato la prospettazione della previsione quale fattispecie autonoma, preferendole quella di circostanza attenuante (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 25204/2008; Id., n. 20529/2011; Id. n. 5720/2016; contra Cass. Pen., Sez. III, n. 23064/2008). Qualche argomento a favore della natura di fattispecie autonoma è traibile dalla considerazione che l’art. 25—quinquiesdecies D.Lgs.n. 231/2001 differenzia diverse sanzioni pecuniarie (lettere a e b) per le violazioni dell’art. 2, comma 1 (fino a cinquecento quote) e comma 2 bis (fino a quattrocento quote) delineandoli come distinti “delitti” presupposti degli illeciti amministrativi corrispondenti. Non dissimilmente dalla nuova confisca allargata tributaria (v. infra). La questione non è di secondario rilievo. Si considerino i differenti esiti sanzionatori che conseguono rispetto all’ipotizzabile (o meno) bilanciamento ex art. 69 c.p. con ulteriori aggravanti (si consideri quella prevista dall’art. 13 bis, comma 3, D.Lgs. n. 74/2000) o con la recidiva. Con ancoraggio della pena base, in caso di equivalenza o di soccombenza dell’attenuante, alla severa pena prevista dal primo comma dell’art. 2 cit.

(Segue): il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti ex art. 8 D.Lgs. n. 74/2000

In termini speculari alle innovazioni operate rispetto alla fattispecie prevista dall’art. 2 D.Lgs. n. 74/2000, il delitto previsto dall’art. 8 D.Lgs. n. 74/2000 vede accrescere il rigore sanzionatorio che eguaglia quella del primo reato (da quattro a otto anni), muovendo dalla stessa pena originaria (da un anno e sei mesi a sei anni).

Si richiama in proposito quanto in precedenza osservato sulla positiva integrazione delle soglie edittali per autorizzare le intercettazioni, per emettere misure cautelari personali coercitive (acquisizione già riferibile al reato), nonché per adottare il fermo o l’arresto in flagranza, misura precautelare che nel caso del delitto in esame ha maggiori spazi di praticabilità. Parimenti per il prolungamento dei termini di prescrizione (artt 157, 161 c.p., 17, comma 2, D.lgs. n. 74/2000), al netto degli effetti dell’entrata in vigore della legge n. 3/2019.

Si tratta, infatti, di reato di mera condotta (commissiva) ed istantaneo (essendo superato il diverso orientamento che assumeva la natura permanente del reato ex art. 4, lett. d) d.l. n. 429/1982, sul presupposto dell’obbligo di conservazione in contabilità del documento mendace; cfr. Cass. Pen., SS.UU., 3.2.1995, in Boll.trib., 1995, 632). In particolare, ove unico sia il documento falso, il delitto si consuma con la sua emissione ed il suo rilascio, mentre ove nel medesimo periodo di imposta plurimi siano gli episodi, la consumazione si verifica con l’emissione dell’ultimo di essi (Cass. Pen., Sez. III, n. 6264/2010; Id., 20787/2002; Id., 25816/2016). Onde, è da tale conclusivo momento che decorre il termine di prescrizione (Cass. Pen., Sez. III, n. 10558/2013; Id., n. 31268/2017), quale reato eventualmente abituale in relazione a ciascun periodo di imposta. Il delitto, dunque, si consuma con l’emissione o il rilascio di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti ed ha veste di reato di pericolo astratto, per la cui configurabilità è sufficiente il compimento dell’atto tipico (Cass. Pen., III, n. 25816/2016; Id., n. 40172/2006; Id., n. 12719/2007; Id., 44449/2015). Più esattamente, il reato si consuma nel momento in cui l’emittente perde la disponibilità della fattura, non essendo richiesto che il documento pervenga al destinatario, né che quest’ultimo lo utilizzi (Cass. Pen., Sez. III, n. 25816/2016; Id., n. 26395/2004). In base all’art. 21, comma 1, ult. periodo, D.p.r. n. 633/1972 «la fattura, cartacea o elettronica, si ha per emessa all’atto della sua consegna, spedizione, trasmissione o messa a disposizione del cessionario o committente». Non è sufficiente, per contro, la mera predisposizione delle fatture ideologicamente false non seguita dalla consegna (o, si ritiene, dalle condotte equiparate di spedizione, trasmissione o messa a disposizione) ai soggetti che potrebbero beneficarne (Cass. Pen., Sez. III, n. 50628/2014). Se in termini naturalistici non può escludersi l’evenienza che formato un documento, lo stesso non sia messo a disposizione del potenziale utilizzatore (ad esempio per l’inatteso intervento di una verifica tributaria o di un controllo di polizia) e sebbene non sussista una divieto normativo assimilabile a quello previsto dall’articolo 6 D.Lgs. n. 74/2000, deve riconoscersi che è la natura stessa del reato in esame (di pericolo astratto) a precludere la configurabilità dello stesso a titolo di tentativo; in linea, occorre aggiungere, con l’ispirazione fondamentale della riforma del 2000 di deciso abbandono del reato prodromico.

Viene prevista un’ipotesi punita meno severamente (art. 8, comma 2 bis, D.Lgs.n. 74/2000), da ritenere attenuante, laddove l’importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti, per periodo d’imposta, sia inferiore a euro centomila; evenienza in cui si applica la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni. Anche questa ipotesi, seguendo l’elaborazione giurisprudenziale tradizionale, dovrebbe integrare una figura di natura circostanziale, che replica la previsione dell’art. 8, comma 3, D.Lgs. n. 74/2000, anteriormente all’abrogazione del 2011 (in tal senso Cass. Pen., Sez. III, n. 5720 del 07/01/2016 Cc., dep. 11/02/2016 Rv. 265948; contra Cass. Pen., Sez. III. n. 23064 del 06/03/2008 Ud. , dep. 10/06/2008, Rv. 239919.

(Segue): altri delitti per i quali è previsto l’inasprimento sanzionatorio: la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici ex art. 3 D.Lgs. n. 74/2000, l’occultamento o distruzione di documenti contabili ex art. 10 D.Lgs. n. 74/2000 e le omesse dichiarazioni ex art. 5, comma 1, e 5, comma 1 bis, D.Lgs. n. 74/2000

Per altri delitti la scelta “rigorista” si è espressa solo nell’incremento dei minimi edittali e dei massimi edittali, senza essere compensata dall’introduzione di ipotesi circostanziali. Per alcuni di essi ciò è giustificato dalla presenza di soglie di punibilità nella struttura tipica.

E’ il caso del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici ex art. 3 D.Lgs. n. 74/2000le cui pene edittali salgono da tre a otto anni, muovendo dai minori limiti originari, oscillanti da un anno e sei mesi a sei. Risultano positivamente integrate le soglie edittali, da computare nel massimo, per autorizzare le intercettazioni, per emettere misure cautelari personali coercitive (acquisizioni di cui il reato era già provvisto), nonché per adottare l’arresto in flagranza e, ora, il fermo.

Si tratta di una fattispecie sulla quale molto aveva “investito” la riforma del 2015, dilatandone i confini applicativi, attraverso una semplificazione della struttura, la cui condotta, da “trifasica”, era divenuta “bifasica”. In particolare, la precedente riforma ha eliminato la necessità della “falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie” quale distinto elemento costitutivo della condotta. Ne è derivato l’ampliamento del novero dei potenziali autori del reato, realizzabile anche dai soggetti tenuti alla presentazione della dichiarazione dei redditi ma non vincolati alla tenuta delle scritture contabili obbligatorie. L’elemento soppresso può essere comunque ricondotto (diversamente dal passato) alla categoria dei “documenti falsi” che valgono ad integrare la condotta del reato in quanto «sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie o sono detenuti a fini di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria» (cfr. art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 74/2000). In secondo luogo, prescindendo dalla necessaria interconnessione delle singole condotte, è stata introdotta una relazione alternativa tra le operazioni simulate (elemento nuovo), l’utilizzo di documenti falsi e gli altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria. Ciò testimonia l’equipollenza di tali elementi e dunque l’autosufficienza di ciascuno (“operazioni simulate”, o “documenti falsi”, o “altri mezzi fraudolenti”) ad integrare la condotta del delitto, in parte, rivedendo il precedente necessario collegamento. Caratteristica comune di tali equivalenti elementi è l’idoneità “ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria. Per chiarire il significato di alcuni elementi della fattispecie, sono state introdotte le definizioni normative delle “operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente” ( art. 1, g-bis, D.Lgs. n. 74/2000, quali «operazioni apparenti, non integranti quelle disciplinate dall’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte ovvero le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti») e dei “mezzi fraudolenti” (art. 1, g-ter, D.Lgs. n. 74/2000, quali «condotte artificiose attive nonché quelle omissive realizzate in violazione di uno specifico obbligo giuridico, che determinano una falsa rappresentazione della realtà»), a sua volta da coniugare con quella dell’articolo 3, comma 3, D.Lgs. n. 74/2000 («Ai fini dell’applicazione della disposizione del comma 1, non costituiscono mezzi fraudolenti la sola violazione degli obblighi di fatturazione e di annotazione dei corrispettivi nelle scritture contabili o la sola indicazione nelle fatture o nelle annotazioni di corrispettivi inferiori a quelli reali»).

Avendo quale riferimento le forme di evasione contrastate da tale delitto, la fattispecie penale ex art. 3 D.Lgs. n. 74/2000, dopo la riforma del 2015, si realizza quando, oltre all’indicazione, nella dichiarazione dei redditi o ai fini IVA, di elementi attivi inferiori a quelli effettivi o elementi passivi fittizi, alternativamente: (i) sono compiute operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente (non inesistenti, né documentate da fatture o documenti di analogo rilievo probatorio, non integranti abuso del diritto); (ii) si utilizzino documenti falsi (è il caso della sostituzione dei documenti di vendita originariamente emessi, con altri contraffatti riportanti importi inferiori di ricavi inseriti in contabilità; nonché dei rogiti sottomanifestanti per il venditore; o, ancora, in caso di elementi passivi, delle falsificazioni non rappresentate da fatture o documenti di analogo rilievo probatorio, arg. ex art. 2 D.Lgs. n. 74/2000); (iii) si impieghino altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’Amministrazione finanziaria (si pensi alle condotte artificiose attive nonché quelle omissive realizzate in violazione di uno specifico obbligo giuridico, che determinano una falsa rappresentazione della realtà, diverse dalle omesse fatturazioni/annotazioni e sotto-fatturazioni/annotazioni di elementi attivi; oltre che, al ricorrere di specifiche condizioni, la tenuta di contabilità in nero, l’accensione e l’alimentazione di conti bancari fittiziamente intestati, l’interposizione fittizia di persone ed il ricorso a società di comodo).

Per l’occultamento o distruzione di documenti contabili ex art. 10 D.Lgs. n. 74/2000 la pena eguaglia quella del delitto ex art. 3 cit. raggiungendo le ragguardevoli soglie da tre a sette anni, con incremento significativo dei limiti edittali originari (da “un anno e sei mesi a sei”) Risultano integrate le soglie edittali per autorizzare le intercettazioni, per emettere misure cautelari personali coercitive (acquisizione già riferibile al reato), nonché per adottare il fermo o l’arresto in flagranza.

In base alla legge di conversione del D.L. n. 124/2019, le pene dei reati di omessa dichiarazione dei redditi e dell’IVA (ex art. 5 comma 1, D.Lgs. n. 74/2000) e delle ritenute da parte del sostituto di imposta (art. 5, comma 1 bis, D.Lgs. n. 74/2000) salgono nel minimo (da un anno e sei mesi) a due anni e nel massimo (da quattro anni) a cinque anni (incremento più contenuto rispetto al quello ipotizzato nel D.L. n. 124/2019 che aveva immaginato di fissarlo in sei anni). Si mantiene la maggior severità del delitto di omessa dichiarazione ex art. 5, comma 1 e 1 bis D.Lgs. n. 74/2000 rispetto a quello di dichiarazione infedele ex art. 4 D.Lgs. n. 74/2000, conservando la soglia di irrilevanza penale dell’imposta evasa (pari a 50.000 euro), per ciascun imposta, maturata su base annuale. Il più elevato limite edittale massimo legittima, al ricorrere delle ulteriori condizioni, l’emissione misure cautelari personali coercitive (artt. 273, 274, lett. c., 280, comma 1 e 2 c.p.p.), nonché l’adozione dell’arresto facoltativo in flagranza (art. 381, comma 1, c.p.p.). Anche se sotto questo profilo, andrà considerata la previsione dell’art. 5, comma 2, D.Lgs. n. 74/2000. Infatti, quanto ai delitti di omessa dichiarazione ex art. 5 cit. la giurisprudenza (Cass. Pen., Sez.III, n. 45578/2016; Cass. Pen., Sez.IV, n. 24691/2016; Cass. Pen., Sez. III, n. 17120/2016) si è consolidata nel ritenere che il termine di prescrizione decorre dal novantunesimo giorno successivo alla scadenza del termine ultimo stabilito dalla legge per la presentazione della dichiarazione e non dal giorno in cui l’accertamento del debito di imposta diviene definitivo. Il limite edittale massimo introdotto dalla legge di conversione non rende autorizzabili le intercettazioni, diversamente dalla soglia inizialmente prospetta dal D.L. n. 124/2019.

L’innalzamento del massimo edittale comporta che anche per le fattispecie penali ex art. 5 cit. sarà necessaria la celebrazione dell’udienza preliminare a seguito della richiesta di rinvio a giudizio per tutti i procedimenti nei quali l’azione penale non sia stata esercitata alla data di entrata in vigore della legge di conversione (arg. ex artt. 550, 416, 418 c.p.p.); infatti, fermo restando, ovviamente, sul piano sostanziale che la sanzione massima cui il giudice potrà far riferimento resterà quella prevista dalla norma nella formulazione vigente al momento di commissione del fatto (art. 2, quarto c.p.), in assenza di apposita norma transitoria, occorre tenere conto che in materia processuale vige il principio del tempus regit actum e che, in tema di successione di leggi processuali nel tempo, non opera il principio di retroattività della legge più favorevole (per un’applicazione di questi principi cfr. Cass. Pen., Sez. V, n. 35588 del 03/04/2017; Cass. Pen., Sez. II, n. 9327/2019). Per tali ragioni si renderà anche praticabile la richiesta di giudizio immediato ex art 453 c.p.p. in presenza degli ulteriori requisiti previsti da tale disposizione.

(Segue): la dichiarazione infedele ex art. 4 D.Lgs. n. 74/2000

La fattispecie penale è interessata da plurimi interventi riformatori. Da un lato, infatti, aumentano i limiti edittali delle pene: da quelli nativi, oscillanti da “uno a tre” anni, viene raggiunta nel minimo la soglia di due anni e nel massimo quella di quattro anni e sei mesi (più ridotta di quella originariamente immaginata dal D.L. n. 124/2019, pari a cinque anni).

Sull’entità della pena sono state espresse perplessità (Cfr. A. Perini, Brevi note sui profili penali tributari del d.l. n. 124/2019, audizione del 5 novembre 2019 davanti alla Commissione Finanze della Camera) rilevando un profilo di disallineamento rispetto ad un’ipotesi chiaramente fraudolenta come il delitto ex art. 11, comma 1, D.Lgs. n. 74/2000 che finisce per ricevere un trattamento più mite (nella pena massima attestandosi su quattro anni, laddove l’importo di imposte, sanzioni ed interessi non superi duecentomila euro).

I nuovi limiti edittali non consentono le intercettazioni, ma permettono l’adozione di misure cautelari coercitive custodiali (solo domestiche, dunque non carcerarie), oltre che, in linea teorica, l’arresto facoltativo in flagranza. Per il reato è ora prevista la celebrazione dell’udienza preliminare; ciò influisce sulla forma di esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero (esigendo la richiesta di rinvio a giudizio ex art. 416 c.p.p.) con praticabilità anche della richiesta di giudizio immediato ex art 453 c.p.p., al ricorrere degli altri requisiti previsti da detta norma. Incidendo su norme processuali (art. 550, 516 e 418 c.p.) la modifica è governata dal principio tempus regit actum, che rende rilevante la verifica della legge vigente al momento dell’esercizio dell’azione penale. L’innalzamento del limite editale massimo finisce per precludere la praticabilità della sospensione del processo con messa alla prova ex art. 168 bis c.p. di dubbia praticabilità in assenza del pagamento parziale o della adesione a programmi di rateazione del debito d’imposta, quale condotta volta alla eliminazione delle conseguenze dannose e pericolose derivanti dal reato ovvero, ove possibile, quale risarcimento del danno.

Sotto il profilo della struttura della fattispecie, inoltre, la soglia di rilevanza dell’imposta (IVA, IRES o IRPEF) evasa si abbassa dall’originario importo di centocinquantamila a centomila euro, su base annuale, al pari della soglia degli elementi attivi sottratti all’imposizione di inevitabile rilevanza penale ex art. 4, comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 74/2000, fissata ora in due milioni di euro (da quella originaria di tre milioni di euro). Al sotto di quest’ultimo importo, resta ferma la necessità che sia integrato il rapporto percentuale di almeno il 10 per cento tra elementi non dichiarati ed elementi indicati in dichiarazione.

Infine, viene modificato (e non più abrogato come immaginava la prima versione del D.L. n. 124/2019) il comma 4 ter, dell’articolo 4 cit.; nelle versione previgente tale disposizione, fuori dei casi di cui al precedente comma 1-bis, escludeva l’integrazione di fatti punibili per le valutazioni che «singolarmente» considerate, differivano in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette, precisando altresì che degli importi compresi in tale percentuale non si teneva conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma 1, lettere a) e b) dell’art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000. La legge di conversione sostituisce all’espressione «singolarmente» la parola «complessivamente», richiedendo di considerare l’effetto congiunto delle valutazioni scorrette finendo per porre un limite addizione alla loro irrilevanza penale, esigendo una un’operazione di addizione delle singole componenti valutative scorrette.

La rimodulazione del comma 1 ter dell’art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000 (pur con l’abbandono della più radicale abrogazione ipotizzata nell’originaria versione del D.L. n. 124/2019 ) segnala la riconsiderazione parziale di una scelta fondante della riforma del 2015. In quell’occasione sono state fissate una serie di regole per la definizione dell’imposta evasa e degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, di rilievo ai fini della fattispecie penale della dichiarazione infedele. A tal proposito, è stato stabilito che ai fini dell’integrazione delle soglie penali fissate dall’articolo 4 del D.Lgs. n. 74/2000 non rilevano i valori corrispondenti a non corrette classificazioni o valutazioni, secondo i parametri tributari, di elementi attivi e passivi oggettivamente esistenti, «rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali» (art. 4, comma 1 bis, prima parte, D.Lgs. n. 74/2000). Né possono considerarsi d’interesse penale gli elementi attivi sottratti all’imposizione per l’importo che consegue a violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, ovvero l’indicazione di elementi passivi non inerenti o non deducibili, secondo le regole tributarie (cfr. art. 109 TUIR), a condizione che essi siano reali (art. 4, comma 1 bis, seconda parte, D.Lgs. n. 74/2000). Oltre a queste regole, era stata stabilita non punibilità delle valutazioni che, singolarmente considerate, differivano in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette, con l’ulteriore precisazione che degli importi compresi in tale percentuale non si teneva conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma 1, lettere a) e b) dell’articolo 4 citato (art. 4, comma 1 ter, D.Lgs. n. 74/2000). Tale ultima previsione ha comportato l’irrilevanza penale di non corrette valutazioni di elementi attivi e passivi, anche in assenza di condizione di trasparenza, in presenza di scostamenti, singolarmente intesi, di lieve entità (ovvero inferiore al 10 per cento), pur se, assommati ad altri di pari entità e contenuto, utili a raggiungere importi, in cifra assoluta, eccedenti i limiti quantitativi delle soglie di punibilità ex art. 4, comma 1, lettera a) e b) D.Lgs. n. 74/2000 (cfr. relazione illustrativa della riforma del 2015).

Si trattava di una previsione che aveva sollevato diversi commenti. Da una parte era stato segnalato che scostamenti inferiori al 10% erano del tutto fisiologici e dunque si è contrastata l’ipotesi dell’abrogazione della causa di non punibilità introdotta nel 2015 (cfr. A. Perini, op. cit., p. 12). Per converso, non erano mancate perplessità sul nuovo assetto scaturito dalla riforma del 2015. Infatti, l’organizzazione volontaria di una serie di scorrette valutazioni di importo percentuale singolarmente pure modesto, ove complessivamente considerate, quand’anche prive di qualsiasi trasparenza, avrebbe potuto far raggiungere elevati importi assoluti di evasione fiscale, penalmente neutralizzati in forza della previsione ipotizzata; senza essere compensata da un onere di limpidezza, diversamente dalle valutazioni “dichiarate” previste dall’art. 4, comma 1 bis, D.Lgs. n. 74/2000, come richiesto, prima della riforma del 2015, anche dall’art. 7 del D.Lgs. n. 74/2000; norma, quest’ultima, che imponeva più precisa ed intensa condizione di trasparenza delle scorrette rilevazioni contabili e delle valutazioni, limitate a quelle estimative ed ammesse a condizione di svolgimento secondo criteri di stima indicati nel bilancio.

Quanto alle forme di evasione contrastate dal delitto di dichiarazione infedele ex art. 4 D.Lgs. n. 74/2000, come ricorda la Corte di Cassazione (n. 30686/2017), tale fattispecie penale è stata ridisegnata incentrando la condotta punibile su falsità ideologiche prive di qualsiasi connotato fraudolento. Tale condotta si materializza, alternativamente: (i) nella mancata indicazione in dichiarazione di componenti positive del reddito registrate per ammontare inferiore a quello reale, nelle diverse forme dell’omessa fatturazione e annotazione nelle scritture contabili o della sotto-fatturazione, ovvero all’indicazione in fattura di un importo inferiore a quello reale (arg. ex art. 3, comma 3, D.Lgs. n. 74/2000); (ii) nell’indicazione nella dichiarazione di elementi passivi inesistenti (e non semplicemente fittizi), ossia di componenti negativi del reddito mai venuti ad esistenza in rerum natura, con conseguente indebita riduzione dell’imponibile; ulteriore requisito negativo, è che tali componenti negative inesistenti non siano documentate da fatture o altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, circostanza che importerebbe la configurabilità del diverso reato ex art. 2, D.Lgs. n. 74/2000.

(Segue): mantenimento delle soglie di punibilità per imposta evasa per i delitti di omesso versamento ex art. 10 bis e 10 ter D.Lgs. n. 74/2000

Per i reati di omesso versamento delle ritenute certificate e dell’IVA l’inasprimento ipotizzato dall’originaria versione del D.L. n. 124/2019 era ricollegato all’abbassamento degli importi complessivi di imposta annuale dovuta e non versata di rilievo penale: per le ritenute la soglia scendeva da euro centocinquantamila a centomila euro, per l’IVA fletteva da euro duecentocinquantamila a centocinquantamila euro. Secondo il condivisibile orientamento della Corte di Cassazione, la soglia di punibilità ha natura di elemento costitutivo del fatto di reato, contribuendo a definirne il disvalore (in tal senso, Cass. Pen., Sez. U, n. 37424 del 28/03/2013, Romano, non mass. sul punto; Cass. Pen., Sez. III, n.3098/2016; Id., n.35611/2016; Id., n.42868/2013).

La legge di conversione sopprime tale immaginata contrazione delle soglie di rilievo penale; scelta che si “spiega” con le dimensioni di rilievo sistemico del fenomeno. Si tratta di vasta area di evasione che non si nasconde e che è divenuta una impropria forme di finanziamento, se non, nei casi più gravi, una modalità di arricchimento illecito attraverso condotte preordinate all’insolvenza. Dai rapporti della Corte dei Conti tale evasione interessa quasi 3 milioni di contribuenti. Nel 2015 il valore complessivo di queste omissioni si è attestato su 14,3 miliardi di euro. Nel 2016 la quota dell’IVA dichiarata e non versata è restata elevata attestandosi su 6,7 miliardi di euro. La scelta dunque ha sicure ragioni economiche ma appare assai miope in ottica general−preventiva essendo conosciuta la tendenza dei contribuenti più antagonisti alla raginoi erariali a dimensionare l’evasione appena al di sotto delle soglie di rilievo penale.

Estensione della causa di non punibilità ad alcuni reati tributari fraudolenti

Del tutto innovativa la previsione della causa di non punibilità ex art. 13, comma 2, D.Lgs. n. 74/2000 per i delitti di cui agli artt. 2 e 3 d.lgs. n. 74/2000, parificati in ciò ai reati di cui agli articoli 4 e 5 D.lgs. n. 74/2000, in presenza di una serie di condizioni congiunte. Esse sono sintetizzabili nell’estinzione dei debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso e tempestivo (ossia intervenuto prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali). La novità è assai consistente perché riferisce effetti premiali assai poderosi anche a condotte a spiccata struttura fraudolenta e realizza, in maniera inattesa, le condizioni della patrimonializzazione della responsabilità penal-tributaria.

Quanto gli autori di una frode possano essere invogliati da tale nuova prospettiva premiale a riconsiderare le ragioni della propria condotta può essere seriamente dubitato. Si ritiene però che la novità possa influire su un altro aspetto, ovvero sull’accesso al rito premiale ex art. 444 c.p.p.. In tempi recenti si è sviluppata un’interpretazione estensiva in seno alla giurisprudenza di legittimità In particolare, la Corte regolatrice (Cass. pen., Sez, III, n. 38684 del 12/04/2018), in relazione al delitto di omesso versamento dell’iva (con principio ritenuto applicabile anche per i reati di omesso versamento di ritenute dovute o certificate e di indebita compensazione), ha ritenuto che l’estinzione dei debiti tributari mediante integrale pagamento, da effettuarsi prima dell’apertura del dibattimento, non costituisce presupposto di legittimità del patteggiamento ai sensi dell’art. 13 bis, D.Lgs. n. 74/2000, in quanto l’art. 13, comma 1, D.lgs. n. 74/2000 configura tale comportamento come causa di non punibilità dei delitti ex artt. 10 bis, 10 ter e 10 quater del medesimo decreto e il patteggiamento non potrebbe certamente riguardare reati non punibili. Da queste premesse la Cassazione (Sez. Pen. III, n. 10800/2019) ha ritenuto di raggiungere conclusioni analoghe anche con riferimento ai delitti di cui agli artt. 4 e 5 del d. Igs. n. 74/2000, per i quali parimenti è previsto che il ravvedimento operoso costituisce causa di non punibilità e dunque non può configurare una condizione per accedere al rito alternativo del patteggiamento. Anche per tali reati, dunque, il rito contratto e premiale può celebrarsi senza la preventiva verifica dell’esistenza da parte del giudice del ravvedimento operoso. Nello stesso senso,. Cass. 48029/2019 chiarisce: «in altri termini, o l’imputato provvede, entro l’apertura del dibattimento, al pagamento del debito a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali, in tal modo ottenendo la declaratoria di assoluzione per non punibilità di uno dei reati di cui agli artt. 4, 5, 10 bis, 10 ter e 10 quater, ovvero non provvede ad alcun pagamento, restando in tal modo logicamente del tutto impregiudicata la possibilità di richiedere ed ottenere l’applicazione della pena per i medesimi reati (Sez. 3, n. 38684 del 12/04/2018, P.G. in proc. Incerti, Rv. 273607 – 01; Sez. 3, n. 39328 del 17/05/2019, P.G. in proc. Trassinelli, non mass.; Sez. 3, n. 10800, del 23/11/2018, P.G. in proc. Bianconi, non mass.)». La lettura “estensiva” della praticabilità del patteggiamento senza estinzione del debito tributario ai reati ex art. 4, 5 e 10 D.lgs. n. 74/2000 francamente non convince appieno ravvisandosi un ampio spazio in cui il pagamento non rileva quale causa di non punibilità (ad esempio perché tardivo) e ben potrebbe rilevare quale condizione di legittimità di accesso al rito premiale. In ogni caso, di tale impostazione esegetica occorre tener conto per valutare se ora l’estensione della stessa causa di non punibilità ai reati di frode fiscale ex art. 2 e 3 D.Lg. n. 74/2000 possa o meno vanificare la limitazione di accesso al rito premiale prevista dall’art. 13 bis, comma 2, D.Lgs. n. 74/2000.

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