L’Italia cresce meno della media dell’Area Euro, da molto tempo. Aiutare il Paese a tornare a crescere in modo significativo e duraturo è quindi l’obiettivo fondamentale della politica economica e fiscale del Governo. Anche obiettivi riferiti alla qualità sociale – ad esempio una drastica riduzione del numero di persone e famiglie che versano in una situazione di povertà assoluta – sono più difficilmente conseguibili in un contesto di recessione, stagnazione, bassa crescita e produttività calante. Dunque, anche il tema di cui voglio discutere ‘stamani con voi – equità ed efficienza del prelievo fiscale – va affrontato alla luce di questo obiettivo unificante: tornare a crescere. Avverto, per non ingenerare equivoci, – che in questo intervento mi riferirò alla “efficienza” del prelievo nel senso della sua efficienza economica – cioè dell’impatto positivo o negativo del prelievo fiscale sul livello di crescita dell’economia. Non nel senso della capacità del sistema di prelievo di far emergere base imponibile nascosta e di tassarla. Dunque, veniamo al tema. In primo luogo: a quanto ammonta il prelievo fiscale in Italia? Nel 2015 – conteggiando gli 80 Euro per quello che sono, cioè riduzione di prelievo sul reddito da lavoro – al 42,6% PIL.
È poco o è tanto? L’unico modo per rispondere seriamente è quello di ricorrere al confronto con gli altri Paesi. E questo confronto ci dice che è tanto, più 1,6% rispetto alla media Euro (contando correttamente gli 80 Euro). Un divario che si è ridotto, negli ultimi tre anni. Ridotto complessivamente dell’1% ma che resta molto grande Ma, soprattutto, un divario che è particolarmente penalizzante per la crescita. Cerchiamo di capire bene perché. Le basi imponibili – cioè la materia su cui esercitare il prelievo – sono tre:
1) I redditi da lavoro e d’impresa
2) I consumi
3) I patrimoni: mobili – immobili.
Ora, fermo l’ovvio – cioè che il prelievo fiscale ha comunque un qualche effetto distorsivo, sull’andamento dell’economia, rispetto a ciò che accadrebbe se il prelievo non ci fosse – gli economisti sono sostanzialmente unanimi nello stilare l’ordine in cui collocare le imposte, in una graduatoria relativa al grado di ostacolo per la crescita:
1°- imposte sul reddito d’impresa e sul reddito da lavoro
2° imposte sui consumi
3° imposte sui patrimoni.
La graduatoria – sotto il profilo della efficienza economica – è certamente questa. Non altrettanto si può dire per la graduatoria in termini di equità: in questo caso, molti collocano al 1° posto – per iniquità indotta dal prelievo, l’imposta sui consumi. Ora, come stanno le cose in Italia? La risposta la trovate nel Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica della Corte dei Conti (2015): l’Italia è, nel confronto europeo_
Al 1° posto per il prelievo sui redditi da lavoro (quasi 7 punti oltre la media UE);
Al 2° posto per il prelievo sui redditi di impresa (10 punti oltre la media);
Al 22° posto per il prelievo sui consumi (-2,1 rispetto media UE)
Al 4° posto per il prelievo su immobili (di recente – prima del governo Monti era al 19° posto).
Dal confronto emerge una fortissima penalizzazione dei fattori produttivi: un prelievo fiscale così forte su lavoro e impresa deprime le potenzialità produttive e competitive del Paese. Non solo: un prelievo fiscale così sperequato a danno dei produttori determina effetti sociali che penalizzano le componenti più deboli della società. Un esempio: nella sua relazione finale 2016 il Governatore di Banca d’Italia ha recentemente messo in rilievo che – secondo gli studi più recenti – una riduzione significativa del cuneo fiscale che grava sul lavoro femminile a più bassa remunerazione avrebbe un effetto di riduzione delle famiglie in situazione di povertà assoluta anche più forte – a parità di risorse impiegate – di un aumento di assegni e detrazioni per carico familiare. Una conclusione – quest’ultima che mi conferma nell’idea che siano necessarie misure di riduzione della pressione fiscale diretta sul lavoro delle donne, anche per affrontare il nodo di un tasso di occupazione delle donne tra i 25 e i 54 anni inferiore, in Italia, di ben 14 punti rispetto alla media UE. Un buon esempio di come soluzioni di riduzione del prelievo fiscale sul lavoro e sull’impresa siano – se ben mirate – in grado di affrontare sia problemi di efficienza economica del prelievo, sia i problemi di equità del prelievo stesso.
Ma torniamo al nodo centrale: se le cose stanno come abbiamo visto – sia in termini di dimensione assoluta del prelievo, sia in termini di squilibrio rispetto alle diverse basi imponibili – allora un governo che voglia crescita economica e qualità sociale deve proporsi di:
a) Ridurre di qualche punto, nel medio periodo, la pressione fiscale totale;
b) Ridurre da subito – in modo crescente nel tempo – la pressione fiscale sul lavoro e sull’impresa;
c) Far salire il gettito da imposte sui consumi;
d) Confermare il volume del gettito, ma migliorare l’equità del prelievo delle imposte sul patrimonio.
Ecco perché abbiamo fatte le scelte:
– degli 80 euro;
– dell’eliminazione di costo del lavoro stabile da base imponibile IRPEF;
– della riduzione, dal 2017, di aliquota prelievo sul reddito d’impresa;
– del dimezzamento (ma non è misura strutturale) per tre anni del cuneo contributivo sui lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato 2015;
– della riduzione e semplificazione prelievo sui “nuovi” lavoratori autonomi.
Dove vogliamo – e dobbiamo – arrivare?
Al 2018 la pressione fiscale su lavoro e sull’impresa in Italia dovrà essere uguale a quella della Germania.
Perché proprio la Germania? Perché loro prima manifattura d’Europa. Noi, la seconda.
Quanto ci vuole? A quanto gettito da prelievo su lavoro e impresa dobbiamo rinunciare? Circa 37 mld di Euro l’anno. Pochi? Tanti? Tanti, ma non troppi. Le misure strutturali già adottate “costano” circa 17 mld, complessivamente. Se in due anni, nelle condizioni di finanza pubblica, abbiamo compiuto metà della strada necessaria, perché pensare che nei prossimi due anni sia impossibile completarla? Dove concentrare intervento, di qui al 2018? Nella riduzione del cuneo fiscale e contributivo. Potessi scegliere io: fiscalizzazione oneri contributivi, 50 e 50 tra lavoro e impresa, per 4-5 punti complessivi. Infine, dobbiamo riuscire ad accrescere il gettito da imposte sui consumi – (anche perché da qui, oltre che dalla crescita economica e dalla revisione della spesa pubblica, devono venire le risorse necessarie per finanziare l’abbattimento del prelievo sul lavoro). Come mai quel 22° posto? Non è per le dimensioni dell’aliquota ordinaria: essa è nella media. La risposta, non può che trovarsi nell’evasione fiscale: evasione IVA è la madre di tutte le evasioni. Che fare? Più che fare la faccia feroce coi vacanzieri di Cortina, conviene puntare risolutamente sulle enormi potenzialità delle tecnologie. Oggi, è attiva piattaforma tecnologica dove arrivano tutte le fatture dei privati verso la Pubblica Amministrazione. Funziona. Vuol dire che si può. Bisogna far sì che tutti i privati siano spinti – da un ben organizzato sistema di incentivi e disincentivi, a mettere su di un’unica piattaforma tutte le loro fatture, in ingresso e in uscita. Esempi recenti – il Portogallo, ma anche Australia e Nuova Zelanda – dimostrano che si possono ottenere risultati impressionanti, che semplificano la vita ai contribuenti leali, e la complicano un po’, utilmente, per i soliti furbi.
Premio Lef: sintesi dell’intervento del viceministro all’Economia Enrico Morando
Dello stesso autore
Altro in Premio Lef