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martedì 29 Aprile 2025
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Multinazionali, tassa globale del 21%, la proposta Usa irrompe nel dibattito Ocse

Un’aliquota del 21 per cento uguale per tutti e un imponibile sul fatturato
calcolato su base mondiale. La proposta radicale americana, che cerca di
sbloccare la situazione di stallo nei  negoziati globali di lunga durata sulla
tassazione delle multinazionali, ospitati dal club dei paesi dell’Ocse, è
arrivata sugli stagnanti colloqui di Parigi come una sferzata sparigliando
cartelli e protezioni inconfessabili. Nessuno se lo aspettava, ma tra i tanti
sconvolgimenti portati dal Covid 19 va registrata anche un’inversione a U
della nuova amministrazione Biden riguardo la politica fiscale seguita da
Donald Trump a favore dei giganti tecnologici statunitensi e delle altre
grandi multinazionali. I paradisi fiscali europei si preparano a vendere cara
la pelle, dopo l’attacco alle spalle arrivato da oltre oceano proprio dal
paese leader della finanza mondiale, che fino alla settimana scorsa era
considerato il campione degli interessi dei grandi gruppi multinazionali.
Le nazioni europee che offrono una bassa tassazione alle grandi società
hanno fatto buon viso a cattivo gioco accettando in linea di principio il
riequilibrio delle imposte societarie, ma hanno già segnalato che
Washington può aspettarsi lotta dura su gran parte dei dettagli.
Certo sarebbe un duro colpo per Irlanda, Paesi Bassi, Lussemburgo, Malta
e Cipro, i piccoli paradisi fiscali dell’Unione europea dove hanno le loro
basi le più grandi società del mondo e che hanno difeso ferocemente finora
il loro diritto di ribassare le imposte sulle imprese residenti anche solo
formalmente a loro piacimento, facendo concorrenza fiscale a danno prima
di tutto dei partner europei.

“Pochi criticheranno i piani per sradicare l’elusione fiscale, ma è solo
quando si inizia a parlare che alcuni paesi vanno nella direzione opposta”,
avverte Tove Maria Ryding, responsabile delle politiche presso la Rete
europea sul debito e lo sviluppo a Bruxelles. 
Qualsiasi nuova tassa a livello dell’Ue richiede l’accordo unanime di tutti i
27 Stati membri, compresi i governi che finora hanno protetto i loro diritti
fiscali. Nel 2018 un’alleanza di paesi più piccoli ha bloccato i colloqui
internazionali presso l’Ocse a favore di una tassa tecnologica europea.
All’inizio di quest’anno paesi tra cui Irlanda, Malta e Lussemburgo si sono
opposti alla bozza dell’Ue per costringere le multinazionali con più di 750
milioni di euro di fatturato annuo a riferire quanti profitti hanno realizzato
e le tasse pagate in tutti gli Stati membri dell’Ue. La Commissione europea
ha subito un’imbarazzante sconfitta lo scorso anno quando la sua storica
decisione di costringere Apple a rimborsare 14,3 miliardi di euro di tasse non pagate al governo irlandese è stata annullata dalla Corte di giustizia dell’Ue. Anche se la Commissione annuncia appello contro la decisione, la
sentenza mostra l’inadeguatezza del diritto dell’Unione a contrastare il
gigantesco fenomeno dell’elusione fiscale che sta sottraendo centinaia di
miliardi di imposte ai bilanci anti Covid nei suoi stessi confini.

L’accordo in corso di negoziazione attraverso l’Ocse coprirà 135 paesi e
tutte le più grandi società del mondo, togliendo il compito dalle mani di
Bruxelles. “Le misure dell’Ocse significano che l’Unione europea non avrà
bisogno della propria tassa digitale”, osserva un funzionario Ue. Paolo
Gentiloni, commissario europeo per l’economia, ha accolto con favore
l’iniziativa degli Stati Uniti e ha affermato che una nuova serie di regole
globali per la tassazione dei giganti digitali è la “soluzione migliore”.  La
seconda “è avere una proposta europea, ma la cosa più difficile è attuare
soluzioni nazionali che è ciò che sta accadendo ora”. Tuttavia Gentiloni ha
notato che i piani degli Stati Uniti “non erano esattamente gli stessi” di
quelli sviluppati in Europa e che “i criteri saranno cruciali, ma penso che
possiamo trovare soluzioni comuni molto forti”.
Un eventuale accordo non potrà mai essere concretamente applicato senza
la collaborazione delle stesse multinazionali e l’adesione di tutti gli Stati.
Per ottenerle, la pressione diplomatica degli Stati Uniti e la conseguente
disponibilità a fissare inevitabili contropartite, saranno determinanti. La
battaglia più grande sarà probabilmente su che livello stabilire il tasso
minimo globale. Gli Stati Uniti propongono un’imposta sulle società
minima effettiva del 21%. I Paesi Bassi e il Lussemburgo hanno tassi
nominali superiori, mentre l’aliquota dell’imposta sulle società irlandese è
del 12,5%. Il ministero delle Finanze irlandese ha dichiarato, interpellato
dalla corrispondente del Financial Times, che in linea di principio non era
ancora stata concordata un’aliquota. “I piccoli paesi, come l’Irlanda,
devono essere in grado di utilizzare la politica fiscale come leva legittima
per compensare i vantaggi di scala, risorse e ubicazione di cui godono i
paesi più grandi – avvertono a Dublino – allo stesso tempo, accettiamo la
necessità di limiti per garantire che qualsiasi concorrenza sia equa e
sostenibile”.

Feargal O’Rourke, managing partner di PwC in Irlanda, è convinto che
l’Irlanda e paesi come l’Ungheria, che ha un tasso del 9%, resisteranno a un
minimo di tassazione fissato su piano internazionale. “L’Irlanda sta
dicendo che stiamo andando a combattere dal nostro angolo, come ci si
aspetterebbe”, dice ancora O’Rourke. Tuttavia alla proposta degli Stati Uniti “non c’è stato panico” per la potenziale erosione del vantaggio fiscale dell’Irlanda. Il governo di Dublino ritiene che la forza lavoro
internazionale altamente qualificata del paese e le relazioni di lunga data
con le società multinazionali lo renderanno competitivo anche se la sua
posizione fiscale cambia. “Le tasse ora sono solo uno dei tanti punti di
attrazione che l’Irlanda ha per le multinazionali, se questo fosse accaduto
20 anni fa, sarebbe stato più preoccupante ” si ripete dai ministeri
economici. Ma anche nel resto dei paesi europei una tassa piatta sulle
multinazionali, addirittura oltre l’asticella del 20%, potrebbe incontrare
resistenze. Stati membri come Francia e Italia volevano imporre da tempo
tasse internazionali capaci di intercettare i profitti dei giganti della
tecnologia, ma la Germania potrebbe cercare di proteggere le sue potenti
case automobilistiche, che non erano coinvolte dalle proposte iniziali
dell’Ocse e verrebbero colpite invece dal piano statunitense. Anche la
definizione di ciò su cui viene riscossa l’imposta potrebbe essere
contestata, afferma Ryding: “Un modo per annacquare la proposta di
imposta minima sarebbe spingere affinché le regole si applichino solo ai
profitti che non sono conformi alle misure Ocse esistenti in materia di
spostamento dei profitti”.

In definitiva, per gli esperti della Rete europea sul debito e lo sviluppo, i
colloqui dell’Ocse dovranno raggiungere un ampio consenso, lasciando
spazio alle coalizioni di paesi per unirsi e annacquare elementi delle
proposte statunitensi. Nonostante il desiderio della maggior parte dei
governi di generare in questo momento più entrate fiscali per sostenere le
misure anti-Covid, la storia dei recenti negoziati fiscali internazionali
suggerisce che i colloqui vireranno verso un accordo con il minimo
comune denominatore. “Nell’Ue e nell’Ocse – scuote la testa Ryding – non
abbiamo coalizioni di paesi progressisti che chiedono di più, ma alleanze
di paradisi fiscali che vogliono di meno”.

Nella tabella il livello di tassazione dei singoli paesi

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