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martedì 29 Aprile 2025
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Poche tutele e nessuna ricompensa: è il Whistleblowing all’italiana

L’agenzia delle entrate è la prima ad aver adottato la procedura di tutela per chi denuncia illeciti, ma la legislazione italiana in materia è solo uno spot

 

“Whistleblowing”, così nel gergo anglosassone si usa indicare la procedura di tutela per chi segnala al Fisco comportamenti irregolari o casi di corruzione a danno dell’interesse pubblico. Uno strumento di emersione delle pratiche illecite largamente utilizzato tanto negli Usa quanto in Gran Bretagna, che per la prima volta troverà applicazione anche nel settore pubblico italiano. L’Agenzia delle Entrate, la prima fra le amministrazioni italiane, ha infatti dato attuazione a un piano anti-corruzione sulla scorta della “Whistleblowing policy” in salsa americana, ma limitata ai dipendenti dell’agenzia stessa. I quali, attraverso una procedura ad hoc, potranno denunciare in forma anonima le presunte condotte irregolari di cui sono testimoni: dall’uso indebito del badge per le presenze agli accessi ingiustificati nel sistema informativo, fino alle richieste, reiterate e sospette, di determinati fascicoli. La procedura prevede che la segnalazione venga inviata ad uno specifico indirizzo di posta elettronica, al quale, assicurano i vertici dell’Agenzia, avrà accesso un ristretto gruppo di dipendenti. L’anonimato sarà garantito nei processi penali, ma potrebbe cadere nel caso in cui impedisse la difesa dell’accusato.

I limiti della procedura italiana. Nonostante inizi a trovare applicazione solo ora, il “Whistleblowing” è in realtà presente nell’ordinamento italiano da più di tre anni. L’istituto, introdotto con la legge 190/2012 – la c.d. “legge anticorruzione”- e inserito nel D.lgs 165/2001 con l’art. 54-bis, prevede che il dipendente pubblico “che denuncia all’autorità giudiziaria, alla Corte dei Conti o al proprio superiore condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza” non possa essere “sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta” per “motivi collegati alla denuncia”. L’istituto poggia essenzialmente sul senso civico del singolo dipendente pubblico, al quale la legge garantisce l’anonimato salvo il caso in cui la contestazione della “soffiata” sia fondata: in tal caso “l’identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato”. La legge, che non specifica nel dettaglio quali reati o irregolarità possano essere oggetto di segnalazione, affida poi ai provvedimenti del Dipartimento di Funzione pubblica e alle organizzazioni sindacali la tutela dei lavoratori discriminati.

Fino ad oggi l’istituto non ha avuto particolare fortuna e, così costruito, si presta a molteplici critiche. In parte perché l’anonimato non è assicurato in tutti i casi e, se da un lato impone al dipendente un maggiore senso di responsabilità, dall’altro disincentiva l’emersione delle condotte illecite. A ciò si aggiunge la mancanza di un sistema premiale in favore dei segnalanti, nei confronti dei quali la legge si limita a ricollegare forme generiche di tutela contro le discriminazioni. Il fatto che la platea di “whistleblower” sia limitata ai soli dipendenti pubblici, poi, riduce drasticamente gli effetti di uno strumento che potrebbe dare risultati significativi se esteso anche ai soggetti esterni alla Pa e al settore privato.

L’esperienza anglosassone. In altri paesi, invece, l’istituto ha avuto ben altra fortuna. Nel Regno Unito una normativa in tema di “Whistleblowing” esiste già dal 1998 ed è una delle più complete: si tratta della “Public Interest Disclosure Act”, che pone forti tutele contro gli atti di ritorsione nei confronti dei denuncianti. Stando ai risultati, però, è degli Stati Uniti la regolamentazione di gran lunga più efficace. Il primo intervento normativo risale al 1863 con il “False Claim Act”, che disponeva una serie di tutele e incentivi in favore dei cittadini che segnalavano condotte illecite a danno dell’amministrazione federale. Negli anni, il Fca passa attraverso diverse correzioni e modifiche: la più rilevante è nel 1986, quando viene stabilito, in una forbice compresa fra il 15% e il 30% sui fondi recuperati, il premio da corrispondere agli informatori. Fino all’ultima modifica nel 2006, che ha portato alla creazione di un apposito ufficio per la ricezione delle segnalazioni all’interno dell’Internal Revenue Service, l’Agenzia delle entrate americana.

La procedura in vigore oggi è estremamente rigorosa: le “soffiate” vengono inoltrate all’Irs in forma anonima, da chiunque sia in possesso di informazioni o prove che documentino casi di corruzione, comportamenti illeciti o infedeltà fiscali. La segnalazione è analizzata da un pool di esperti, che può scartarla o decidere di avviare un’indagine: per essere rilevante, il danno deve essere comunque superiore ai 2 milioni di dollari. Il tutto nel completo anonimato, almeno fino alla “consegna” del premio, compreso fra il 15 e il 30 per cento del recupero incassato dal Governo, che viene deciso di volta in volta a seconda della quantità e qualità di informazioni fornite all’amministrazione. Emblematico il caso di Bradley Birkenfeld, banchiere americano che nel 2010 ricevette un compenso di 104 milioni di dollari dall’Irs per aver portato alla luce lo scandalo miliardario legato all’elvetica Ubs, la banca svizzera rea di aver aiutato migliaia di clienti americani a evadere il fisco. Il meccanismo premiale ha avuto un impatto significativo sulla procedura: grazie alle segnalazioni, tra il 2008 e il 2013 il Governo ha recuperato oltre 1,8 miliardi, pagando in premi circa 212 milioni di dollari.

Sempre in tema di whistleblower, vanno segnalate altre due leggi, che riguardano specificamente le denunce nel settore privato: la prima, “Sarbanes-Oxley Act”, fu approvata nel 2002 a seguito dei crack Enron e WorldCom; la seconda, “Dodd-Frank Act”, fu varata nel 2010 per scongiurare una nuova crisi finanziaria. Entrambe hanno apportato importanti innovazioni: da un lato introducendo sanzioni penali fino a 10 anni per i datori di lavoro che discriminano gli informatori, dall’altro obbligando le società quotate a dotarsi di procedure di trasparenza interne per la ricezione di segnalazioni. In più, dal luglio 2010 è attivo uno specifico ufficio presso la Security Exchange Commission, la Consob a stelle e strisce, che elargisce premi compresi tra il 10% e il 30% delle somme recuperate ai whistleblower che denunciano casi di corruzione o insider trading di rilevanza superiore al milione di dollari. In cinque anni, la Sec ha pagato in premi circa 50 milioni. L’ultimo assegno in ordine di tempo è stato staccato lo scorso 2 marzo a un informatore che aveva segnalato la frode di un’azienda: oltre mezzo milione di dollari.

Il ritardo europeo. In quanto a lentezza nella costruzione di un’organica normativa, l’Italia è in buona compagnia. Secondo i report di Trasparency International, ad oggi solo tre paesi dell’Ue, oltre al Regno Unito, si sono attrezzate per tutelare gli informatori, così come raccomandato dalle Convenzioni dell’Onu e del Consiglio d’Europa. Tra questi c’è il Lussemburgo, che però non ha un sistema di ricompense, la Romania e la Slovenia. Un ritardo che si somma a quello dell’Unione Europea che finora non ha predisposto alcuna direttiva in merito. Non dissimile la situazione italiana. Nell’ottobre 2013 i deputati 5 Stelle avevano presentato un disegno di legge in materia di “protezione degli autori di segnalazione”, che ricalcava quasi del tutto il modello americano: l’anonimato, l’istituzione di un ufficio ad hoc per la raccolta delle “soffiate” e persino il premio fino al 30% della somma recuperata. Peccato che a più di un anno di distanza la discussione del testo non sia ancora iniziata in commissione. Insomma, all’orizzonte non si intravedono progressi, né sembra essere colta l’importanza della sanzione sociale, ancorché pecuniaria, come forma di contrasto ai fenomeni corruttivi ed evasivi. Ancor meno pare considerato il contributo che i “lanciatori d’allerta” potrebbero offrire, e di cui Hervé Falciani è robusto e nitidissimo esempio.

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