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lunedì 10 Marzo 2025
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Paradisi fiscali nel cortile della Ue costano all’Italia tra i 5 e gli 8 mld di dollari l’anno

Di Luciano Cerasa

La concorrenza fiscale sleale messa in piedi da alcuni paesi a danno degli altri è uno dei principali elementi di destabilizzazione dell’Unione europea, un elemento ben più dirompente di sovranismi e populismi di facciata. E il paese a essere maggiormente penalizzato dai paradisi fiscali spuntati nel cortile di casa è proprio l’Italia. A lanciare l’allarme sulle pratiche abusive di alcuni storici membri, presenti e passati, della Comunità europea è  il presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Roberto Rustichelli, che ha parlato in occasione della presentazione del rapporto annuale in Parlamento. “Ricostruire il consenso intorno al mercato unico”  ha esortato Rustichelli,  a cominciare, innanzitutto, dal rimuovere il fenomeno del dumping fiscale realizzato da alcuni Paesi membri: “Questo tipo di malsana competizione è frutto di egoismi nazionali e rischia di incrinare i valori che hanno finora sorretto il processo di integrazione europea”. La concorrenza fiscale posta in essere da alcuni Stati quali l’Olanda, l’Irlanda, il Lussemburgo e il Regno Unito è utilizzata, come rilevato dalla stessa Commissione europea, dalle imprese multinazionali per forme di pianificazione fiscale aggressiva.  Il fenomeno non è di facile quantificazione, ma il rapporto “Aggressive tax planning indicators” della Commissione europea analizza approfonditamente la questione e i suoi effetti. La concorrenza fiscale genera evidenti vantaggi per taluni Paesi. Il Lussemburgo, paese di circa 600 mila abitanti, è in grado di raccogliere imposte sulle società pari al 4,5% del PIL, a fronte del 2% dell’Italia. Anche l’Irlanda (2,7%) fa meglio dell’Italia, nonostante un’aliquota particolarmente bassa, che è, però, in grado di attrarre imprese altamente profittevoli con un margine operativo lordo mediamente pari al 69,4% del valore aggiunto prodotto. Gli investimenti internazionali si adattano alla geografia della concorrenza fiscale, segnala l’Antitrust.  L’Italia attira investimenti esteri diretti pari al 19% del PIL; il Lussemburgo pari a oltre il 5.760%, l’Olanda al 535% e l’Irlanda al 311%. Valori così elevati non trovano spiegazione nei fondamentali economici di questi paesi, ma sono in larga parte riconducibili alla presenza di società veicolo. In effetti, le imprese a controllo estero rappresentano oltre un’impresa su quattro del Lussemburgo, mentre generano il 73,6% del margine operativo lordo complessivo prodotto dalle imprese in Irlanda, a fronte del 12,7% in Italia. Uno studio commissionato dal Ministero delle Finanze olandese mostra che i soli flussi finanziari (dividendi, interessi e royalties) che attraversano le società di comodo olandesi ammontano a 199 miliardi di euro (il 27% del PIL del Paese). Ma se alcuni paesi ci guadagnano, è l’Unione europea a perderci, visto che i gruppi multinazionali reagiscono alla concorrenza fiscale localizzando le loro imprese più profittevoli proprio nei Paesi europei. Ciò non solo drena risorse dalle economie in cui il valore è effettivamente prodotto, ma riduce nel complesso la capacità della collettività di raccogliere risorse, in tal modo impedendo una più equa tassazione dei profitti delle imprese. A questo proposito, l’Italia è certamente uno dei paesi più penalizzati. Un esempio? La Fiat Chrysler Automobiles. “Si pensi – avverte Rustichelli – al rilevante danno economico per le entrate dello Stato causato dal recente trasferimento della sede fiscale a Londra di quella che era la principale azienda automobilistica italiana, nonché dal trasferimento della sede legale e fiscale in Olanda della società sua controllante”.

Il dumping fiscale costa a livello globale 500 miliardi di dollari l’anno, valuta l’Antitrust italiana, con un danno per l’Italia stimato tra i 5 e gli 8 miliardi di dollari l’anno. “Una concorrenza fiscale di cui, di fatto, beneficiano le più astute multinazionali, pone le imprese italiane, soprattutto quelle piccole e medie, ma anche le grandi società che mantengono comportamenti fiscali lodevolmente etici nei confronti del nostro Paese, in una situazione di grave svantaggio competitivo – osserva Rustichelli – inoltre, la riduzione degli introiti dovuta agli egoismi di pochi impedisce di abbassare le tasse alle imprese e ai cittadini, anzi spesso impone ai governi che la subiscono politiche fiscali più severe. Negli ultimi anni è stata coniata una nuova definizione “tax ruling” per individuare gli accordi sotto banco fatti da grandi multinazionali con alcuni governi per evitare di essere tassate con le aliquote dei paesi dove operano e effettuano le transazioni commerciali. Basse aliquote e poche spese: è la posta in palio intorno alla quale esplose lo scandalo LuxLeaks, chiamato così perché uno dei principali paesi coinvolti era proprio il Lussemburgo guidato dall’attuale Presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker. L’inchiesta giornalistica condotta in 31 paesi individuò trecento aziende offshore in tutto il mondo di cui 31 in italia. La Commissione europea ha individuato numerosi “tax ruling” in violazione delle norme sugli aiuti di Stato, imponendo, tra l’altro, all’Irlanda di recuperare 14,3 miliardi di euro da Apple, al Lussemburgo di recuperare 282,7 milioni di euro da Amazon e 23,1 milioni di euro da Fiat Finance and Trade.  Rimane il nodo irrisolto della tassazione delle imprese digitali, sul quale si stenta a trovare una soluzione condivisa a causa dell’opposizione di alcuni Paesi membri, per cui il dibattito è destinato a svilupparsi a livello dell’Ocse, in un contesto multilaterale ancora più complesso di quello europeo. L’integrità del mercato unico, secondo il rapporto, è posta a repentaglio anche da pratiche di dumping sociale/contributivo. Sulla loro scia si muovono le delocalizzazioni delle imprese, che sfruttano le minori tutele previste per i lavoratori nei paesi dell’Est: “Anche in questo caso, l’utilizzo distorto delle libertà fondamentali indebolisce il principio del mercato interno, mina la competitività delle imprese e innesca una rovinosa concorrenza al ribasso nelle politiche sociali ed ambientali”.

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