Il racconto mostra il meccanismo escogitato da alcuni contribuenti che aggiungendo o togliendo tre zeri alle fatture tentano di aggirare il fisco
L’antefatto. Nei primi anni ottanta giungevano in ufficio molte segnalazioni di possibili irregolarità fiscale a seguito di indagini svolte nei confronti di altri contribuenti. Tra le altre ne era arrivata una che segnalava l’emissione di una fattura di duecento milioni di lire, oltre a Iva, da parte del signor C, uno sconosciuto operatore economico residente in città. La fattura riguardava un’attività di mediazione svolta per la realizzazione di un grande centro commerciale in un’altra regione. Dai riscontri che erano stati già effettuati, la fattura emessa dal signor C (che dichiarava un volume d’affari ed un reddito modestissimi) era stata annotata nel registro IVA con l’importo di duecentomila lire, importo che naturalmente era quello riportato nell’originale della fattura in possesso dello stesso signor C che l’aveva emessa. In pratica esistevano due versioni della stessa fattura: una con l’importo di 200 milioni, contabilizzata dalla società che aveva utilizzato la “prestazione”, e una con l’importo di duecentomila lire, contabilizzata dall’emittente.
L’escamotage, apparentemente ingenuo, non era poi tanto ingenuo se si considerano due circostanze: da un lato il fatto che effettivamente in quegli anni i controlli fatti sugli elenchi clienti e fornitori avevano spesso messo in luce l’errata indicazione degli importi (riportati qualche volta in lire e altre volte in migliaia di lire); dall’altro, ma questa era una circostanza che allora non conoscevamo, il fatto che il consulente che assisteva fiscalmente il nostro contribuente era un ex appartenente all’amministrazione finanziaria. Così, nella malaugurata ipotesi in cui i controlli incrociati avessero funzionato, l’ex collega avrebbe potuto tentare di giustificare la cosa come un banale errore di compilazione dell’elenco da parte della società cliente… Evidentemente, nel caso del nostro signor C le cose non erano poi andate nel modo sperato.
L’indagine. Partendo dalla segnalazione concernente il signor C, che con ogni probabilità si sarebbe tradotta in un accertamento infruttuoso essendo egli sostanzialmente nullatenente (classico caso di insolvenza preordinata attuata da chi pone in essere operazioni fraudolente), decidemmo di allargare l’indagine, effettuando una verifica nei confronti del consulente fiscale che lo assisteva. Qualcosa ci faceva pensare che forse non era del tutto estraneo alla frode architettata dal cliente. Dopo averlo individuato (attraverso le informazioni sul deposito delle scritture contabili e i dati risultanti dalla dichiarazione del sostituto d’imposta modello 770) e fatti alcuni riscontri preliminari ottenemmo le autorizzazioni di legge (allora per accedere in uno studio professionale era necessario anche l’assenso del procuratore della Repubblica) e iniziammo la verifica fiscale nei confronti del dott. B, che nel frattempo scoprimmo essere stato in passato un esponente di grado piuttosto elevato dell’amministrazione finanziaria. Il nostro obiettivo era chiaro: individuare eventuali operazioni compiute dal dott. B che presentassero caratteristiche simili a quella posta in essere dal signor C. L’esame delle fatture emesse e annotate nel registro professionale fu molto facile e insieme a un certo numero di fatture per attività professionali e di consulenza ne individuammo subito una che aveva caratteristiche sospette: il nostro dott. B, per sole trecentocinquanta mila lire più Iva si era recato a centinaia di chilometri di distanza per effettuare prestazioni professionali di incerta natura nei confronti di una grande impresa di costruzioni italiana.
Acquisita formalmente copia dei documenti contabili, subito dopo facemmo partire una richiesta di collaborazione per l’ufficio competente al controllo sulla società di costruzioni. Dopo qualche settimana arrivò la conferma dei nostri sospetti: anche la fattura emessa dal dott. B nei confronti della grande impresa di costruzioni e contabilizzata da quest’ultima riportava un importo di trecentocinquanta milioni oltre a Iva. La tecnica era stata la stessa di quella utilizzata da parte del cliente signor C. Questa banale storia di evasione fiscale può dare un’idea di quanti casi di fatture per operazioni inesistenti si verifichino nella realtà, contando sull’assenza e sulla difficoltà dei controlli. Ancora oggi il fenomeno inesistenti è ancora gravissimo e credo di essere nel giusto dicendo che quanto viene scoperto è soltanto una piccola parte di quanto accade nella realtà. La soluzione del problema sarebbe a portata di mano se solo si volessero utilizzare le possibilità che oggi offrono la tecnologia e la telematica per incrociare i dati di clienti e fornitori. Ma questa, come direbbe un noto autore del genere noir, è purtroppo un’altra storia.