Rassegna ragionata delle più recenti
sentenze della Corte di Cassazione
in materia penal-tributaria
(gennaio 2015-settembre 2016)
Di Fabio Di Vizio
Sommario: Premessa.
1. Questioni di diritto sostanziale. – 1.1. Le soglie di punibilità nei reati tributari: – natura delle soglie [p.5]; Il rapporto con il dolo [p.9]; l’incidenza dell’innalzamento sul trattamento sanzionatorio [p.9].- 1.2. I reati della legislazione speciale [p.10]. – 1.2.1.Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti ed omessa dichiarazione[p.10]: – significato della soppressione della parola “annuali” [p.10]; natura della fattispecie di cui all’art. 2, comma 3, d.lgs. n. 74 del 2000 [p.10]; inesistenza soggettiva delle operazioni ai fini IVA [p.11]; dolo specifico e finalità extra-evasive [p.13]; rapporto tra i delitti ex artt. 2 e 5 del d.lgs. n. 74/2000 [p.13]; – non configurabilità del tentativo [p.14]. – 1.2.2. Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici e dichiarazione infedele [p.15]: -inconfigurabilità del reato di dichiarazione infedele, in presenza di condotte puramente elusive ai fini fiscali [p.15]; – applicazione residuale dell’istituto dell’abuso del diritto ex art. 10-bis l. 27 luglio 2000, n. 212 [p.18]. – 1.2.3. Occultamento o distruzione di documenti contabili: – inconfigurabilità in caso di mancata istituzione della documentazione contabile [p.19]; – rilevanza della indisponibilità temporanea della documentazione da parte degli organi verificatori ed irrilevanza della ricostruzione delle operazioni aliunde [p.19]; – integrazione del delitto per le fatture passive e attive della società cartiera [p.21]. – 1.2.4. Omesso versamento di ritenute certificate e dell’IVA [ p.21]: – novità della riforma del 2015 [p.21]; – fatti consumati prima del 22.10.2015: la presentazione del modello 770 non prova ex se il rilascio ai sostituiti delle certificazioni attestanti le ritenute effettivamente operate [p.22]; – spazi di rilevanza della crisi di liquidità rispetto all’esclusione dell’elemento soggettivo [ p.23]. – 1.2.5. Indebita compensazione [ p.27]: – novità delle riforma del 2015 [p.27]; – mancato versamento rileva solo se in virtù della compensazione ex art. 17 del d.lgs. n. 241 del 1997 [p.27]; – credito tributario inesistente o non spettante: il caso dei crediti posti in compensazione oltre i limiti previsti dall’art. 34, comma primo, della legge del 23 dicembre 2000 n. 388 [p.27]. – 1.2.6. Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte [ p.29]: – fondo patrimoniale e coobbligati per debito IRES maturato da società di capitali a ristretta base azionaria [ p.29]; – vendita di beni immobili a soci non identificabili e momento consumativo del reato di pericolo [ p.30]; – rapporto tra l’annullamento in sede tributaria degli atti di accertamento del debito tributario ed il fumus del reato ex art. 11 d.lgs. n. 74/2000 [ p.31]; – dolo specifico [ p.33].- 1.3. Posizioni soggettive nei reati tributari [p.34]. – 1.3.1. Il liquidatore “illiquido”: casistica [ p.34]. – 1.3.2. L’amministratore di fatto e il prestanome [ p.37]. – 1.3.3. Il socio amministratore di s.n.c., il consulente fiscale e il contribuente che si affida al professionista [ p.40]: – socio amministratore di s.n.c. non sottoscrittore della dichiarazione [ p.40]; consulente fiscalista e concorso nel reato di cui all’art. 5, d.lgs. n. 74/2000 da esterovestizione [ p.40]; contribuente che si affida al professionista [ p.41]. – 1.4. Le vicende del reato e della pena [ p.42]. – 1.4.1. Circostanza attenuante del pagamento del debito tributario (ante riforma del 2015): adesione all’accertamento ed integrale estinzione dell’obbligazione tributaria [ p.42]. – 1.4.2. La prescrizione delle grandi frodi IVA: lo stato dell’arte [p.43]. – 1.4.3. La causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p. ed i reati tributari [p.47 ]. – 1.4.4. Limiti dell’efficacia estintiva dello “scudo fiscale” [ p.49].
2. Questioni di diritto processuale [p.51]. – 2.1. Le prove [p.51]. – 2.1.1. Regole probatorie [51]: – significato penale delle presunzioni tributarie: differenze tra giudizio di merito e valutazione cautelare [p.51]; l’accertamento induttivo, dati bancari e specifica valutazione autonoma da parte del giudice [p.53]; – significato penale della regola dell’art. 14, comma 4- bis, L. n. 537 del 1993: casi di indeducibilità (penale) dei costi per operazioni soggettivamente inesistenti [p.55]. – 2.1.2. Il regime di utilizzabilità del processo verbale di constatazione: atto irripetibile e/o documento e la regola fissata dall’art. 220 disp. att. C.p.p. [p.59]. – 2.1.3. Effetti sul processo penale della nullità avviso di accertamento sottoscritto da funzionario carente di potere [p.62]. – 2.1.4. Le perquisizioni locali in materia tributaria e il ruolo del personale dell’Agenzia delle Entrate [p.63]. – 2.2. Questioni processuali poste dall’innalzamento delle soglie di punibilità [p.64]: -formula assolutoria [p.64]; – efficacia extra-penale della sentenza penale di assoluzione [p.65]; – annullamento di ufficio ex art. 609 c.p.p. [p.66]. -2.3. I sequestri e le confische [p.66]. – 2.3.1. Il profitto dei reati tributari [p.66]: – in genere [p.66]; – profitto in denaro [p.66]; – profitto dei reati tributari ex artt. 2, 5, 8 ed 11 d.lgs. n 74/2000 [p.68]; – beni vincolabili e non vincolabili [p.70]: gravati da ipoteche o altre garanzie [p.70], pegno regolare ed irregolare [p.71], beni della massa fallimentare [p.71]. – 2.3.2. Altri temi comuni [p.73]: – confisca obbligatoria del profitto dei reati tributari in assenza di sequestro [p.73]; – riparto di competenze tra il giudice della cognizione ed il Pm nell’indicazione dell’importo da sequestrare e nell’individuazione dei beni [p.73]; – accordo tra contribuente ed Amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito: pagamento dei ratei, procedura coattiva di pignoramento presso terzi ex art. 72-bis del d.P.R. n. 602 del 1973 e riduzione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente [p.74]; ammissibilità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca dopo l’introduzione dell’art. 12-bis, comma 2, d.lgs. n. 74/2000 [p.75]. – 2.3.3. Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta [p.75]: – illiquidità conclamata della persona giuridica ed inutilità della preventiva ricerca del profitto diretto [p.75]; – onere dell’indagato di allegazione dei beni costituenti profitto diretto [p.77]; – l’estinzione del reato per prescrizione e inammissibilità della confisca diretta [p.78]. – 2.3.4. Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente [p.79]: – inammissibilità sui beni futuri [p.80]; – oneri di verifica ed allegazione del Pubblico Ministero e di motivazione del GIP circa l’impossibilità del reperimento e del sequestro in forma specifica dei profitti illeciti [p.80]; – tipologie di relazioni soggettive rispetto ai beni vincolabili [p.81]: nozione di disponibilità [p.81]; beni formalmente intestati a persona estranea al reato [p.82]; trust e fondi patrimoniali familiari [p.83]; società schermo fittizio [p.85]; – l’estensione del sequestro all’intero ammontare del profitto nei confronti di ciascun concorrente [p.86]; – la confisca di valore ed il principio solidaristico nel caso di pluralità di illeciti plurisoggettivi [p.86]; criteri per la stima dei beni sequestrati in funzione della confisca per equivalente [p.87]; – l’impossibilità della confisca per equivalente in caso di estinzione del reato per prescrizione [ p.89].
Redattore: FABIO DI VIZIO, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunal e di Pistoia
Firenze, 3 settembre 2016
Premessa.
La scelta di concentrare l’attenzione di questa rassegna sulle recenti pronunce della Corte di Cassazione in materia di reati tributari origina dalla constatazione che durante il biennio 2015-2016, nel settore di interesse, si sono verificati accadimenti di straordinaria importanza.
Uno di essi è rappresentato dallo svolgersi dell’intervento riformatore, operato con il varo dell’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 («Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale») e del decreto legislativo 24 settembre 2015 n. 158 sulla «revisione del sistema sanzionatorio», momento più significativo del processo di attuazione della delega fiscale (Legge 11 marzo 2014 n. 23) . Una revisione diretta a mitigare e ridurre l’interesse penale per fatti stimati privi di fraudolenza, ma anche ad inasprirlo per quelli provvisti di attitudine decettiva più intensa e definita. Da un lato, infatti, l’infedeltà dichiarativa della fattispecie prevista dall’articolo 4 del d.lgs. n. 74/2000 è venuta smagrendosi, restando concentrata su profili esclusivamente oggettivi e materiali, nel quadro di un generale innalzamento delle soglie di irrilevanza penale degli imponibili e delle imposte evase per i reati a minor tasso di frode (artt. 4, 5, 10-bis, 10-ter del d.lgs. n. 74/2000) e dell’introduzione per essi di un peculiare regime di non punibilità connesso al pagamento tempestivo o spontaneo del debito erariale. Dall’altro, risultano ampliati i confini oggettivi delle fattispecie dichiarative storicamente caratterizzate da maggior fraudolenza (articoli 2 e 3 del d.lgs. n. 74/2000), essendo stata resa più severa la risposta sanzionatoria altresì per le compensazioni indebite provviste di maggiore insidiosità (art. 10-quater del d.lgs. n. 74/2000), l’occultamento o la distruzione dei documenti contabili (art. 10 del d.lgs. n. 74/2000), accompagnata dall’introduzione della innovativa circostanza ad effetto speciale, connessa al contributo del consulente fiscale che elabori o commercializzi modelli di evasione .
Non meno significativo, inoltre, è risultato, né poteva esser diversamente, lo sforzo interpretativo della Corte di Cassazione, impegnata sia nella valutazione dell’impatto delle innovazioni poste dalla revisione normativa intervenuta (cfr. in particolare, par. 1.1., 1.2.2.,1.2.4, 2.2.) – esse stesse in parte non trascurabile reattive rispetto ad approdi giurisprudenziali più o meno solidi e graditi – sia nello schiarimento di principi ed indicazioni già espresse ma di non sempre agevole applicazione in una materia in cui il contenzioso cautelare reale sta assumendo centralità sempre più estesa, non fosse altro che per la difficoltà di trovare una soluzione generalmente condivisa rispetto ai nodi fondamentali dello statuto della prescrizione (cfr. par. 1.4.2.); essa stessa premessa di qualsiasi duratura riforma nella materia.
Nell’esposizione, dunque, si è preferito illustrare in termini strettamente ricognitivi gli approdi più recenti della Corte cui l’ordinamento affida la funzione nomofilattica, avendo riguardo, essenzialmente, a quelli emersi poco prima del profilarsi della revisione normativa e sino ai giorni di redazione della rassegna, senza mancare di ripercorrere il più ampio iter argomentativo nella conferma degli orientamenti già affiorati o nell’indicazione di nuovi principi di diritto. In ciò nutrendo l’aspirazione ad offrire un contributo “ragionato”, per quanto puntiforme, senza pretesa di esaustività ma con la speranza di facilitare un’utile consultazione dello stato della riflessione sulle tematiche più complesse e vive dell’esperienza giudiziaria.
Nella consapevolezza che la riflessione giurisprudenziale non mancherà di continuare ad offrire un apporto centrale nell’individuazione delle regole eque e certe e che è anche dall’affinarsi della prima che potrà provenire più intenso conforto all’esigenza di effectiveness of the regulatory system. Del resto, con le parole del celebre Autore, «il processo serve al diritto come il diritto serve al processo».
1. Questioni di diritto sostanziale.
1.1. Le soglie di punibilità nei reati tributari: – natura delle soglie; il rapporto con il dolo; l’incidenza dell’innalzamento sul trattamento sanzionatorio.
La natura delle soglie.
A seguito della sentenza n. 80 del 2014 della Corte Costituzionale e dell’entrata in vigore del d.lgs. 24 settembre 2015, n.158 , si è ripresentata, con rinnovata vitalità, la tematica della natura delle soglie di punibilità nel contesto della struttura dei reati tributari. In particolare, si è riproposta l’alternativa qualificatoria tra elemento costitutivo e condizione obiettiva di punibilità del reato. Rilevanti sono le conseguenze dell’opzione prescelta, anzitutto, per la diversa portata del dolo e per l’incidenza sul trattamento sanzionatorio.
Nelle pronunce riferite al periodo di interesse di questa rassegna, la Corte regolatrice si è schierata, in termini unanimi, a favore della qualificazione delle soglie di punibilità “quantitative” nei termini di elementi costitutivi dei reati tributari che le prevedono (in tal senso, tra le altre, cfr. Cass. Pen., Sez. 3, n. 3098 del 05/11/2015 Ud., dep. 25/01/2016, Rv. 265938, est. Di Nicola, per il reato ex art. 10-bis d.lgs. n. 74/2000; Cass. Pen., Sez. 3, Sentenza n. 9936 del 19/01/2016 Ud., dep. 10/03/2016, Rv. 266631, est. Scarcella, per il reato ex art. 10-ter d.lgs. n. 74/2000; Cass. Pen., Sez. 3, Sentenza n. 891 del 11/11/2015 Ud., dep. 13/01/2016, est. Mengoni).
Non è stato sottaciuto, per vero, il diverso orientamento in passato seguito da parte della giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 6, n. 6705 del 16/12/2014, dep.2015, Libertone, Rv. 262394). Secondo quest’ultimo indirizzo, nel prevedere una soglia di punibilità, il legislatore avrebbe inteso riservare la sanzione penale alle ipotesi di evasione più gravi, proprio perché superiori ad un determinato ammontare: tale valore non rappresenterebbe un elemento costitutivo del reato, ma una condizione obbiettiva di punibilità, in mancanza della quale (ossia al di sotto della predetta soglia) l’interesse dell’amministrazione finanziaria è presidiato dalle conseguenze civilistiche della violazione dell’obbligo posto a carico del contribuente (interessi di mora e sanzioni). Come ricorda, ancora, la sentenza n. 3098/2016, cit., «in precedenza è stato sostenuto che il superamento della soglia, rappresentata dall’ammontare dell’imposta evasa, costituisce una condizione oggettiva di punibilità, come tale sottratta alla rappresentazione del fatto da parte del soggetto agente (Sez. 3, n. 25213 del 26/05/2011, Calcagni, Rv. 250656), sul rilievo che, quando la punibilità del fatto è subordinata alla condizione che da esso sia derivata un’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto per un determinato ammontare, tale accadimento costituisce una vera e propria condizione oggettiva di punibilità, perché non fa parte del contenuto offensivo della fattispecie e non integra un elemento costitutivo dell’offesa, bensì attiene a un limite quantitativo dell’evento e non all’evento dell’omesso versamento, che è necessariamente riconducibile al dolo specifico, posto che trattasi di uno di quegli accadimenti che, secondo la dottrina, arricchiscono la sfera dell’offesa del reato, perché, pur attenendo alla sfera dell’offesa del bene protetto, tuttavia non accentrano in sé tutta l’offensività del fatto, in quanto comportano solo un ulteriore aggravamento, una progressione dell’offesa tipica: non si richiede, pertanto, nel soggetto agente la rappresentazione dell’ammontare del contributo evaso, ma la sola finalizzazione della condotta all’evasione ed il reato si perfeziona nel momento in cui la condizione si verifica, pure se essa non è voluta dall’agente medesimo» .
La Cassazione ha ritenuto di dare continuità al diverso orientamento che individua nella soglia di punibilità un elemento costitutivo del reato, pervenendo, ad esempio, alla conclusione che la sua mancata integrazione nel delitto di cui all’art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000 comporta l’assoluzione con la formula “il fatto non sussiste” (Sez. 3, n. 36859 del 26/06/2014, Bottaro, Rv. 260187), esigendo altresì la prova che il soggetto attivo del reato abbia consapevolezza che il tributo evaso supera la soglia di punibilità individuata dalla disposizione incriminatrice (Sez. 3, n. 12248 del 22/01/2014, Faotto, Rv. 259806). Si richiama, in proposito, quanto già ritenuto in relazione al delitto ex art. 316-ter c.p. ed al superamento della soglia quantitativa oltre la quale l’illecito amministrativo integra il reato, considerato elemento costitutivo della fattispecie e, come tale, necessariamente oggetto di rappresentazione e volontà (Sez. 6, n. 38292 del 14/07/2015, Trevisan, Rv. 264609) . Anche le Sezioni Unite avevano affermato, invero, che, «per la commissione del reato ex art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000, è sufficiente la coscienza e volontà di non versare all’Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato e tale coscienza e volontà deve investire anche la soglia di punibilità, che è un elemento costitutivo del fatto, contribuendo a definirne il disvalore (Sez. U, n. 37424 del 28/03/2013, Romano, non mass. sul punto, in motiv. § 6) (così Cass. Pen., n. 3089/2016, cit., in motivazione)» .
Si tratta di opzione interpretativa che la Cassazione, dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n.158/2015, ha ribadito senza incertezze per le fattispecie tributarie con soglie di punibilità, completando queste ultime la realizzazione della condotta punibile e dunque partecipando pienamente all’integrazione giuridica della fattispecie penale. Fondamentali sono risultati i seguenti argomenti: (i) le soglie non hanno la struttura delle condizioni di punibilità, neppure c.d. intrinseche, le quali presuppongono un reato già strutturalmente perfetto nei profili oggettivi e soggettivi cosicché il verificarsi di un evento futuro ed incerto ne condiziona esclusivamente la punibilità, quale elemento esterno alla struttura del reato; l’integrazione delle soglie non dipende da un evento futuro ed incerto (ossia da una condicio) ma dallo stesso comportamento dell’agente che, nella presentazione della dichiarazione annuale ai fini dell’Iva, sottrae all’imposizione, con il mancato versamento e, dunque, con una condotta omissiva, una quantità di tributo che, raggiunta la soglia, contribuisce alla realizzazione del fatto tipico; è piuttosto l’attività di accertamento dell’obbligazione tributaria, di natura legale , ivi compresa quella attinente il superamento o meno della soglia quantitativa che il legislatore indica per l’integrazione di un fatto penalmente rilevante a costituire un posterius rispetto alla consumazione dell’illecito ed a svolgere lo stesso ruolo che in altre fattispecie è assolto dalle tecniche di accertamento processuale per provare che è stato realizzato un elemento del fatto tipico che costituisce il reato; (ii) le soglie consistono in eventi che rendono attuale l’offesa all’interesse protetto dalla norma violata o che costituiscono una progressione o un aggravamento di tale offesa e dunque concorrono a delineare il disvalore penale del fatto; in definitiva, la soglia di punibilità si traduce nella fissazione di una quota di rilevanza quantitativa e/o qualitativa del fatto tipico (ciò avviene, a titolo esemplificativo, nell’usura, ove il requisito della usurarietà del tasso di interesse risulta da una complessa operazione di determinazione di esso; avviene poi nei casi in cui si ricorre alla fissazione di limiti tabellari che servono a qualificare la tossicità degli alimenti, o il tasso alcoolemico del conducente di veicoli), con la conseguenza che, alla mancata integrazione della soglia, corrisponde la convinzione del legislatore circa l’assenza nella condotta incriminata di una “sensibilità” penalistica del fatto, sicché il comportamento sotto soglia è ritenuto non lesivo del bene giuridico tutelato, consistente, nel caso in esame, nella salvaguardia degli interessi patrimoniali dello Stato connessi alla percezione dei tributi; (iii) l’inquadramento sostenuto è rispettoso del principio di offensività, essendo affidato alla soglia di punibilità – come confermato dalla Relazione di accompagnamento al decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 – anche il compito, conformemente alla previsione dell’articolo 9, comma 1, lettera b), della legge delega, di «limitare l’intervento punitivo ai soli illeciti di significativo rilievo economico», consentendo di riflesso un conseguente alleggerimento del carico penale; «nella stessa relazione è poi significativamente affermato che le soglie di punibilità sono “da considerarsi alla stregua di altrettanti elementi costitutivi del reato e che in quanto tali debbono essere investiti dal dolo”»; (iv) la Corte Costituzionale (sentenza n. 241 del 2004), ha assegnato alle soglie di punibilità (nel caso dello scrutinio di costituzionalità si trattava delle soglie contemplate dalla previgente formulazione dell’art. 2621 cod. civ.) il ruolo di “requisiti essenziali di tipicità del fatto”.
Il rapporto con il dolo. All’opzione qualificatoria illustrata consegue la vincolata estensione dell’indagine probatoria sulla sussistenza, nell’autore, della rappresentazione e volontà degli importi che concretano le soglie, necessariamente coperte dal dolo. Nel caso del delitto ex art. 10-ter d.lgs. n. 74/2000 , l’elemento soggettivo è il dolo generico (Sez. U, n. 37424 del 28/03/2013, Romano, cit., in motiv. § 6) e la coscienza e volontà deve investire anche la soglia di punibilità, elemento costitutivo del fatto di reato, contribuendo a definirne il disvalore. La Corte ha anche sottolineato, in proposito, che «la prova del dolo è insita in genere nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia, ora, di Euro duecentocinquantamila, entro il termine lungo previsto. Infatti, il debito verso il fisco relativo ai versamenti Iva è collegato al compimento delle operazioni imponibili sicché ogni qualvolta il soggetto d’imposta effettua tali operazioni riscuote già (dall’acquirente del bene o del servizio) l’Iva dovuta e deve, quindi, tenerla accantonata per l’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter, alla scadenza, adempiere all’obbligazione tributaria (Sez. U, n. 37424 del 28/03/2013, Romano, cit., in motiv.)». Analogamente, in materia omesso versamento di ritenute certificate ex art. 10-bis d.lgs. n. 74 del 2000 la Corte (Sez. U, n. 37425 del 28/03/2013 Ud., dep. 12/09/2013, Rv. 255759) ha evidenziato che per la commissione del reato basta la coscienza e volontà di non versare all’Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato, dolo che deve investire anche la soglia, quale elemento costitutivo del fatto, contribuendo a definirne il disvalore. Anche per tale reato la prova del dolo è «insita in genere nella duplice circostanza del rilascio della certificazione al sostituito e della presentazione della dichiarazione annuale del sostituto (Mod. 770), che riporta le trattenute effettuate, la loro data ed ammontare, nonché i versamenti relativi».
L’incidenza dell’innalzamento sul trattamento sanzionatorio. Rinviando al paragrafo 2.2 per le questioni di ordine più strettamente processuale collegate all’innalzamento dell’importo delle soglie di alcune fattispecie tributarie (formula assolutoria da utilizzare in ipotesi di mancata integrazione della soglia di punibilità, effetti della sentenza penale irrevocabile di assoluzione ex art. 652 c.p., annullamento di ufficio ex art. 609, comma 2, c.p.p. in caso di ricorso inammissibile), in punto di trattamento sanzionatorio, l’elevazione degli importi delle soglie ha persuaso la Corte di Cassazione (Sez. 3, Sentenza n. 9936 del 19/01/2016 Ud., dep. 10/03/2016, Rv. 266631, est. A. Scarcella) ad accogliere l’impugnazione nei confronti di una pronuncia della Corte di appello territoriale che aveva determinato la pena base in misura superiore al minimo edittale in quel momento vigente “in considerazione dell’importo il cui versamento è stato omesso”. La Corte regolatrice, nell’occasione, tenuto conto dell’ammontare dell’IVA non versata rispetto all’innalzato limite quantitativo, ha osservato che «effettivamente, alla stregua della novella del 2015 con cui è stata elevata la soglia di punibilità per il reato di omesso versamento IVA ad € 250.000,00, rispetto alla soglia che, in relazione al periodo di imposta in contestazione, attribuiva rilevanza penale al fatto (pari ad € 103.291,18, in relazione alla declaratoria di incostituzionalità operata dalla sentenza n. 80 del 2014), il disvalore complessivo del fatto debba essere rivalutato, posto che la soglia svolge la propria funzione sul piano della selezione categoriale, incidendo quindi la sua elevazione, ai fini della rilevanza penale del fatto, sul complessivo ed oggettivo disvalore penale del fatto medesimo, donde ciò giustifica la necessità di una rivalutazione della congruità complessiva del trattamento sanzionatorio alla luce del predetto ius superveniens».
1.2. I reati della legislazione speciale.
1.2.1.Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti ed omessa dichiarazione: – significato della soppressione della parola “annuali”; natura della fattispecie di cui all’art. 2, comma 3, d.lgs. n. 74 del 2000; inesistenza soggettiva delle operazioni ai fini IVA; dolo specifico e finalità extra-evasive; rapporto tra i delitti ex artt. 2 e 5 del d.lgs. n. 74/2000; – non configurabilità del tentativo.
Significato della soppressione della parola “annuali”. Con riferimento al delitto ex art. 2 del d.lgs. n. 74/2000, la Corte di Cassazione (Cass. Pen., 3, n. 18692 del 22.3.2016, dep. 5.5.2016, est. Scarcella), in punto di significato della soppressione della parola “annuali” riferita alle dichiarazioni “correlate” all’utilizzo della documentazione fraudolenta, operata dal d.lgs. n. 158 del 2015, ha riconosciuto ampliato il novero delle dichiarazioni rilevanti ai fini della configurabilità del reato. A tal fine, ha segnalato di considerare discriminante la natura propriamente “dichiarativa” ovvero meramente “comunicativa”, ricadendo in area penale «solo quelle dichiarazioni, anche non annuali, che comportano direttamente la determinazione di un’imposta da versare (come, ad esempio, i modelli “INTRA 12”)».
Natura della fattispecie di cui all’art. 2, comma 3, d.lgs. n. 74 del 2000 .
Difronte alla relativa questione interpretativa (attuale per i fatti commessi sino al 13.9.2011 posta la ultrattività della norma, successivamente abrogata dal d.l. 138/2011, convertito dalla legge 14 settembre 2011 n. 148), la Corte di Cassazione (Cass. Pen., Sez. 3, n. 5720 del 07/01/2016 Cc. , dep. 11/02/2016, Rv. 265948, est. Riccardi) ha optato per la natura di circostanza attenuante del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti di cui al comma primo dello stesso articolo e non di fattispecie autonoma di reato . In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto abnorme l’ordinanza del G.u.p. di restituzione degli atti al P.M. perché provvedesse alla citazione diretta a giudizio dovendo invece celebrarsi l’udienza preliminare . Ad avviso della Cassazione, depongono nel senso sostenuto tanto il prioritario criterio strutturale che i criteri ermeneutici ausiliari, ossia quello “topografico” e teleologico. Secondo la Corte regolatrice, infatti, la formulazione legislativa della norma testimonia la natura circostanziale della fattispecie, la cui descrizione rinvia per relationem al reato di cui al comma 1 del medesimo articolo, prevedendo un trattamento sanzionatorio inferiore in ragione della minore gravità del fatto. Invero, in assenza di espresse indicazioni legislative, il canone principale di individuazione della natura circostanziale è rappresentato dal criterio di specialità (art. 15 c.p.): gli elementi circostanziali si pongono in un rapporto di species a genus rispetto ai corrispondenti elementi della fattispecie semplice del reato, in modo da costituirne una specificazione. In tal senso, pur in un variegato dibattito dottrinale, si sono ripetutamente espresse le Sezioni Unite, che hanno valorizzato il criterio strutturale come unico (o principale) canone interpretativo per la distinzione tra elementi essenziali e circostanziali della fattispecie . Nell’ipotesi prevista dall’art. 2, comma 3, d.lgs. 74 del 2000 «la descrizione della condotta è operata per relationem alla fattispecie di cui al comma 1, non vi è alcuna immutazione degli elementi essenziali della condotta illecita ivi descritta, in quanto il riferimento è pur sempre a quel fatto-reato, che viene soltanto integrato dal diverso ammontare degli elementi passivi fittizi oggetto di fraudolenta dichiarazione; una fattispecie identica a quella descritta dal comma 1, dunque, rispetto alla quale si pone in rapporto di specialità per aggiunta soltanto con riferimento al quantum della dichiarazione fraudolenta, con conseguente previsione di un minore trattamento sanzionatorio». Quanto agli altri criteri interpretativi, c.d. ausiliari e di portata residuale (Sez. U, n. 26351 del 26/06/2002, Fedi; Sez. U, n. 35737 del 24/06/2010, Rico), il criterio c.d. topografico, valorizzando la collocazione della norma, impone di rilevare che la fattispecie di cui all’art. 2, comma 3, d.lgs. 74 del 2000 «è formulata nel medesimo articolo che prevede il reato base, e non in una diversa disposizione, in tal senso indiziando la natura meramente circostanziale». In base al criterio teleologico, infine, «la fattispecie in oggetto è posta a tutela del medesimo bene giuridico rispetto al reato semplice».
Inesistenza soggettiva delle operazioni ai fini IVA.
In punto di inesistenza soggettiva rilevante ai fini del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, la Corte di Cassazione (Sez. 3, n. 19012 del 11/02/2015 Cc., dep. 07/05/2015, Rv. 263745, est. A. Scarcella) ha confermato l’orientamento alla cui stregua la falsità «può essere riferita anche all’indicazione dei soggetti con cui è intercorsa l’operazione, intendendosi per “soggetti diversi da quelli effettivi”, ai sensi del citato D.Lgs., art. 1, lett. a), coloro che, pur avendo apparentemente emesso il documento, non hanno effettuato la prestazione, sono irreali, come nel caso di nomi di fantasia, o non hanno avuto alcun rapporto con il contribuente finale». Il delitto in esame è configurabile allorché per mezzo di fatture per operazioni inesistenti, soggettivamente o oggettivamente, si indicano in una delle dichiarazioni relative alle imposte dirette o all’IVA elementi passivi fittizi al fine di evadere dette imposte e l’inesistenza soggettiva si configura «allorché la fattura – o il documento equipollente – riporti l’indicazione di nominativi diversi rispetto agli effettivi partecipanti all’operazione imponibile». In tema di IVA, la nozione di fattura soggettivamente inesistente presuppone, da un lato, l’effettività dell’acquisto dei beni entrati nella disponibilità patrimoniale dell’impresa utilizzatrice delle fatture e, dall’altro, la simulazione soggettiva, ossia la provenienza della merce da ditta diversa da quella figurante sulle fatture medesima. Il falso rilevante è solo quello che incide sul cessionario, deve cioè essere diretto a consentire l’evasione delle imposte all’utilizzatore, mentre il falso che cade sul cedente entra nell’orbita applicativa dell’art. 8. Gli elementi passivi fittizi, secondo la definizione di cui all’art. 1, lett. b), d.lgs. n. 74/2000, consistono in costi effettivamente non sostenuti o sostenuti in misura inferiore a quella indicata. A fronte della ricorrente deduzione difensiva per cui, trattandosi di fatture solo soggettivamente inesistenti, ossia trattandosi di semplice simulazione soggettiva, non sarebbe configurabile il reato ex art. 2 cit. perché non sarebbero stati esposti costi non sostenuti, il Collegio torna a ribadire che tale prospettazione potrebbe essere proposta solo per l’evasione alle imposte dirette, qualora effettivamente si dovesse accertare che gli elementi passivi esposti corrispondono a costi effettivamente sostenuti, ma non per l’evasione dell’IVA che è configurabile anche in presenza di costi effettivamente sostenuti. Invero, la detrazione Iva è ammessa solo in presenza di fatture provenienti dal soggetto che effettua la cessione o la prestazione . «Del resto, l’intero meccanismo dell’Iva che poggia sul presupposto che il tributo sia versato a chi ha eseguito prestazioni imponibili (che a sua volta potrà compensarla con l’Iva corrisposta per l’acquisto di beni e di servizi) mentre il versamento dell’Iva a un soggetto non operativo apre la strada al recupero indebito dell’imposta stessa, trova riscontro anche nella giurisprudenza comunitaria. La Corte di giustizia (sentenze n. 78/2003, cause C- 78/02 e C-79/02, e n. 566/2009, causa C-566/07) ha sottolineato che l’avvenuta fatturazione di un’operazione con applicazione dell’Iva mediante addebito alla controparte non è elemento assorbente per stabilire che il tributo resti definitivamente dovuto, in quanto tale effetto discende dalla ricorrenza delle condizioni oggettive e soggettive per l’applicazione dell’imposta medesima, rispetto alle quali l’addebito, isolatamente considerato, “non ha che una valenza indicativa del comportamento tenuto dal soggetto passivo”. Enucleando dall’affermazione della Corte di Giustizia alcuni princìpi, la Cassazione ha stabilito «che l’imposta si applica sulle operazioni che oggettivamente e soggettivamente sono comprese nella sfera di applicazione del tributo; di qui nasce l’obbligo della rivalsa (cioè dell’addebito), in mancanza del quale non può sorgere nella controparte il potere di esercitare la detrazione. Per la realizzazione dello schema attuativo dell’IVA nel suo complesso l’addebito è necessario ma non sufficiente. La soggezione di un’operazione ad Iva, peraltro, non dipende dall’addebito (altrimenti basterebbe ometterlo – o effettuarlo – per condurre l’operazione stessa fuori dal – o rispettivamente dentro il – campo applicativo dell’imposta) ma esclusivamente dalla ricorrenza delle condizioni normative (desunte da direttive comunitarie e legislazione interna) che riguardano gli elementi oggettivo e soggettivo. Pertanto, non è possibile assegnare all’avvenuto addebito dell’imposta un’efficacia sostitutiva della ricorrenza delle condizioni normative, ne’ l’esercizio della rivalsa costituisce prova certa dell’appartenenza dell’operazione al campo di applicazione dell’Iva, ma, al più, semplicemente un elemento indiziario che denota la convinzione delle parti in buona fede di dover ricondurre lo schema contrattuale della cessione o della prestazione all’interno di quel campo. In conclusione, non v’è perfetta simmetria tra pagamento dell’IVA e diritto al rimborso. Pertanto esporre dati fittizi anche solo soggettivamente significa creare le premesse per un rimborso al quale per il principio dianzi esposto non si ha diritto. L’indicazione di un soggetto diverso da quello che ha effettuato la fornitura, non è circostanza indifferente ai fini dell’IVA, dal momento che la qualità del venditore può incidere sulla misura dell’aliquota e, conseguentemente, sull’entità dell’imposta che l’acquirente può legittimamente detrarre».
Dolo specifico e finalità extra-evasive.
In punto di dolo tipico, la Cassazione (Cass. Pen., Sez. 3, n. 27112 del 19/02/2015 Ud., dep. 30/06/2015, Rv. 264390, est. Di Nicola) ha chiarito che «il dolo specifico costituito dal fine di evadere le imposte, che concorre ad integrare il reato di cui all’art. 2 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, sussiste anche quando ad esso si affianchi una distinta ed autonoma finalità extraevasiva non perseguita dall’agente in via esclusiva, e il relativo accertamento, riservato al giudice di merito, se adeguatamente e logicamente motivato è incensurabile in sede di legittimità». Quando lo specifico dolo di evasione della condotta tipica si coniuga con una distinta e autonoma finalità extra-tributaria, sempre che quest’ultima non sia perseguita dall’agente in via esclusiva, non vi sono serie ragioni giuridiche, dunque, per dubitare della compatibilità del dolo specifico di evasione fiscale rispetto ad una concorrente finalità extra-evasiva (che, nella specie, sarebbe consistita, secondo la prospettazione del ricorrente, nell’esigenza di procurarsi, attraverso le false fatturazioni, riserve occulte per pagare in nero le retribuzioni dei dipendenti). La Corte territoriale, infatti, aveva evidenziato come nel caso in esame fossero del tutto evidenti i vantaggi fiscali derivati dal sistema delittuoso posto in essere dal ricorrente in piena comunione d’intenti con l’attività di altre cartiere.
Rapporto tra i delitti ex artt. 2 e 5 del d.lgs. n. 74/2000.
In proposito, la Corte di Cassazione (Cass. Pen., 3, n. 33026 del 18/06/2015 Ud., dep. 28/07/2015, Rv. 264250, est. G. Andreazza) ha chiarito che «la presentazione di dichiarazione dei redditi oltre i novanta giorni dalla scadenza del termine integra il reato di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 74 del 2000, e non quello di cui all’art. 2 del decreto medesimo, anche quando all’interno di essa sono indicati elementi passivi fittizi derivanti dall’utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti». In base all’art. 2, comma 7, del d.P.R. n. 322 del 1998, “sono considerate valide le dichiarazioni presentate entro novanta giorni dalla scadenza del termine, salva restando l’applicazione delle sanzioni amministrative per il ritardo. Le dichiarazioni presentate con ritardo superiore a novanta giorni si considerano omesse, ma costituiscono, comunque, titolo per la riscossione delle imposte dovute in base agli imponibili in esse indicati e delle ritenute indicate dai sostituti d’imposta”. Secondo l’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 74 del 2000 ribadisce che “ai fini della disposizione prevista dal comma 1 non si considera omessa la dichiarazione presentata entro novanta giorni dalla scadenza del termine o non sottoscritta o non redatta su uno stampato conforme al modello prescritto”. La presentazione della dichiarazione oltre i termini di legge integra il reato di cui all’art. 5 cit. e rende «giuridicamente non configurabile, invece, la fattispecie di cui all’art. 2 giacché incentrata su una condotta commissiva, ovvero la indicazione, in una delle dichiarazioni annuali delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, di elementi passivi fittizi, ontologicamente incompatibile con la omissione rilevata». Alla nullità fiscale della dichiarazione «non può farsi seguire alcuna conseguenza di carattere penale se il contenuto della dichiarazione nulla è fraudolento: ciò che è nullo non produce alcun effetto secondo i principi e dunque neppure può integrare il reato di dichiarazione fraudolenta perché dichiarazione non c’è secondo le leggi fiscali». Né, infine, a conclusioni contrarie potrebbe condurre il fatto che il menzionato art. 2, comma 7, del d.P.R. n. 322 del 1998 faccia salvi gli effetti della riscossione delle imposte dovute in base agli imponibili in esse indicati e delle ritenute indicate dai sostituti d’imposta; proprio la delimitazione degli effetti della dichiarazione omessa ai soli aspetti “favorevoli” all’amministrazione finanziaria e non anche a tutti gli altri (come quelli derivanti, come nella specie, dall’esposizione di costi fondati su fatture per operazioni inesistenti) conferma l’interpretazione offerta.
In merito alla non configurabilità del reato ex art. 2 d.lgs. n. 74/2000 nella forma del tentativo, pur dopo la riforma del d.lgs. n.158/2015, la Cassazione (Cass. Pen., 3, n. 49570 del 6/10/2015 Ud., dep. 16/12/2015, est. G. Andreazza) ha confermato come il momento culminante ed indefettibile della condotta illecita si focalizzi sulla condotta della presentazione della dichiarazione stessa, coerentemente con abbandono del modello del reato prodromico. In linea con la giurisprudenza della Corte , l’art.6 del d.lgs. n. 74/2000 prevede che il delitto in questione non possa essere punito a titolo di tentativo, al fine di evitare, come spiega la stessa relazione ministeriale, «che il trasparente intento del legislatore delegante di bandire il modello del reato prodromico risulti concretamente vanificato dall’applicazione del generale prescritto dell’art. 56 c.p.: si potrebbe sostenere, difatti, ad esempio, che le registrazioni in contabilità di fatture per operazioni inesistenti o sottofatturazioni, scoperte nel periodo d’imposta, rappresentino atti idonei diretti in modo non equivoco a porre in essere una successiva dichiarazione fraudolenta o infedele, come tali punibili ex se a titolo di delitto tentato». Di qui, dunque, la conseguenza, che «solo con la condotta di presentazione della dichiarazione il reato può considerarsi perfezionato e, dall’altro, che, a differenza di quanto, in precedenza, stabiliva l’art. 4, lett. g) della I. n. 516 del 1982 (che puniva ex se anche il semplice inserimento nella contabilità di fatture per operazioni inesistenti indipendentemente dall’allegazione alla dichiarazione), le condotte pregresse ad essa restano, sul piano penale, del tutto irrilevanti, non potendo essere punite neppure a titolo di tentativo». Non può escludersi, per converso, che la condotta di intermediazione posta in essere nel senso di agevolazione non già della condotta di utilizzazione delle fatture bensì della condotta di emissione delle stesse valga a configurare il distinto addebito di concorso nel reato di cui all’art.8 d.lgs. n. 74/2000.
1.2.2. Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici e dichiarazione infedele: -inconfigurabilità del reato di dichiarazione infedele, in presenza di condotte puramente elusive ai fini fiscali; – applicazione residuale dell’istituto dell’abuso del diritto ex art. 10-bis l. 27 luglio 2000, n. 212.
Con una significativa sentenza (Cass. Pen. Sez. 3, n. 40272 del 01/10/2015 Ud., dep. 07/10/2015, Rv. 264949, est. A. Scarcella), successiva all’entrata in vigore del d.lgs. n. 128/2015, i giudici di legittimità hanno affermato i seguenti principi di diritto rilevanti ai fini delle fattispecie penali ex artt. 3 e 4 d.lgs. n. 74/2000: (i) «Non è più configurabile il reato di dichiarazione infedele, in presenza di condotte puramente elusive ai fini fiscali, in quanto l’art. 10 bis, comma 13, della legge 27 luglio 2000, n. 212, introdotto dall’art. 1 del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, esclude che operazioni esistenti e volute, anche se prive di sostanza economica e tali da realizzare vantaggi fiscali indebiti, possano integrare condotte penalmente rilevanti. (Fattispecie in cui l’esposizione in dichiarazione di elementi passivi nel reddito di impresa a seguito di un contratto di stock lending è stata ritenuta condotta non più penalmente rilevante in quanto unicamente elusiva e quindi rientrante nella previsione del suddetto “ius superveniens”); (ii) «la disposizione transitoria di cui all’art. 1, comma quinto, D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, che prevede l’applicazione dell’art. 10-bis l. 27 luglio 2000, n. 212 anche alle condotte commesse anteriormente alla propria entrata in vigore solo se non sia ancora stato notificato un atto impositivo, non impedisce di ritenere non più penalmente rilevanti le condotte fiscalmente elusive integranti mero abuso del diritto, per effetto del comma 13 del medesimo art. 10-bis, in quanto tale comma, realizzando una sostanziale “abolitio criminis”, deve operare retroattivamente senza condizioni» ; (iii) «In tema di violazioni finanziarie, l’istituto dell’abuso del diritto di cui all’art. 10-bis l. 27 luglio 2000, n. 212, che, per effetto della modifica introdotta dall’art. 1 del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, esclude ormai la rilevanza penale delle condotte ad esso riconducibili, ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, cosicché esso non viene mai in rilievo quando i fatti in contestazione integrino le fattispecie penali connotate da tali elementi costitutivi».
La pronuncia ha offerto alla Cassazione l’occasione di rivalutare l’integrazione della fattispecie penale ex art. 4 d.lgs. n. 74/2000 alla luce della nuova disciplina del c.d. abuso del diritto, come riformulata dall’art. 10-bis del c.d. Statuto del contribuente (L. 27.7.2000 n. 212, in G.U. 31.7.2000 n. 177), in vigore dal 1 ottobre 2015. La vicenda aveva riguardo ad elementi passivi qualificati dai giudici di merito come fittizi (collegati ad un’operazione negoziale di c.d. Stock lending agreement ) «seppure non inesistenti in natura, in quanto artificialmente creati al solo scopo di essere esposti nella dichiarazione fiscale, senza che essi facessero riferimento ad un’effettiva operatività».
Pur non ritenendo di trovarsi dinanzi a contratti simulati in senso civilistico, posto che il prestito di quote e la “scommessa” erano voluti, ma piuttosto dinanzi ad un contratto nullo per difetto di causa (l’alea), i giudici di merito avevano osservato che «il sistema intende(va) punire ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e l’espressione documentale di essa, e non soltanto la mancanza assoluta dell’operazione e la inesistenza “in natura” della voce passiva esposta. Anche ciò che giuridicamente è effettivo, osservano i giudici di merito, può essere senz’altro fraudolento e determinare effetti fittizi se sul piano economico non vi è stata affatto l’operazione che le parti di un contratto abbiano convenuto. Ciò che nel caso sarebbe avvenuto, posto che l’esistenza di un accordo… (che nel suo contenuto effettivo, in nulla aleatorio, non corrispondeva allo schema del contratto stipulato) ammantato da un negozio giuridico formalmente ineccepibile, non lo rende meno fittizio». La Cassazione ha ritenuto che il ragionamento dei giudici di merito, in astratto condivisibile alla luce della normativa vigente all’epoca della decisione, dovesse essere rivisitato proprio a seguito dell’entrata in vigore della nuova disciplina prevista dall’art. 10-bis dello “Statuto”, introdotto dal D.Lgs. n. 128 del 2015, in vigore dal 1 ottobre 2015. Ad avviso della Cassazione, l’operazione di cui la Corte di merito aveva ritenuto la commissione, era formalmente rispettosa delle norme fiscali, sebbene priva di sostanza economica; inoltre, non era né inesistente, né simulata, ma esistente, voluta e volta essenzialmente alla realizzazione di un vantaggio fiscale indebito. Essa rientrava, dunque, entro i confini del nuovo art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente.
Tale disposizione ha abrogato l’art. 37-bis del DPR 600/73, disciplinato unitariamente i concetti di elusione e di abuso del diritto, reso il divieto di “abuso del diritto” operativo per tutti i tipi di imposte, fatta eccezione, per i diritti doganali di cui all’art.34 del DPR n. 43/73, delineato le condotte che integrano il c.d. abuso del diritto . In tal senso, la previsione individua tre presupposti costitutivi delle condotte abusive: 1) l’assenza di sostanza economica delle operazioni effettuate; 2) la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito; 3) la circostanza che quest’ultimo è l’effetto essenziale dell’operazione. La condotta abusiva è “inopponibile” all’Amministrazione finanziaria che, di conseguenza, ne disconosce i vantaggi conseguiti dal contribuente applicando i tributi secondo le disposizioni eluse, ma non è sanzionata con la nullità dei negozi conclusi dal contribuente, resi solo inefficaci ai fini tributari. In base al comma 13 del richiamato art. 10 bis, infine, «le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie. Resta ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie».
La Corte di Cassazione ha rimarcato, nel contempo, che la disciplina dell’abuso del diritto ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti la simulazione o i reati tributari. In particolare, l’evasione e la frode vanno perseguite con gli strumenti che l’ordinamento già offre e se, ad esempio, una situazione configura fattispecie di frode o simulazione regolate dal D.Lgs. n. 74/2000, l’abuso non può essere invocato. Difatti, «il nuovo art. 10 bis, dello “Statuto”, prevede, anzitutto, che l’abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di disposizioni del d.lgs. n. 74 dei 2000, ovvero la violazione di altre disposizioni». Ciò significa, dunque, che l’abuso «per un verso, postula l’assenza, nel comportamento elusivo del contribuente, di tratti riconducibili ai paradigmi, penalmente rilevanti, della simulazione, della falsità o, più in generale, della fraudolenza». Inoltre, «rimane impregiudicata la possibilità di ravvisare illeciti penali – sempre, naturalmente, che ne sussistano i presupposti – nelle operazioni contrastanti con disposizioni specifiche che perseguano finalità antielusive (ad esempio, negando deduzioni o benefici fiscali, la cui indebita autoattribuzione da parte del contribuente potrebbe bene integrare taluno dei delitti in dichiarazione). Parimenti rimane salva la possibilità di ritenere, nei congrui casi, che – alla luce delle previsioni della normativa delegata e della possibile formulazione del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (il cui testo è stato riformulato nello schema di decreto legislativo delegato, approvato dal Consiglio del Ministri del 22 settembre u.s.) – operazioni qualificate in precedenza dalla giurisprudenza come semplicemente elusive integrino ipotesi di vera e propria evasione».
1.2.3. Occultamento o distruzione di documenti contabili: – inconfigurabilità in caso di mancata istituzione della documentazione contabile; – rilevanza della indisponibilità temporanea della documentazione da parte degli organi verificatori ed irrilevanza della ricostruzione delle operazioni aliunde; – integrazione del delitto per le fatture passive e attive della società cartiera.
Inconfigurabilità in caso di mancata istituzione della documentazione contabile.
La Corte regolatrice è tornata a ribadire che la condotta sanzionata dall’art. 10 cit. «è indubitabilmente solo quella, espressamente contemplata dalla norma, di occultamento o distruzione delle scritture contabili obbligatorie e non anche quella della loro mancata tenuta, espressamente sanzionata in via meramente amministrativa dall’art.9 del d. Igs. n. 471 del 1997, sicché va ribadito quanto sul punto già affermato da Sez. 3, n. 38224 del 07/10/2010, P.M. in proc. Di Venti, Rv. 248571 secondo cui la fattispecie criminosa dell’art. 10 cit. presuppone appunto l’istituzione della documentazione contabile» (così Cass. Pen, Sez. 3, Sentenza n. 38375 del 09/07/2015 Ud., dep. 22/09/2015, Rv. 264761, est. Andreazza, annulla in parte con rinvio App. Firenze, 03/04/2014, conf. Tribunale di Pistoia). La sentenza impugnata appariva, nella specie, avere disatteso tale principio, allorché aveva ritenuto che «alla distruzione ed occultamento della documentazione sarebbe assimilabile la condotta della omessa tenuta dei libri e scritture contabili», precisando la Corte di merito che «trattandosi di documentazione che va obbligatoriamente tenuta e conservata è irrilevante ai fini dell’integrazione della fattispecie incriminatrice che la suddetta documentazione sia mancante sin dall’inizio ovvero sia stata successivamente distrutta o sottratta» sicché «nel caso del libro matricola la circostanza che fosse presente ovvero mancasse del tutto non rileva…ai fini della illiceità dell’omissione». La Cassazione, in linea con il principio sopra spiegato, ha disposto un nuovo esame dell’appello, segnalando la necessità di tener conto, in caso di ritenuta, motivata, insussistenza della condotta di occultamento del libro matricola, del riflesso di una tale conclusione, pur nell’unitarietà del reato contestato, già integrato per il solo fatto dell’occultamento di fatture e buste paga, sull’entità della irroganda pena complessiva. Infatti, «se pure alla pluralità dei beni occultati o distrutti non corrisponde una pluralità di reati, restando lo stesso sempre unico attesa anche la riconducibilità dei medesimi beni alla unica categoria delle scritture contabili o dei documenti obbligatori, non può comunque negarsi l’incidenza di un tale elemento sul profilo sanzionatorio alla luce dei parametri di cui all’art. 133, comma 1, nn. 1 e 2, c.p.».
Rilevanza della indisponibilità temporanea della documentazione da parte degli organi verificatori ed irrilevanza della ricostruzione delle operazioni aliunde.
In linea con un risalente insegnamento (Cass. Pen., Sez. 3, n. 13716 del 07/03/2006, Cesarini, Rv. 234239), la Corte di Cassazione (Sez. 3, n. 2859 del 29/10/2014 Ud., dep. 22/01/2015, Rv. 263175, est. G. Andreazza) è tornata a ribadire che «la condotta di occultamento di cui all’art. 10 del d.lgs. 74/2000, consiste nella indisponibilità della documentazione da parte degli organi verificatori, sia essa temporanea o definitiva».
I Giudici di legittimità (Cass. Pen., Sez. 3, Sentenza n. 20748 del 16/03/2016 Ud., dep. 19/05/2016, Rv. 267028, est. E. Gai) hanno ribadito che «il delitto di cui all’art. 10 D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, tutelando il bene giuridico della trasparenza fiscale, è integrato in tutti i casi in cui la distruzione o l’occultamento della documentazione contabile dell’impresa non consenta o renda difficoltosa la ricostruzione delle operazioni, rimanendo escluso solo quando il risultato economico delle stesse possa essere accertato in base ad altra documentazione conservata dall’imprenditore e senza necessità di reperire “aliunde” elementi di prova». Secondo la consolidata giurisprudenza della Cassazione, infatti, «ai fini della configurabilità del reato de quo, non è necessario che si verifichi in concreto una impossibilità assoluta di ricostruire il volume d’affari o dei redditi, essendo sufficiente anche una impossibilità relativa che sussiste anche se a tale ricostruzione si possa pervenire aliunde (Sez. n. 3, n. 36624 del 18/07/2012, PM in proc. Pratesi, Rv. 253365; Sez. n. 3, n. 39711 del 04/06/2009, Acerbis, Rv. 244619). L’irrilevanza ai fini dell’esclusione del delitto in esame della possibilità di ricostruzione aliunde dei redditi e del volume degli affari discende dalla ratio dell’incriminazione e dal bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, da individuarsi nell’interesse statale alla trasparenza fiscale del contribuente. L’art. 10 cit sanziona, dunque, l’obbligo del contribuente di non sottrarre, all’accertamento fiscale, le scritture ed i documenti contabili. Così individuato l’oggetto giuridico del reato, ne discende che non è rilevante che la ricostruzione delle operazioni prive di documentazione contabile sia possibile attraverso percorsi esterni all’impresa, quali i riscontri incrociati con gli altri soggetti economici con i quali vi sono stati rapporti commerciali, situazione nella quale è palese la violazione del bene giuridico alla trasparenza fiscale del contribuente. In altri termini la norma sanziona la violazione dell’obbligo di trasparenza fiscale che ricorre in tutti i casi in cui la documentazione dell’impresa non consenta la ricostruzione delle operazioni in ragione della mancanza totale o parziale di questa, restando escluso il reato solo quanto il risultato economico delle operazioni prive di documentazione obbligatoria possa essere accertato in base ad altra documentazione conservata dall’imprenditore ( Sez. 3, n. 3057 del 14/11/2007, Lanteri, Rv. 238613). Diversamente la norma, infatti, sarebbe sostanzialmente priva di concreta applicazione ove si attribuisse rilievo alla possibilità di ricostruzione grazie alla solerzia degli accertatori ed alla loro capacità di reperire aliunde elementi di prova, tanto più che in materia, di regola, in un modo o nell’altro, prima o poi, eventualmente procedendo a controlli incrociati, l’evasione fiscale viene scoperta. Pertanto deve ribadirsi il principio secondo cui, per rendere concreta la tutela penale, la norma incriminatrice deve interpretarsi nel senso che la ricostruzione dei redditi e del volume di affari dell’impresa deve poter avvenire con i documenti che il titolare è tenuto a conservare – escluso pertanto qualsiasi riferimento ad una possibilità di ricostruzione aliunde».
La Corte di Cassazione (Sez. 3, n. 11479 del 26/06/2014 Ud., dep. 19/03/2015, Rv. 263005, est. Aceto), inoltre, ha stabilito che «in tema di reato di occultamento o distruzione di scritture contabili, nel caso in cui l’imputato deduca che le scritture contabili siano detenute da terzi e, tuttavia, non esibisca un’attestazione rilasciata dai soggetti stessi recante la specificazione delle scritture in loro possesso ovvero i medesimi si oppongano all’accesso o non esibiscano in tutto o in parte detta documentazione, il giudice penale può trarre il convincimento della effettiva tenuta della contabilità da parte di terzi da prove, anche dichiarative, ulteriori e diverse dalla citata attestazione» .
Integrazione del delitto per le fatture passive e attive della società cartiera.
E’ stato chiarito che «anche l’occultamento o la distruzione di fatture ricevute da terzi (cd. fatture passive) integra il reato di cui all’art. 10 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, trattandosi di documenti che, oltre a rappresentare costi sostenuti e a incidere sulla ricostruzione dei redditi del destinatario di essi, sono comunque dimostrativi dell’esistenza di introiti a carico del soggetto emittente (Cass., Pen. Sez. 3, n. 15236 del 16/01/2015 Ud., dep. 14/04/2015, Rv. 263050, est. G. Andreazza). Il ricorrente assumeva, in particolare, che le fatture passive intestate a società “cartiera” non potessero rientrare nella documentazione oggetto della condotta di occultamento e distruzione di cui all’art. 10 cit., di cui difetterebbe il dolo specifico tipico. Per contro, la Corte ha rilevato che un tale assunto appare contrastare, «in primo luogo, con la generale indicazione della norma, che, nel riferirsi ai documenti di cui è obbligatoria la conservazione, legittima già di per sé una lettura comprensiva anche delle fatture passive, posto che, a norma dell’art.22, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, devono essere conservate non solo le fatture emesse ma anche quelle ricevute», in linea con la ratio della previsione, coincidente con la tutela del bene giuridico rappresentato dall’interesse statale alla trasparenza fiscale del contribuente (Sez. 3, n. 3057 del 14/11/2007, Lanteri, Rv. 238613). Inoltre, le fatture passive, oltre ad incidere comunque sulla ricostruzione dei redditi del destinatario delle fatture, in quanto rappresentative di costi sostenuti, sono dimostrative di un reddito in capo all’emittente, mentre il dolo specifico della fattispecie «consiste testualmente non solo nel fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto ma altresì nel consentire l’evasione a terzi», confermando infine la compatibilità della condotta di distruzione od occultamento delle fatture attive con la natura di “cartiera” della emittente.
1.2.4. Omesso versamento di ritenute certificate e dell’IVA: – novità della riforma del 2015; – fatti consumati prima del 22.10.2015: la presentazione del modello 770 non prova ex se il rilascio ai sostituiti delle certificazioni attestanti le ritenute effettivamente operate; – spazi di rilevanza della crisi di liquidità sull’esclusione dell’elemento soggettivo.
Novità della riforma del 2015.
Oltre all’innalzamento delle soglie annuali di imposta non versata (elevate a 150.000 euro per le ritenute ed a 250.000 euro per l’IVA), la fattispecie dell’omesso versamento delle ritenute appare semplificata nella struttura in virtù della riforma del d.lgs. n.158/2015. Essa, infatti, può essere integrata, ora, anche solo in ragione del mancato versamento entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d’imposta delle ritenute «dovute sulla base della stessa dichiarazione» in alternativa (testimoniata dalla disgiuntiva “o”) a quelle «risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti»
Fatti consumati prima del 22.10.2015: la presentazione del modello 770 non prova ex se il rilascio ai sostituiti delle certificazioni attestanti le ritenute effettivamente operate.
L’innovazione normativa del 2015 ha reagito all’orientamento giurisprudenziale che assumeva che la presentazione del modello 770 potesse costituire indizio sufficiente o prova dell’avvenuto versamento delle retribuzioni e della effettuazione delle ritenute, ma non elemento dimostrativo del tempestivo rilascio ai sostituiti delle certificazioni attestanti le ritenute effettivamente operate, rilascio da considerare elemento costitutivo indefettibile del reato.
Tale orientamento, in ogni caso, resta di persistente attualità per i fatti consumati prima del 22.10.2015, come emerge anche dal tenore della sentenza n. 7884 del 4.2.2016, dep. 26.2.2016, est. Mocci. Tale pronuncia confrontandosi con fattispecie antecedente, ha rilevato come la nuova disciplina, nel non richiedere più la prova della certificazione, «essendo norma più sfavorevole, è soggetta al principio tempus regit actum e non può applicarsi alla fattispecie». Secondo la Cassazione (Sez. 3, 5736 del 21.1.2015, dep. 9.2.2015), in linea con recenti decisioni (Sez. 3, n. 40526 del 8/4/2014, Gagliardi, Rv. 260090 e Sez. U, n. 37425 del 28/3/2013, Favellato, Rv. 255760) può essere affermato il principio secondo il quale «nel reato di omesso versamento di ritenute certificate, la prova dell’elemento costitutivo rappresentato dal rilascio ai sostituiti delle certificazioni attestanti le ritenute effettivamente operate, il cui onere incombe all’accusa, non può essere costituita dal solo contenuto della dichiarazione modello 770 proveniente dal datore di lavoro» . L’elemento specializzante che caratterizza il reato in esame è «il rilascio della certificazione al sostituito, con la conseguenza che la norma penale non può trovare applicazione non soltanto quando il sostituto non abbia operato le ritenute, ma anche quando questi non abbia rilasciato la certificazione, oltre che nel caso in cui abbia rilasciato la certificazione in un momento successivo alla scadenza del termine per effettuare il versamento. Gli elementi costitutivi della fattispecie, necessari per attribuire rilevanza penale alla condotta omissiva sono, quindi, costituiti dalle parti di condotta attiva comprendenti tanto l’effettuazione della ritenuta quanto la successiva emissione della certificazione». L’accusa deve fornire la prova che il sostituto abbia rilasciato ai sostituiti la certificazione (o le certificazioni) da cui risultino le ritenute il cui versamento è stato poi omesso. E’ però confermato che «tale prova, secondo la consolidata giurisprudenza, non deve necessariamente essere documentale, ben potendo basarsi su altri documenti, testimoni o indizi, i quali ultimi, secondo i principi generali, devono essere plurimi, nonché gravi, precisi e concordanti». In tal senso, «la presentazione del modello 770 può senz’altro costituire indizio sufficiente o prova dell’avvenuto versamento delle retribuzioni e della effettuazione delle ritenute, che con esso il datore di lavoro dichiara di aver operato, ma non può però costituire indizio sufficiente o prova dell’avvenuto rilascio delle certificazioni ai sostituiti prima del termine previsto per presentare la dichiarazione, perché il modello non contiene anche la dichiarazione di avere tempestivamente emesso le certificazioni. Ricordando, inoltre, che frequentemente non si tiene conto del fatto che il delitto contemplato all’art. 10-bis d.lgs. 74/2000 non punisce l’omesso versamento delle ritenute risultanti dal modello 770, ma l’omesso versamento delle ritenute risultanti dalle certificazioni (ossia dai CUD) rilasciati ai sostituiti, si rileva anche che la prova diretta del rilascio della certificazione è di facile acquisizione, da parte del Pubblico Ministero o d’ufficio dal giudice ai sensi degli artt. 507 o 603, comma 2, cod. proc. pen., attraverso l’Agenzia delle Entrate, che dispone della documentazione dei sostituiti, ovvero mediante l’audizione dei sostituiti».
Spazi di rilevanza della crisi di liquidità rispetto all’esclusione dell’elemento soggettivo.
Ripetute le pronunce sul tema della crisi di liquidità ed in generale della rilevanza della crisi di impresa nei reati tributari, variamente addotta quale stato di necessità o di forza maggiore, ostativa alla configurabilità del dolo dei reati ex artt. 10-bis e 10-ter d.lgs. n. 74/2000. In via generale, le sentenze, anche nel periodo di interesse, non escludono che l’assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta possa avere incidenza sull’elemento soggettivo del reato tributario, ma esigono l’assolvimento di un onere di allegazione concernente sia il profilo della non imputabilità all’indagato della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee da valutarsi in concreto.
Particolarmente ampio ed approfondito l’excursus sullo stato della riflessione giurisprudenziale offerto dalla sentenza della Terza Sezione penale della Cassazione n. 7429 del 21.1.2015, dep. 19.2.2015, est. L. Ramacci. I giudici di legittimità muovono nell’analisi ricordando che «le condotte sanzionate comportano, sostanzialmente, la indebita appropriazione di somme altrui di cui si ha la detenzione e tale evenienza» (cfr. Cass. Pen., Sez. 3, n. 10120 del 1/12/2010, dep.2011, Provenzale, Rv. 249753), «rende del tutto irrilevanti eventuali difficoltà economiche impreviste». Per ciò che concerne l’elemento soggettivo, è assodato che «il reato è punibile a titolo di dolo generico, richiedendo la mera consapevolezza della condotta omissiva (Sez. 3, n. 25875 del 26/5/2010, Olivieri, Rv. 248151. V. anche Sez. U, n. 37425 del 28/3/2013, Favellato, Rv. 255759)». Come si ricordava, la prova del dolo, secondo la citata pronuncia delle Sezioni Unite, è insita, in genere, nella duplice circostanza del rilascio della certificazione al sostituito e della presentazione della dichiarazione annuale del sostituto (Mod. 770), che riporta le trattenute effettuate, la loro data ed ammontare, nonché i versamenti relativi. Le Sezioni Unite hanno posto in evidenza il collegamento intercorrente tra il debito verso il fisco relativo al versamento delle ritenute e l’erogazione degli emolumenti ai collaboratori, con la conseguenza che, quando queste ultime vengono effettuate dal sostituto d’imposta, insorge a suo carico un obbligo di accantonamento delle somme dovute all’Erario e di organizzazione, su scala annuale, delle risorse disponibili, in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria. Anche dopo la pronuncia delle Sezioni Unite, è stato precisato che nei casi in esame «la colpevolezza per il reato non può essere esclusa deducendo la crisi di liquidità al momento della scadenza del termine per il versamento, quando non sia dimostrato anche che la situazione non sia conseguenza di una deliberata scelta di non far debitamente fronte all’esigenza di opportuna organizzazione al fine di adempimento dell’obbligo tributario (Sez. 3, n.15416 del 8/1/2014, Tonti, non massimata). In tale occasione si è anche affermato che ben potrebbero verificarsi casi in cui sia possibile invocare l’assenza del dolo o l’assoluta impossibilità di adempiere all’obbligazione tributaria ed il cui apprezzamento è devoluto al giudice del merito (e, come tale, insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato), ma si è anche aggiunto che sarebbe in ogni caso necessario l’assolvimento degli oneri di allegazione che, per ciò che concerne la crisi di liquidità, devono avere attinenza non soltanto all’aspetto della non imputabilità al sostituto di imposta della crisi economica che improvvisamente avrebbe investito l’azienda, ma anche alla circostanza che detta crisi non possa essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso, da parte dell’imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto» .
Con la sentenza n. 7439/2015, cit., la Cassazione, in linea con la precedente giurisprudenza, non esclude che l’assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta possa avere incidenza sull’elemento soggettivo del reato tributario, ma esige l’assolvimento di un onere di allegazione concernente sia la non imputabilità all’indagato della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee da valutarsi in concreto. Con grande chiarezza, a fronte della dedotta valorizzazione della crisi di liquidità quale conseguenza, in maniera prevalente, se non assoluta, del ritardo nei pagamenti da parte dei soggetti con cui l’impresa ha rapporti lavorativi e nel pagamento dei lavoratori preferito all’adempimento del debito erariale, la Cassazione osserva che «l’inadempimento dei propri debitori è però un’eventualità insita nel rischio di impresa e non può ritenersi del tutto imprevedibile»; inoltre, «il pagamento delle retribuzioni ai dipendenti, altro elemento ritenuto significativo, costituisce una precisa scelta dell’imprenditore», non avendo rilevanza il fatto che lo stesso non abbia arricchito il proprio patrimonio personale con le somme non versate all’erario, «che sono state comunque sottratte alla loro originaria destinazione». Non è stato ritenuto provato, inoltre, l’ulteriore requisito dell’effettiva impossibilità per l’imprenditore di fare altrimenti fronte alla crisi finanziaria, non essendo sufficiente la deduzione da parte dell’indagato di disporre di un patrimonio personale del tutto esiguo e dunque di non poter realizzare l’adempimento con le risorse tratte da esso, in assenza della prova, altresì, di essersi «effettivamente attivato per ovviare alla mancanza di risorse economiche» e «per organizzare quelle disponibili per onorare il debito con l’erario».
Con la sentenza n. 8352 del 24.6.2014, dep. 25.2.2015, est. A. Aceto, in merito ad analoga prospettazione difensiva relativa al delitto ex art. 10 bis cit., la Cassazione ha sottolineato come «per la sussistenza del reato in questione non è richiesto il fine di evasione, tantomeno l’intima adesione del soggetto alla volontà di violare il precetto», poiché «è integrato dalla condotta omissiva posta in essere nella consapevolezza della sua illiceità, non richiedendo la norma, quale ulteriore requisito, un atteggiamento antidoveroso di volontario contrasto con il precetto violato», né attribuendo rilevanza ai motivi a delinquere. «La scelta di non pagare prova il dolo; i motivi della scelta non lo escludono». All’esito di un preciso percorso motivazionale la Corte ha così escluso che la politica della sistematica perpetrazione dell’illecito amministrativo tributario, quale strumento di gestione della crisi di liquidità, possa giustificare la forza maggiore che s’invoca al momento della scadenza del termine cd. lungo., come se tale situazione non affondasse le radici in una persistente illegittimità voluta dal contribuente. Infatti, «a) il margine di scelta esclude sempre la forza maggiore perché non esclude la suitas della condotta; b) la mancanza di provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria penalmente rilevante non può pertanto essere addotta a sostegno della forza maggiore quando sia comunque il frutto di una scelta/politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità; c) non si può invocare la forza maggiore quando l’inadempimento penalmente sanzionato sia stato con-causato dal mancato pagamento alla singole scadenze mensili e dunque da una situazione di illegittimità; d) l’inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico».
Con la pronuncia n. 33021 del 17.6.2015, dep. 28.7.2015, est. S. Gazzara, la Corte ha ricordato le indicazioni pratiche emerse nella giurisprudenza di legittimità per identificare i presupposti in presenza dei quali la violazione dell’obbligo del versamento fiscale non costituisce reato: «da una parte, la dimostrazione della correttezza della gestione caratteristica dell’impresa e che questa sia stata negativamente condizionata da fattori non controllabili; dall’altra, la dimostrazione della inutilità del ricorso a misure alternative alla gestione caratteristica dell’impresa per fronteggiare la crisi di liquidità ( Cass. 26/6/2014, n. 27676). Il contribuente che invochi la assoluta impossibilità ad adempiere deve fornire la prova della crisi di liquidità della sua azienda, della non imputabilità dello stato di crisi ai suoi comportamenti e che detta situazione di crisi non sarebbe stata altrimenti fronteggiabile tramite il ricorso a comportamenti diversi dal mancato assolvimento dell’onere tributario ( Cass. 19/2/2015, n. 7429)». La Cassazione ha stimato che l’indagato avesse contribuito a creare lo stato di decozione aziendale, «ricorrendo a scelte contestabili, col preferire di utilizzare la liquidità disponibile per procurarsi materie prime, continuare le lavorazioni e pagare i dipendenti, versando i contributi previdenziali e assicurativi», poiché, «tale condotta, quand’anche provata e giustificata da finalità di impresa, realizza il presupposto dell’inadempimento consapevole all’obbligo di corresponsione in favore dell’Erario, avendo il soggetto il preciso dovere di assicurare la relativa provvista». Mentre, la difficoltà economica determinata dal mancato incasso di significative somme da parte dei clienti, che aveva, di poi, condotto la società al fallimento, non costituiva ragione imprevedibile, «in quanto l’inadempimento dei debitori è una eventualità insita nel rischio di impresa, non del tutto imprevedibile»; né era stata provata l’impossibilità di fare fronte altrimenti alla crisi, gestendo le proprie risorse economiche e patrimoniali, onde consentire l’accantonamento della somma dovuta a titolo d’i.v.a. (Cass. 15/1/2015, n. 1725).
1.2.5. Indebita compensazione: – novità delle riforma del 2015; – mancato versamento rileva solo se in virtù della compensazione ex art. 17 del d.lgs. n. 241 del 1997; – credito tributario inesistente o non spettante: il caso dei crediti posti in compensazione oltre i limiti previsti dall’art. 34, comma primo, della legge del 23 dicembre 2000 n. 388.
Novità delle riforma del 2015.
Quanto all’indebita compensazione ex art. 17 d.lgs. n. 241/1997, sanzionata secondo i contenuti dell’articolo 10-quater d.lgs. n. 74/2000, la riforma del 2015 ha introdotto una severa distinzione di situazioni, per le quali, in precedenza, era apprestata reazione sanzionatoria di pari severità. A seconda che ad essere compensati con tale procedura siano, rispettivamente, crediti “non spettanti” o crediti “inesistenti”, per un’evasione di pari importo annuo, superiore a cinquantamila euro, per i fatti consumati dopo il 22.10.2015 la pena varia in maniera consistente nel minimo (da sei mesi di reclusione, nel caso di impiego di crediti non spettanti, sino ad un anno e sei mesi, per quelli inesistenti) ed ancor più nel massimo edittale (raggiungendo i due anni per quelli non spettanti ed i sei anni per quelli inesistenti). Si tratta di differenza sanzionatoria consistente, in linea con la differenziazione dei presupposti di rilevanza della evasione penale a fronte di inesistenti o diversamente qualificate premesse fattuali.
Mancato versamento rileva solo se in virtù della compensazione ex art. 17 del d.lgs. n. 241 del 1997.
In merito al reato in esame, sia pure rispetto alla previgente formulazione, la Cassazione ha chiarito che la condotta si caratterizza per il mancato versamento di somme dovute utilizzando in compensazione, ai sensi dell’art. 17 del d.lgs. n. 241 del 1997, crediti non spettanti o inesistenti (Cass., Pen. Sez. 3, n. 15236 del 16/01/2015 Ud., dep. 14/04/2015, Rv. 263050, est. G. Andreazza). «Ne consegue che non è sufficiente, evidentemente, ad integrare il reato, un mancato versamento ma occorre che lo stesso risulti, a monte, formalmente “giustificato” da una operata compensazione tra le somme dovute all’Erario e crediti verso il contribuente, in realtà non spettanti od inesistenti. E’ del resto, proprio la condotta, necessaria, di compensazione ad esprimere la componente decettiva o di frode insita nella fattispecie e che rappresenta il quid pluris che differenzia il reato di cui all’art. 10 quater rispetto ad una fattispecie di mero omesso versamento». E’ dunque ritenuta necessaria la redazione dei modelli F24, anche con modalità on line, relativi ai versamenti mensili dell’Iva.
Credito tributario inesistente o non spettante: il caso dei crediti posti in compensazione oltre i limiti previsti dall’art. 34, comma primo, della legge del 23 dicembre 2000 n. 388.
Secondo la Cassazione, ai fini del reato ex art. 10-quater d.lgs. n. 74/ 2000, costituisce credito tributario non spettante quello che pur certo nella sua esistenza e nel suo ammontare sia, per qualsiasi ragione normativa, ancora non utilizzabile (ovvero non più utilizzabile) in operazioni finanziarie di compensazione nei rapporti fra il contribuente e l’Erario (Cass., Sez.3, 36399 del 7.7.2015, dep. 9.7.2015, est. Pezzella). E’ dunque credito non spettante l’indicazione in compensazione di un credito, esistente ma non compensabile per la parte eccedente il limite stabilito dalla legge . In tal senso, sono ribaditi i principi espressi dalla sentenza n. 3367 del 26.6.2014, dep. il 26.1.2015, Napoli, rv. 262003 (fattispecie in cui è stato ritenuto penalmente rilevante l’utilizzo nella dichiarazione Iva, di un credito esistente ma detraibile solo nell’anno successivo) .
In una sentenza successiva all’entrata in vigore del d.lgs. n. 158/2015, la Cassazione (Sez. 3, Sentenza n. 48211 del 22/01/2015 Ud., dep. 04/12/2015, Rv. 265384, est. R. Grillo) ha riaffermato il medesimo principio, dando atto che i crediti posti in compensazione oltre i limiti previsti dall’art. 34, comma primo, della legge del 23 dicembre 2000 n. 388, rientrano nella categoria dei crediti “non spettanti” e rilevano ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000 , nel testo vigente in epoca anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. 24 settembre 2015, n.158, e non semplicemente per la violazione amministrativa dell’articolo 28, comma 18, Legge 28.1.2009 n. 2 ed ai fini della disposizione dell’art. 13, comma 1, del d.lgs. 472/97 . In tal senso è stata disattesa la tesi difensiva secondo la quale la norma penale in questione – laddove parla di crediti non spettanti – andrebbe interpretata in senso restrittivo, pena la violazione dell’art. 25 Cost., nel senso che andrebbero considerati come “non spettanti” solo i crediti che esulano dal rapporto tributario fra contribuente ed Amministrazione finanziaria. Secondo la sentenza in esame, per contro, «il concetto di non spettanza include dal punto di vista logico, tutto ciò che non spetta, ovviamente dal punto di vista tributario; ancora, per la intenzione del legislatore di mantenere ferma la sanzionabilità dal punto di vista tributario di tutte le condotte di compensazione indebita, comprese quindi quelle eccedenti i limiti consentiti, anche se devesi dar atto che nemmeno l’art. 27 comma 18 della L. 2/09 espressamente contiene riferimenti alla ipotesi in discorso. In effetti il legislatore tributario nel mantenere tale distinzione, ha comunque operato una diversificazione del trattamento sanzionatorio tributario tra le condotte fraudolente propriamente dette (crediti inesistenti) e quelle non fraudolente, punite meno gravemente: ma è rimasto fermo il concetto che la non spettanza debba essere riferita non solo ai crediti che esulano dal rapporto tributario fra contribuente ed Amministrazione finanziaria ma anche a quelli che abbiano una attinenza con il rapporto tributario tra i detti soggetti».
1.2.6. Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte: – fondo patrimoniale e coobbligati per debito IRES maturato da società di capitali a ristretta base azionaria; – vendita di beni immobili a soci non identificabili e momento consumativo del reato di pericolo; – rapporto tra l’annullamento in sede tributaria degli atti di accertamento del debito tributario ed il fumus del reato ex art. 11 d.lgs. n. 74/2000; – dolo specifico.
Fondo patrimoniale e coobbligati per debito IRES maturato da società di capitali a ristretta base azionaria.
La Cassazione ha chiarito che «ai fini della integrazione del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, la costituzione di un fondo patrimoniale non esonera dalla necessità di dimostrare, sia sotto il profilo dell’attitudine della condotta che della sussistenza del dolo specifico di frode, che la creazione del patrimonio separato sia idonea a pregiudicare l’esecuzione coattiva e strumentale allo scopo di evitare il pagamento del debito tributario; con la conseguenza che il giudice, ove la difesa prospetti l’esistenza di beni non inclusi nel fondo e di un valore tale da costituire adeguata garanzia, deve motivare sul perché la segregazione patrimoniale rappresenta, nel caso di specie, uno strumento idoneo a rendere più difficoltoso il recupero del credito erariale» (Cass. Pen., Sez. 3, n. 9154 del 19/11/2015 Cc., dep. 04/03/2016, Rv. 266457, est. Andronio).
La pronuncia è di particolare interesse, oltre che per il principio in argomento, avendo i giudici di legittimità affermato l’astratta ipotizzabilità del delitto previsto dall’art. 11, comma 1, del d.lgs. n. 74 del 2000, rispetto ad un soggetto coobbligato per debito IRES maturato da società di capitali (s.p.a.) a ristretta base azionaria (situazione suscettibile di far presumere che le operazioni fraudolente svolte dalla società siano in realtà ascrivibili ai soci e che i relativi ricavi siano stati loro distribuiti in nero ), che compia simulate alienazioni o atti fraudolenti, sui propri o sugli altrui beni, concretamente idonei, tenuto conto della natura e dell’oggetto degli stessi, a rendere anche solo parzialmente inefficace la procedura di riscossione coattiva. Il caso atteneva ad un debito tributario per mancato pagamento dell’Ires dovuta dalla società per azioni che, per struttura familiare, poteva essere ricondotta a mero schermo, con l’ulteriore conseguenza di eliminare la separazione del patrimonio della società da quello del socio, quanto meno coobbligato in relazione al debito tributario.
Vendita di beni immobili a soci non identificabili e momento consumativo del reato di pericolo.
La Cassazione (Sez. 3, Sentenza n. 13233 del 24/02/2016 Cc., dep. 01/04/2016, Rv. 266771, est. Andreazza) ha confermato che la fattispecie penale prevista dall’art. 11, del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, ha natura di reato di pericolo. Esso è integrato in virtù della realizzazione di atti simulati o fraudolenti per occultare i propri o altrui beni al fine di sottrarsi al pagamento del debito tributario, delle sanzioni e relativi interessi; inoltre, tali atti, in base ad un giudizio ex ante, devono essere idonei a rendere in tutto o in parte inefficace l’attività recuperatoria dell’Amministrazione finanziaria. Fattispecie in cui è stata ritenuta penalmente rilevante la condotta di chi aveva realizzato la vendita di una particella immobiliare a società svizzera con soci non identificabili al solo fine di sottrarre il bene dalla procedura esecutiva promossa dall’Agenzia delle entrate.
La pronuncia merita di essere esaminata anche per altri principi con essa affermati. A fronte della doglianza difensiva di illegittima applicazione retroattiva del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente (la cui possibilità è stata, per i reati tributari, normativamente introdotta solo con l’art. 1, comma 143, della I. n. 244 del 2007 a decorrere dal 12/01/2008) rispetto al profitto di condotte ex art. 11 d.lgs. n.74/2000 realizzate, dopo il 12.1.2008, per sottrarsi ai debiti erariali maturati con riferimento all’anno di imposta 2007, la Corte di Cassazione ha ricordato che la consumazione del delitto ex art. 11 cit. «coincide non già con la data della pretesa evasione delle imposte al cui conseguimento mirano le condotte di alienazione simulata o di compimento di altri atti fraudolenti bensì con il momento in cui queste ultime siano state poste in essere; ne consegue allora che, nella specie, la data rilevante nella specie non può che essere quella del 30/07/2014 quale data dell’atto di vendita di cui sopra».
Rapporto tra l’annullamento in sede tributaria degli atti di accertamento del debito tributario ed il fumus del reato ex art. 11 d.lgs. n. 74/2000.
In merito al rapporto tra il sequestro fondato sul reato ex art. 11 d.lgs. n. 74/200 e l’annullamento degli atti di accertamento da parte della Commissione tributaria regionale, si sono registrate distinte pronunce della Cassazione.
A fronte dell’annullamento dell’avviso di accertamento da parte della Commissione tributaria di primo grado, nel rigettare l’eccezione di illegittimità del provvedimento di sequestro per non debenza delle imposte richieste, per sottrarsi al cui pagamento era stato realizzato l’atto simulato o fraudolento, la Corte di Cassazione (n. 13233/2016, cit.) ha offerto significative indicazioni, a proposito della natura del reato di pericolo concreto e della condotta modale che lo contraddistingue . Da esse «discende che il fatto che, nella specie, sia intervenuto annullamento dell’avviso di accertamento (omissis), tanto più in quanto non si afferma in ricorso essere tale sentenza passata in giudicato, non può significare il venir meno del fumus del reato proprio perché da valutare, quest’ultimo, in funzione alla natura dell’illecito, che non richiede neppure una previa azione di recupero da parte dell’amministrazione finanziaria (da ultimo, tra le altre, Sez. 3, n. 39079 del 09/04/2013, Barei e altro, Rv. 256376)… e che si caratterizza semplicemente per il detrimento che le ragioni dell’Erario possono subire per effetto di condotte insidiose ed “oblique” rispetto a pretese, pur se ancora in nuce, esercitabili dall’Amministrazione».. ». Anche in precedenza (Cass., Sez. 3, n. 40534 del 06/05/2015 Cc., dep. 09/10/2015, Rv. 265036, est. Andronio) la Corte di legittimità, rispetto a sentenze della Commissione tributaria regionale che avevano annullato gli accertamenti dei debiti tributari rispetto ai quali era contestata la fattispecie di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 74 del 2000, aveva rilevato «che le stesse, pur essendo provvisoriamente esecutive, non fanno venire meno in via definitiva la pretesa tributaria, essendo soggette ad impugnazione con ricorso per cassazione». La Cassazione aveva valorizzato la circostanza che non emergeva dalla documentazione prodotta che l’Agenzia delle entrate o Equitalia avessero dichiarato in via definitiva l’insussistenza del debito, essendosi limitate a prendere atto delle richiamate sentenze, «che impediscono, ma solo allo stato attuale, la riscossione».
Con diversa sentenza (Sez. 3, n. 39187 del 02/07/2015 Cc. , dep. 28/09/2015, Rv. 264789, est. Scarcella A.), la Cassazione aveva però affermato il principio che se «in tema di reati tributari, il profitto, confiscabile anche per equivalente, del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, va individuato nel valore dei beni idonei a fungere da garanzia nei confronti dell’Amministrazione finanziaria che agisce per il recupero delle somme evase», «lo stesso non è configurabile, e non è quindi possibile disporre o mantenere il sequestro funzionale all’ablazione, in caso di annullamento della cartella esattoriale da parte della commissione tributaria, con sentenza anche non definitiva, e di correlato provvedimento di “sgravio” da parte dell’Amministrazione finanziaria» . Secondo tale pronuncia, in particolare, è l’intervenuto sgravio delle somme di cui all’avviso di accertamento che «renderebbe privo di qualsiasi giustificazione “allo stato” (secondo la peculiare natura del giudizio cautelare, necessariamente rebus sic stantibus) il mantenimento del sequestro in assenza dì qualsivoglia “attuale” pretesa erariale, sembrando non esservi infatti nell’attualità nulla da salvaguardare a seguito non solo dell’annullamento degli avvisi di accertamento ma anche del conseguente provvedimento di “sgravio” del debito tributario, ciò che manifesterebbe l’assenza, appunto, attuale, di pretese erariali, rendendo quindi illegittimo il sequestro funzionale alla confisca per equivalente di un profitto, in atto, inesistente» .
Dolo specifico.
La Corte di Cassazione (Sez. 3, Sentenza n. 27143 del 22/04/2015 Cc., dep. 30/06/2015, Rv. 264187, Est. G. Andreazza) ha confermato che «il reato previsto dall’art. 11 D.Lgs. 74 del 2000 è caratterizzato dal dolo specifico, che ricorre quando l’alienazione simulata o il compimento di altri atti fraudolenti, idonei a rendere inefficace la procedura di riscossione coattiva, siano finalizzati alla sottrazione “al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrativi relativi a dette imposte». In applicazione del principio, la Corte, annullando con rinvio, ha escluso che sia configurabile il dolo specifico con riferimento alla vendita simulata di un bene il cui corrispettivo venga adoperato per saldare un debito tributario, salva l’evenienza che il corrispettivo versato sia inferiore al valore reale del bene compravenduto.
1.3. Posizioni soggettive nei reati tributari.
1.3.1. Il liquidatore “illiquido”: casistica.
In relazione ad un sequestro preventivo per equivalente in relazione al reato ex art. 10-ter d.lgs.n. 74/2000 a carico di liquidatore di società di capitale solo al momento della scadenza del termine penale per il versamento dell’imposta, preceduto da diverso amministratore e da altri liquidatori che avevano presentato la dichiarazione Iva, la Corte di Cassazione ha ritenuto rilevante e fondato il motivo di ricorso con cui era stata lamentata la mancata valutazione della circostanza che il carente pagamento di quanto dovuto a titolo di Iva non era stato il risultato di una scelta autonoma e discrezionale di chi ricopriva la carica di liquidatore della società al momento della scadenza, ma condizione obbligata scaturente dalla carenza, nel breve periodo, di ogni forma di liquidità dovuta al mancato accantonamento dell’Iva da parte di chi lo aveva preceduto. Ad avviso della Cassazione (Sez. 3, 5190 del 7.1.2015, dep. 4.2.2015, est. Andreazza) il giudice di merito era incorso in una motivazione apparente allorché aveva richiamato la caratterizzazione dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 10-ter cit. in termini di dolo generico, limitandosi ad affermare che il liquidatore aveva avuto «a disposizione un congruo tempo per far fronte all’adempimento fiscale in questione» (in concreto il periodo di tempo trascorso dalla nomina alla scadenza del termine penale per il versamento era risultato di cinque mesi), così dando per presupposta la non imputabilità al medesimo della mancanza di liquidità al momento della sua nomina e superando tale dato mediante la valorizzazione di una condotta omissiva (nel periodo decorrente dalla assunzione della carica di liquidatore, non avere provveduto ad acquisire, successivamente alla dichiarazione Iva da altri effettuata, liquidità da versare al momento della scadenza), senza aver chiaro se il liquidatore avesse, al momento della sua nomina, adempiuto o meno, e con quali esiti, al controllo sugli adempimenti fiscali tenuti dai precedenti amministratori.
Quest’ultimo aspetto risulta valorizzato da altra pronuncia della Cassazione (Sez. 3, 50209 del 29.4.2015, dep. 23.12.2015, est. Grillo) allorché ha confermato il principio secondo il quale «in tema di omesso versamento di IVA, il soggetto che subentri ad altri nella carica di liquidatore di una società di capitali dopo la presentazione della dichiarazione di imposta e prima della scadenza del versamento, senza compiere il previo controllo di natura puramente contabile sugli ultimi adempimenti fiscali, risponde del reato di cui all’art. 10-ter del D.Lgs. n. 74 del 2000 quantomeno a titolo di dolo eventuale. (ex multis Sez. 3^ 4.6.2014 n. 38687, Decataldo, Rv.260390)».
In termini analoghi cfr. Cass. Pen., Sez, 3, 34927 del 24.6.2015, dep. 18.8.2015, Rv. 264882 , che segnala come «in tutti i casi esaminati da questa Corte di legittimità si riferiscono proprio ad omessi versamenti a fronte di dichiarazioni operate dal precedente amministratore. In quei casi, come in questo, non si verteva, cioè, in materia di debito verso l’Erario particolarmente remoto, occulto o di difficile accertamento poiché si trattava dell’IVA dovuta sulla base dell’ultima dichiarazione e quindi era sufficiente, prima di assumere la carica di amministratore o di liquidatore, di chiedere in visione la dichiarazione e l’attestato di versamento all’erario dell’IVA a debito per adempire nel termine stabilito al pagamento dell’obbligazione tributaria». Viene così ribadito «che l’assunzione della carica di amministratore o di liquidatore comporta, per comune esperienza, una minima verifica della contabilità, dei bilanci e delle ultime dichiarazioni dei redditi, per cui, ove ciò non avvenga, è evidente che colui che subentra nelle quote e assume la carica si espone volontariamente a tutte le conseguenze che possono derivare da pregresse inadempienze. Il nuovo amministratore o il liquidatore, in altri termini, deve chiedere di visionare la documentazione fiscale – omissis – e ci sono verifiche assai semplici e coincidenti con i minimi riscontri d’obbligo che devono essere eseguiti prima del subentro nella carica in difetto delle quali egli accetta il rischio che ci possa essere qualcosa che non va di cui è chiamato a rispondere anche penalmente».
La Corte di Cassazione (Sez. 3, n.5291 de 29.10.2014, dep. 10.2.2015, est. Andreazza), ha accolto il ricorso di un liquidatore rispetto ai reati ex art 10-ter d.lgs. n. 74/2000 riferiti ai periodi di imposta 2009 e 2010. In particolare, nominato a novembre 2010, aveva presentato dopo solo quaranta giorni ricorso per il fallimento della società, maturando la convinzione che, per il periodo di imposta 2009, sarebbe stato il curatore a decidere come e quando disporre della cassa (capiente rispetto al debito tributario del 2009) verso i vari creditori, tra cui l’Erario, non privilegiato rispetto agli altri, per evitare di incorrere nel reato di bancarotta preferenziale. Quanto all’omesso versamento per l’anno di imposta 2010, alla data di scadenza dell’obbligo, egli non era più legale rappresentante della società, essendo subentrato il curatore fallimentare.
Con riferimento a tale ultima prospettazione la Corte di Cassazione ha ricordato che «il reato di cui all’art. 10 ter del d. lgs. n. 74 del 2000 ha natura istantanea, consumandosi lo stesso nel momento in cui scade il termine previsto dalla legge per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo, sicché è necessario che l’omissione del versamento dell’Iva dovuta in base alla dichiarazione si protragga fino al 27 dicembre dell’anno successivo al periodo di imposta di riferimento, giusta quanto disposto dall’art. 6, comma 2, della I. 29 dicembre 1990, n. 405 (cfr., tra le altre, Sez. 3, n. 12248 del 22/01/2014, P.M. in proc. Faotto e altri, Rv. 259808; Sez. 3, n. 38619 del 14/10/2010, P.g. in proc. Mazzieri, Rv. 248626). Inoltre deve ribadirsi che il reato in oggetto presenta natura giuridica di reato proprio, posto che, seppure la norma, nell’individuare il soggetto attivo, si riferisce a «…”chiunque” non versa l’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo», la condotta illecita è tuttavia integrabile unicamente dai “soggetti Iva”, imprenditori e lavoratori autonomi, che effettuano le cessioni di beni e le prestazioni di servizi per le quali è dovuta l’imposta (in particolare, si vedano gli artt. 1 “Operazioni imponibili” e 17 “Soggetti passivi”, del d.P.R. n. 633 del 1972), per le società od enti rispondendo il legale rappresentante (cfr., ancora, Sez.3, n. 38619 del 14/10/2010, cit.)». Nel caso concreto, risultava che la dichiarazione di fallimento della società, con nomina del curatore fallimentare, era intervenuta in data 07/04/2011 e dunque alla data del 27/12/2011 (termine ultimo per effettuare il versamento Iva) l’indagato non era più legale rappresentante e non incombeva sul medesimo l’obbligo di versamento Iva, l’ordinanza impugnata non prefigurando, per altra via (pure, in astratto, possibile), neppure un concorso dello stesso quale extraneus nel reato proprio.
Diversa la situazione in relazione all’addebito riguardante l’omissione di versamento relativa all’anno 2009. In tal caso, infatti, la Corte di Cassazione ha riconosciuto l’esistenza di una causa di giustificazione putativa a favore del’indagato, sebbene lo stesso alla data del 27/12/2010 (termine ultimo per fare fronte all’adempimento di legge) ricoprisse la carica di legale rappresentante (nella veste di liquidatore nominato il 09/11/2010) della società, dichiarata fallita il 7.4.2011, ma per cui già in data 28/6/2010 l’assemblea dei soci aveva deliberato la “richiesta di fallimento in proprio stante il constatato, irreversibile, stato di insolvenza”. In particolare, la Corte regolatrice ha considerato che l’indagato avesse «ragionevolmente ritenuto, sia pure errando quanto alla circostanza fattuale del non ancora intervenuto fallimento, di non potere procedere al versamento Iva, tanto più a fronte, diversamente, della possibilità di incorrere nel reato di bancarotta preferenziale configurabile anche, per legge, con riguardo ai pagamenti (come, nella specie, gli stessi sarebbero stati) prefallimentari». In altri termini, rilevato che era incontroverso che, al momento della scadenza, nella casse sociali giacessero liquidità tali da consentire il versamento del debito Iva, la Corte ha ritenuto che sussistesse, nella specie, in capo all’indagato, il legittimo convincimento «che la regola della par condicio creditorum di cui agli artt. 51 e 52 della legge fall. gli imponesse di non procedere, in tal modo trattando in maniera preferenziale l’Erario rispetto ai restanti creditori privilegiati, al pagamento del debito, così essendosi integrata, sia pure nei termini putativi contemplati dall’art. 59, comma 4, c.p., la causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p.» .
Sempre in tema di reati tributari ascritti al liquidatore di società di capitali, la Corte di Cassazione ha chiarito che «può rispondere, in relazione alle dichiarazioni annuali presentate dopo il suo insediamento, dei reati di cui agli artt. 2 e 4 del D.Lgs. 3 ottobre 2000, n. 74, purché emergano elementi dai quali poter desumere quanto meno la sussistenza del dolo eventuale, e dunque la conoscenza o conoscibilità, attraverso una diligente verifica della contabilità e dei bilanci, della fittizietà delle poste e della falsità delle fatture inserite nella dichiarazione (Cass. Pen., Sez. 3, n. 30492 del 23/06/2015 Cc., dep. 15/07/2015,Rv. 264395). E’ certo vero che nelle società di capitali, la responsabilità per i reati previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, è attribuita all’amministratore (individuato secondo i criteri ex art. 2380 c.c. e ss., art. 2455 c.c., e art. 2475 c.c.), ovvero a coloro che rappresentano e gestiscono l’ente e, in quanto tali, sono tenuti a presentare e sottoscrivere le dichiarazioni rilevanti per l’ordinamento tributario (D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, lett. c ed e), adempiendo agli obblighi conseguenti. Alla medesima disciplina soggiace il liquidatore ex artt. 2276 e 2489 c.c., nominato in caso di scioglimento della società, passibile della responsabilità per i delitti previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, in virtù della espressa previsione dell’articolo 1, comma 1, lett. c), del decreto in combinazione con le norme che ne definiscono poteri e responsabilità. Ed è altrettanto vero che la Corte di legittimità ha reiteratamente affermato la responsabilità per i reati tributari connessi alla carica sia in relazione alla figura dell’amministratore di società (sez. 3, n. 3636 del 9.10.2013 dep. il 27.1.2014, Stocco, rv. 259092) che del liquidatore che subentri ad altri nella carica dopo la presentazione della dichiarazione di imposta e prima della scadenza del versamento (sez. 3, n. 39687 del 4.6.2014, Decataldo, rv. 260390) . «Tuttavia nei casi esaminati si era in presenza di omessi versamenti a fronte di dichiarazioni operate dal precedente amministratore. O può ipotizzarsi una situazione analoga nel caso di omesse dichiarazioni. In quei casi non si verteva, cioè, in materia di debito verso l’Erario particolarmente remoto, occulto o di difficile accertamento poiché si trattava dell’IVA dovuta sulla base dell’ultima dichiarazione e quindi era sufficiente, prima di assumere la carica di amministratore o di liquidatore, di chiedere in visione la dichiarazione e l’attestato di versamento all’erario dell’IVA a debito per adempire nel termine stabilito al pagamento dell’obbligazione tributaria. . Nel caso in diretto esame, invece, si ipotizzavano reati di cui agli artt. 4 e 2 del DLgs 74/2000 che non consentivano riscontri immediati, come quelli delle somme da versare in base alle effettuate dichiarazioni, come per i casi richiamati, esaminati in passato dalla Corte di legittimità. Ed allora, per essi s’impone un onere di motivazione in concreto più stringente «in ordine alla sussistenza del dolo quanto meno eventuale, cioè della conoscenza o della conoscibilità, attraverso una diligente verifica della contabilità e dei bilanci, ovvero da altri elementi desumibili dalle compiute indagini preliminari, della fittizietà delle poste e della falsità delle fatture inserite in dichiarazione».
1.3.2. L’amministratore di fatto e il prestanome.
E’ stato chiarito che «in tema di reati tributari, ai fini della attribuzione ad un soggetto della qualifica di amministratore “di fatto” non occorre l’esercizio di “tutti” i poteri tipici dell’organo di gestione, ma è necessaria una significativa e continua attività gestoria, svolta cioè in modo non episodico od occasionale (Cass. Pen, Sez. 3, n. 22108 del 19/12/2014 Cc., dep. 27/05/2015, Rv. 264009, est. Scarcella)». In particolare, la Cassazione ha rimarcato che «la titolarità della maggioranza, anche se pressoché totalitaria, del capitale sociale non può di per sé essere equiparata all’amministrazione di fatto, essendo a tal fine necessaria la concreta sussistenza di un effettivo potere di gestione della società (Sez. 5, n. 87 del 28/11/1966, Bertolotto, Rv. 103107; Sez. 5, n. 1184 del 09/10/1967, Panza, Rv. 106197; Sez. 5, n. 1361 del 04/12/1967, Zigiotti, Rv. 106933; Sez. 5, n. 542 del 10/11/1972, D’Alessio, Rv. 123016). Tale potere deve estrinsecarsi nell’esercizio concreto e con un minimo di continuità delle funzioni proprie degli amministratori o una di esse, coordinata con le altre. Amministratore di fatto, non può perciò essere “sic et simpliciter” ritenuto colui che si ingerisca comunque, genericamente o “una tantum” nell’attività sociale. Avuto riguardo all’oggetto dell’attività degli amministratori di una società di capitali, tra dette funzioni deve considerarsi in primo luogo il controllo della gestione della società sotto il profilo contabile ed amministrativo; a questa va poi aggiunta la stessa gestione con riferimento sia all’organizzazione interna che alla attività esterna costituente l’oggetto della società; e in particolare, con riferimento ad entrambe, la formulazione di programmi, la selezione delle scelte e la emanazione delle necessarie direttive; con riguardo all’organizzazione interna non deve poi prescindersi dai necessari poteri deliberativi i cui effetti si riflettono sull’attività esterna, mentre nell’ambito di quest’ultima deve tenersi conto delle funzioni di rappresentanza (Sez. 5, n. 1154 del 08/10/1991, Rapisarda, Rv. 191212)». Per delineare la figura dell’amministratore di fatto, quindi, è stato ritenuto necessario attingere ai criteri stabiliti dall’art. 2639, cod. civ., «che, pur essendo norma di più recente introduzione, dettata per i reati in materia di società e consorzi di cui al titolo XI del libro V del codice civile, ha di fatto codificato gli approdi giurisprudenziali che l’avevano preceduta (cfr. Sez. 1, n. 18464 del 12/05/2006, Ponciroli, Rv. 234254)». L’amministratore di fatto è dunque «colui il quale eserciti in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione. In linea con quanto già affermato da Sez. 5, n. 1154 del 1991, cit., “significatività” e “continuità” non comportano necessariamente l’esercizio di “tutti” i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiedono l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico od occasionale (Sez. 5, n. 43300 del 17/10/2005, Carboni, Rv. 232456; Sez. 5, n. 35346 del 20/06/2013, Tarantino, Rv. 256534)».
La Corte di Cassazione ha poi ribadito che «del reato di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette o IVA, l’amministratore di fatto risponde quale autore principale, in quanto titolare effettivo della gestione sociale e, pertanto, nelle condizioni di poter compiere l’azione dovuta, mentre l’amministratore di diritto, quale mero prestanome, è responsabile a titolo di concorso per omesso impedimento dell’evento (artt. 40, comma secondo, cod. pen. e 2932 cod. civ.), a condizione che ricorra l’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice (Cass. Pen., Sez. 3, n. 38780 del 14/05/2015 Ud., dep. 24/09/2015, Rv. 264971, est. Scarcella, in linea con Sez. 3, n. 23425 del 28/04/2011 – dep. 10/06/2011, Ceravolo, Rv. 250962). In presenza di prestanomi è stata tradizionalmente ritenuta irrilevante l’etichetta per privilegiare il concreto espletamento della funzione. Come ricorda la Cassazione, «tale orientamento costituisce il recepimento sul piano positivo del cosiddetto criterio funzionalistico o dell’effettività in forza del quale il dato fattuale della gestione sociale deve prevalere sulla qualifica formalmente rivestita ovviamente quando alla qualifica non corrisponda l’effettivo svolgimento delle funzioni proprie della qualifica, come avvenuto nella fattispecie. L’equiparazione degli amministratori di fatto a quelli formalmente investiti è stato affermata da questa Corte sia nella materia civile che in quella penale e tributaria (Cfr., nella materia civile: Cass. 5 dicembre del 2008 n. 28819; 12 marzo 2008, n. 6719; Sez. un. civile 18 ottobre 2005 n. 2013; in quella penale, per tutte: Cass. 7203 del 2008, Cass. n. 9097 del 1993 e, per le violazioni tributarie, cfr. Cass. Sez. trib., n. 21757 del 2005 nonchè Cass. pen. n. 2485 del 1995)». Limitando l’indagine alla responsabilità dell’amministratore di fatto nei reati omissivi propri formalmente imputabili al prestanome, in base ai principi dianzi esposti, «il vero soggetto qualificato non è il prestanome ma colui il quale effettivamente gestisce la società perché solo lui è in condizione di compiere l’azione dovuta, mentre l’estraneo è il prestanome. A quest’ultimo una corresponsabilità può essere imputata solo in base alla posizione di garanzia di cui all’art. 2392 cod. civ., in forza della quale l’amministratore deve conservare il patrimonio sociale ed impedire che si verifichino danni per la società e per i terzi». Nelle occasioni in cui la Corte di Cassazione si è occupata di reati, anche omissivi, commessi in nome e per conto della società, ha individuato nell’amministratore di fatto il soggetto attivo del reato e nel prestanome il concorrente per non avere impedito l’evento che in base alla norma citata aveva il dovere di impedire. Proprio perché il più delle volte il prestanome non ha alcun potere d’ingerenza nella gestione della società per addebitargli il concorso, la Corte di Cassazione «ha fatto ricorso alla figura del dolo eventuale; si è sostenuto cioè che il prestanome accettando la carica ha anche accettato i rischi connessi a tale carica (cfr. Cass. 26 gennaio 2006, n. 7208; Cass. 6 aprile 2006, n. 22919, Cass. 26 novembre 1999, Dragomir, Rv 215199). Si può discutere se ed entro quali limiti la mera assunzione della carica possa giustificare l’affermazione di responsabilità anche del prestanome, ma è fuori discussione che l’autore principale è colui che, sia pure di fatto, ha l’amministrazione della società». Con specifico riferimento al reato ex art. 5 d.lgs. n. 74/2000, «si deve rilevare che, a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 1 i soggetti obbligati alla presentazione della dichiarazione sono tutti i soggetti che possiedono redditi anche se non consegue alcun debito d’imposta e coloro che sono obbligati alla tenuta delle scritture contabili. In base al D.P.R. n. 322 del 1998, art. 1, comma 4, la dichiarazione dei soggetti diversi dalle persone fisiche è sottoscritta a pena di nullità dal rappresentante legale e, in mancanza, da chi ne ha l’amministrazione, anche di fatto, o da un rappresentante negoziale. Il rappresentante legale si deve considerare mancante, non solo quando manca la nomina, ma anche in presenza di un prestanome che non ha alcun potere o ingerenza nella gestione della società e, quindi, non è in condizione di presentare la dichiarazione perché non dispone dei documenti contabili detenuti dall’amministratore di fatto. In tale situazione l’intraneo è colui che, sia pure di fatto, ha l’amministrazione della società mentre al prestanome il fatto potrebbe essergli addebitato a titolo di concorso a norma dell’art. 2392 c.c. e art. 40 cpv. c.p. a condizione che ricorra l’elemento soggettivo proprio del singolo reato. Tale principio si riscontra anche in materia di sanzioni amministrative tributarie. Il D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 11 parifica il legale rappresentante all’amministratore di fatto sancendo formalmente la diretta responsabilità per le sanzioni anche degli amministratori di fatto. Il principio dell’equiparazione dell’amministratore di fatto a quello di diritto è stato recentemente recepito dal legislatore in occasione della riforma del diritto societario. Dispone l’art. 2639 c.c., introdotto con il D.Lgs. n. 6 del 2003, che per i reati societari previsti dal titolo quindicesimo del libro quinto del codice civile al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge è equiparato chi esercita in materia continuativa i poteri previsti dalle legge. La norma, ancorché riferita esplicitamente ai reati societari previsti dal codice civile, contiene la codificazione di un principio generale applicabile ad altri settori penali dell’ordinamento e per la sua natura interpretativa è applicabile anche ai fatti pregressi (sull’applicabilità ai fatti pregressi cfr. in motivazione Cass. n. 7203 del 2008). Tale principio incide non solo sulla configurabilità del concorso dell’amministratore di fatto nei reati commissivi, ma anche in quelli omissivi propri, nel senso che autore principale del reato è proprio l’amministratore di fatto, salva la partecipazione di estranei all’amministrazione secondo le regole del concorso di persone nel reato».
1.3.3. Il socio amministratore di s.n.c., il consulente fiscale e il contribuente che si affida al professionista: – socio amministratore di s.n.c. non sottoscrittore della dichiarazione; consulente fiscalista e concorso nel reato di cui all’art. 5, d.lgs. n. 74/2000 da esterovestizione; contribuente che si affida al professionista.
Socio amministratore di s.n.c. non sottoscrittore della dichiarazione.
Secondo la Cassazione (Sez. 3, n. 50201 del 28/04/2015 Ud., dep. 22/12/2015, Rv. 265936, est. R. Grillo, Annulla con rinvio, App. Milano, 16/07/2014)) «ai fini della configurabilità del reato di dichiarazione infedele (di cui all’art. 4 D.Lgs. 74 del 2000), nell’ipotesi di società in nome collettivo in cui i poteri di amministrazione spettano ai soci in modo disgiunto, la sottoscrizione della dichiarazione da parte di un socio, in assenza di un conferimento di delega in materia fiscale in via esclusiva ad uno di essi, non esonera automaticamente gli altri da responsabilità, essendo comunque necessario accertare, in concreto, se e quale tipo di attività gestionale venga svolta dagli altri soci nella specifica materia fiscale». Nel fattispecie, l’imputato, socio amministratore di una società in nome collettivo riteneva dirimente a favore del riconoscimento della sua non responsabilità il fatto di non aver sottoscritto la dichiarazione fiscale, in effetti firmata da diverso amministratore, provvisto di pari poteri. Il giudice di merito non aveva accertato un concreto contributo alla commissione del reato, avendo richiamato un’isolata pronuncia (Sez. 3^ 17.5.1991 n. 7167, P.C. in proc. Pizzicannella, Rv.188170) secondo la quale «in tema di reati tributari (nella specie infedele dichiarazione dei redditi), qualora i soci di una società in nome collettivo abbiano, in assenza di una specifica previsione contenuta nell’atto costitutivo, la responsabilità della amministrazione disgiunta della società, se ad uno solo di essi vengono delegate le incombenze fiscali, gli altri soci non sono responsabili delle infrazioni commesse». In effetti, anche in altre decisioni della Suprema Corte, risalenti nel tempo, come riconosciuto nella recente occasione, si afferma che solo una delega ufficiale conferita ad un soggetto diverso da quello astrattamente tenuto alla dichiarazione fiscale esonera quest’ultimo da responsabilità (v. oltre a Sez. 3^ 7167/91 cit. anche Sez. 3^ 7.6.1991 n. 7209, Pisano, Rv. 188177). Ritenuto che dagli atti non emergesse la prova che ad uno dei soci fossero state delegate le intere incombenze fiscali, tanto era bastato al giudice di merito per ritenere responsabile l’amministratore non sottoscrittore. La Cassazione, per contro, ha censurato come insufficiente ed illogica tale motivazione assumendo necessaria la verifica della ricezione da parte del socio firmatario di un un’esplicita delega per la gestione in via esclusiva della intera materia fiscale riguardante la società e soprattutto del preciso contributo attivo, al di là del mero ruolo di amministratore, svolto dal socio non firmatario nella commissione del fatto allo stesso ascritto. Sebbene il delitto ex art. 4 d.lgs. n. 74/2000 non sia un reato proprio (in quanto è realizzabile da chiunque) «è però evidente che il soggetto attivo del reato è colui che inserisce all’interno della dichiarazione fiscale per l’anno di riferimento elementi passivi fittizi o comunque dati che rendono quella dichiarazione infedele; non è naturalmente escluso che altri soggetti diversi dal materiale sottoscrittore della dichiarazione possano concorrere nel reato, come per esempio accade nella ipotesi in cui la dichiarazione infedele venga materialmente compilata dal consulente fiscale su incarico del contribuente (così Sez. 3^ 9.1.1991 n. 1781, Bacchi, Rv. 186430 in cui si parla anche della eventualità di un concorso [oltre che doloso] anche “colposo” del professionista).
Consulente fiscalista e concorso nel reato di cui all’art. 5, d.lgs. n. 74/2000 da esterovestizione.
Rispetto a fattispecie in cui è stata esclusa la responsabilità di terzi, tra cui figure di consulente commercialista/fiscalista di gruppo societario, a titolo di concorso nel reato di cui all’art. 5, d. lgs. n. 74 del 2000, per la collaborazione, con i soggetti sottoposti all’obbligo dichiarativo, nella “esterovestizione” di società cui imputare i profitti da sottrarre alla imposizione fiscale, la Cassazione ha ribadito che «in materia tributaria, il delitto di omessa dichiarazione dei redditi o Iva è reato omissivo proprio, che può essere commesso solo da chi, secondo la legislazione fiscale, è obbligato alla relativa presentazione; con la conseguenza che, salve le ipotesi di costringimento fisico e di errore determinato dall’altrui inganno, il concorso nel reato è ipotizzabile solo in forma morale, quando cioè chi vi è obbligato ha omesso di presentare la dichiarazione perché istigato o rafforzato nelle sue intenzioni o in attuazione di un accordo intercorso con altri soggetti. (Sez. 3, n. 43809 del 24/10/2014 Ud., dep. 30/10/2015, Rv. 265121, est. Aceto). La Corte di legittimità ha ritenuto che la responsabilità ipotizzata dall’accusa si basava sul ruolo formalmente e sostanzialmente disimpegnato nell’ambito attribuzioni di competenza nella esterovestizione L’unica causa di corresponsabilità derivava cioè dalla collaborazione offerta al management dell’impresa, «per aver ideato, progettato, attuato l’esterovestizione della società tenendo comportamenti coerentemente espressivi del relativo management ad essi riconducibile sotto ogni profilo». La Cassazione, in proposito, ha escluso qualsiasi relazione causale tra le condotte (rectius: ruoli e qualifiche) ascritte ai correi e la volontà istantanea e unisussistente dell’amministratore di non presentare le dichiarazioni dei redditi in Italia che si consuma alla scadenza del termine stabilito per l’adempimento. «La decisione di omettere l’azione antidoverosa, quando non condizionata da costringimento fisico o errore indotto (incontestabilmente esclusi nel caso di specie), appartiene al dominio finalistico dell’autore sicché la libera volontà che in esso si esprime non si pone in relazione di causa-effetto con condotte altrui. Il concorso di persone è dunque configurabile solo in forma morale, sotto il profilo della istigazione o dell’accordo a non compiere quella specifica condotta (nel caso di specie la mancata presentazione in Italia delle dichiarazioni annuali indicate nella rubrica), non altre».
Contribuente che si affida al professionista.
In tema di reati tributari, «l’affidamento ad un professionista dell’incarico di predisporre e presentare la dichiarazione annuale dei redditi non esonera il soggetto obbligato dalla responsabilità penale per il delitto di omessa dichiarazione (art. 5, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74), in quanto, trattandosi di reato omissivo proprio, la norma tributaria considera come personale ed indelegabile il relativo dovere; tuttavia, la prova del dolo specifico di evasione non deriva dalla semplice violazione dell’obbligo dichiarativo nè da una “culpa in vigilando” sull’operato del professionista che trasformerebbe il rimprovero per l’atteggiamento antidoveroso da doloso in colposo, ma dalla ricorrenza di elementi fattuali dimostrativi che il soggetto obbligato ha consapevolmente preordinato l’omessa dichiarazione all’evasione dell’imposta per quantità superiori alla soglia di rilevanza penale» (Cass. Pen., Sez. 3, n. 37856 del 18/06/2015 Ud. , dep. 18/09/2015, Rv. 265087). In motivazione, la Corte ha ricordato che «l’obbligo della presentazione della dichiarazione dei redditi incombe direttamente sul contribuente e, in caso di persone giuridiche, su chi ne abbia la legale rappresentanza, tenuto a sottoscrivere la dichiarazione a pena di nullità (art. 1, comma 4, d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322). Il fatto che il contribuente (la persona giuridica nel caso di specie) possa avvalersi di persone incaricate della materiale predisposizione e trasmissione della dichiarazione (art. 3, commi 3 e 3-bis, d.P.R. n. 322 del 1998, cit.) non vale a trasferire su queste ultime l’obbligo dichiarativo che fa carico direttamente al contribuente il quale, in caso di trasmissione telematica della dichiarazione, è comunque obbligato alla conservazione della copia sottoscritta della dichiarazione (art. 1, comma 6, d.P.R. n. 322 del 1998). L’adempimento formale, dunque, fa carico al contribuente il quale deve essere a conoscenza delle relative scadenze e può anche giovarsi, a fini penali, del termine di 90 giorni concesso dalla legge in caso di infruttuoso superamento del termine (artt. 2, comma 7, d.P.R. n. 322 del 1998 e 5, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000). Ne consegue che il sol fatto di aver affidato ad un professionista, già incaricato della tenuta della contabilità, il compito di predisporre e trasmettere la dichiarazione dei redditi, non è circostanza che giustifica di per sé la violazione dell’obbligo o possa escludere la consapevolezza della inutile scadenza del termine. Solo la forza maggiore può giustificare tale omissione (Sez. 3 n. 3928 del 25/02/1991, Rv. 186784), ma nella valutazione della sua sussistenza non si può prescindere dal fatto che il contribuente ha, come detto, 90 giorni di tempo dalla scadenza del termine per adempiere all’obbligo». Nondimeno, la Cassazione ha rimarcato che per la consumazione del reato di omessa dichiarazione dei redditi è necessario il dolo specifico di evasione, poiché la semplice violazione dell’obbligo dichiarativo non basta, essendo necessaria non solo l’effettiva evasione (superiore al quantum previsto dalla norma, ritenuto da questa Corte di cassazione elemento costitutivo del reato) ma anche la prova che l’omessa dichiarazione sia preordinata proprio all’evasione dell’imposta e per le quantità superiori alla soglia della rilevanza penale, nella consapevolezza del loro ammontare. Se non è sufficiente a tal fine il richiamo alla “culpa in vigilando”, che trasforma il rimprovero per l’atteggiamento antidoveroso da doloso in colposo, né al “dolus in re ipsa”, sebbene non sia illogico «trarre dai dati fattuali a disposizione dei giudici di merito la prova della effettiva sussistenza di tale consapevole volontà».
1.4. Le vicende del reato e della pena.
1.4.1. Circostanza attenuante del pagamento del debito tributario (ante riforma del 2015): adesione all’accertamento ed integrale estinzione dell’obbligazione tributaria.
Con riferimento all’attenuante del pagamento del debito tributario (in origine prevista dall’art. 13 d.lgs. n. 74/2000 , norma trasfusa, a seguito della riforma del 2015, nell’articolo 13-bis d.lgs. n. 74/2000) la Cassazione ha ribadito l’insegnamento alla cui stregua essa «non è applicabile in caso di adesione all’accertamento, atteso che il suo riconoscimento è subordinato all’integrale estinzione dell’obbligazione tributaria mediante il pagamento anche in caso di espletamento delle speciali procedure conciliative previste dalla normativa fiscale (Sez. 3, n. 11352 del 10/02/2015 Ud., dep. 18/03/2015, Rv. 262784, est. Pezzella). Come ha ricordato la pronuncia in esame, «il D.Lgs. n. 74 del 2000, introducendo all’art. 13 la circostanza attenuante speciale del pagamento del debito tributario, prevede che le pene previste per i delitti di cui allo stesso decreto siano diminuite fino alla metà e che non si applichino le pene accessorie indicate nell’articolo 12 se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei delitti medesimi sono stati estinti mediante pagamento, anche a seguito delle speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie. Ciò posto, è il dettato stesso della norma, laddove si richiede appunto la estinzione del debito, a far ritenere che presupposto necessario del trattamento sanzionatorio più favorevole sia l’integrale pagamento di quanto dovuto all’Erario, non essendo dunque sufficiente la mera ammissione al provvedimento di rateazione intervenuta prima della dichiarazione di apertura del dibattimento. Del resto – com’è stato ripetutamente sottolineato da questa Corte di legittimità (cfr. ex plurimis sent. 37748/2014) anche sotto il profilo della ratio della norma, la condotta meritevole del trattamento premiale è solo quella effettivamente idonea ad apportare un beneficio in termini patrimoniali all’Erario, non apparendo significativo sotto tale profilo il mero provvedimento di ammissione alla rateazione posto che l’interessato, una volta ammesso alla rateazione, ben potrebbe restare inadempiente rispetto al pagamento della singole rate». Ed «anche in caso di procedure conciliative o di adesione, presupposto della applicabilità della circostanza attenuante è l’intervenuta integrale estinzione del debito d’imposta (cfr. sez. 3, n. 30580 del 13.5.2004, Pisciotta, rv. 229355; conf. sez. 3, n. 176 del 5.7.2012 dep. 7.1.2013, Zorzi rv. 254146; conf. sez. 3 n. 37748 del 16.7.2014, rv. 260189; sez. 3, n. 5681 del 27.11.2013, Crocco, rv. 258691). L’attenuante in questione, non è applicabile, in altri termini, in caso di rateizzazione del debito di imposta già iscritto a ruolo e indicato nella cartella di pagamento, atteso che il riconoscimento del beneficio è subordinato all’integrale ed effettiva estinzione dell’obbligazione tributaria. E l’avvenuto puntuale pagamento delle eventuali rate già scadute non garantisce certamente il pagamento delle successive rate a scadere».
1.4.2. La prescrizione delle grandi frodi IVA: lo stato dell’arte.
Con la sentenza 8 settembre 2015 la Grande Camera della Corte di Lussemburgo ha dichiarato che il combinato disposto dell’art. 160, ultimo comma, e dell’art. 161 c.p. italiano (per cui l’atto interruttivo verificatosi nei procedimenti penali riguardanti frodi gravi in materia di IVA finisce per comportare il prolungamento del termine di prescrizione, almeno per gli incensurati, di solo un quarto della sua durata iniziale) è idoneo a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall’art. 325, par. 1 e 2, TFUE, nell’ipotesi in cui impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea; ovvero, alternativamente, in cui preveda, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea. In altre parole, nella misura in cui il meccanismo della prescrizione previsto nella disciplina italiana può determinare la pratica e sistematica impunità delle gravi frodi in materia di IVA, o una sperequazione dei termini di prescrizione previsti per la salvaguardia delle ragioni finanziarie interne, lasciando senza tutela adeguata quelle dell’Unione europea, esso deve considerarsi incompatibile con gli obblighi europei di tutela penale, il cui contenuto travalica la definizione astratta di norme incriminatrici e si estende all’applicazione nel caso concreto delle pene da esse previste nel caso di violazione. Il giudice comunitario ha però precisato che si tratta di circostanze affidate alla verifica del giudice nazionale (cfr. §§ 44, 48, 58).
Il risultato di una prima verifica è compendiato nella sentenza della Corte di Cassazione n. 2210/2016 (Sez. 3, n. 2210 del 17/09/2015 Ud., dep. 20/01/2016, Rv. 266121, est. Scarcella) che ha affermato che «in materia di reati tributari, nelle ipotesi consistenti in condotte fraudolente che comportino, in concreto, l’evasione in misura “grave” di tributi IVA devono essere disapplicate – in quanto in contrasto con gli obblighi comunitari imposti agli Stati membri dall’art. 325, paragrafi 1 e 2, del TFUE, in considerazione di quanto affermato nella sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, 8 settembre 2015, C-105/14, Taricco – le disposizioni in materia di prescrizione di cui agli artt. 160, terzo comma, ultima parte, e 161, comma secondo, cod. pen., trovando invece applicazione, in tali casi, la più rigorosa disciplina già prevista nell’ordinamento per i delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., secondo cui il termine ordinario di prescrizione ricomincia a decorrere dopo ogni atto interruttivo» .
Nella sentenza n. 2210 del 2016 la Corte regolatrice ha chiarito le premesse rilevanti tratte dalla ricordata pronuncia comunitaria. Esse sono così riepilogabili: (i) l’effetto diretto dei primi due paragrafi dell’art. 325 TFUE comporta «di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale esistente» (§ 52), nel caso di specie rappresentata dalle norme di cui agli artt. 160 e 161 c.p.; (ii) la Grande Sezione non pretende la disapplicazione dei termini di prescrizione previsti dall’art. 157 c.p. (conciliabili con gli obblighi UE), né la disapplicazione dell’art. 160 c.p. nella parte in cui disciplina, in linea generale, gli atti interruttivi e i loro effetti (disponendo che, dopo ogni atto interruttivo, la prescrizione comincia nuovamente a decorrere dal giorno dell’interruzione), ma solo l’ultima proposizione dell’ultimo comma, successiva al punto e virgola, ove si dispone che «in nessun caso i termini stabiliti nell’articolo 157 possono essere prolungati oltre il termine di cui all’articolo 161, secondo comma, fatta eccezione per i reati di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale»; (iii) la condizione di operatività dell’obbligo è che la frode sia “grave”, nozione per la quale la Corte U.E. non fornisce alcuna indicazione quantitativa circa la soglia minima di gravità, lasciando così al giudice penale italiano il compito di individuarla, delimitando l’ambito di applicazione della norma europea. Da tali premesse la Cassazione ha tratto una delle prime soluzioni al problema della disapplicazione obbligata: nei processi per reati di grave frode IVA nei quali il giudice nazionale riconosca il pericolo di sistematica ed effettiva impunità, «il termine ordinario di prescrizione ricomincerà da capo a decorrere dopo ogni atto interruttivo», anche al di fuori dei procedimenti attribuiti alla competenza della Procura distrettuale, per i quali già vige questa regola, senza i vincoli dei limiti massimi stabiliti dal successivo art. 161 c.p. in maniera differenziata per delinquenti primari o recidivi. E’ già questo, in effetti, il regime della prescrizione, ad esempio, per l’associazione finalizzata al contrabbando di tabacchi di cui all’art. 291-quater D.P.R. 23 gennaio 1943, n. 436 (rientrante tra i reati di competenza della Procura distrettuale ex art. 51, comma 3-bis c.p.p.) e che ha indotto la Commissione a lamentare una asimmetria rispetto al corrispondente reato associativo finalizzato all’evasione IVA, segnalandola come trasgressione del § 2 dell’art. 325 TFUE, a tenore del quale gli Stati membri sono tenuti ad adottare “per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari” (principio di tutela equivalente). Ciò significa, in linea con i primi commenti della dottrina, che la disapplicazione non determina la reviviscenza di una norma anteriore (ossia, non risorge il regime della prescrizione antecedente alle modifiche introdotte dalla L. n. 251 del 2005) perché «non incide sulla norma abrogatrice (e sull’effetto abrogativo) ma, appunto, secondo la esplicita indicazione della sentenza europea, comporta solo l’applicazione alla grave frode IVA del termine massimo previsto per i reati di cui all’art. 51-bis c.p.p.: in questa mancata applicazione la sentenza europea ha ravvisato il contrasto col principio del Trattato». La disapplicazione non può giungere, però, sino alla revoca della dichiarazione di estinzione del reato già intervenuta, perché in tal caso il soggetto ha acquisito un diritto soggettivo che prevale sulle istanze punitive dello Stato. Risoluta, ancora, la valutazione della Cassazione circa l’inesistenza di ragioni per sollevare una questione di legittimità costituzionale per ritenuta evidente «mancanza di controlimiti e di dubbi ragionevoli sulla compatibilità degli effetti della imposta disapplicazione con le norme costituzionali italiane». In proposito, la Corte regolatrice ha ricordato, anzitutto, come la stessa CGUE non abbia eluso il problema. Ad avviso della Corte di Lussemburgo deve escludersi che il principio di legalità (riconosciuto dall’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, che recepisce la nozione emersa nell’interpretazione della Corte di Strasburgo rispetto alla corrispondente previsione dell’art. 7 della CEDU) resti vulnerato dalla disapplicazione di una norma del codice penale in materia di prescrizione contraria al diritto UE con effetti sfavorevoli per l’imputato. Nella sensibilità dei giudici eurounitari, «la materia della prescrizione del reato attiene in realtà alle condizioni di procedibilità del reato, e non è pertanto coperta dalla garanzia del nullum crimen, tanto che persino l’applicazione a fatti già commessi ma non ancora giudicati in via definitiva del termine di prescrizione ad opera del legislatore deve ritenersi compatibile con l’art. 7, che si limita a garantire che il soggetto non sia punito per un fatto e con una pena previsti dalla legge come reato al momento della sua commissione» . La pregnanza dell’interpretazione della Corte di Giustizia U.E. è stata sottolineata rilevandone la natura dichiarativa (non creativa) e la perfetta coerenza con evoluzione nel diritto comunitario, specie a partire dal Trattato di Maastricht, connotatosi per l’inclusione della lotta alle frodi nel cd. Terzo pilastro, secondo i contenuti dell’art. 285 TCE, diretto antesignano dell’art. 325 TFUE. Sviluppo che conduce ad escludere che possa anche solo parlarsi di applicazione retroattiva di norme penali incriminatrici sanzionatorie. Sul fronte dell’Unione Europea, la minor tutela della legalità processuale rispetto a quella penale sostanziale sarebbe confermata dalla materia del MAE, delle pronunce della CGUE sulla L. n. 69 del 2005 nonché dal Quarto protocollo alla Convenzione del Consiglio di Europa del 1957 sull’estradizione. Ciò ricapitolato, la Corte di Cassazione assume non rilevante la soluzione della questione dogmatica circa la natura sostanziale o processuale della prescrizione e propone una soluzione non priva di originalità. In particolare, operando un’affilata distinzione tra disciplina e termini della prescrizione e durata massima dell’interruzione, enuclea quest’ultima dalla prima e le riconnette sicuro profilo processuale, giungendo a riconoscerla come sprovvista di copertura costituzionale. In particolare, la Corte rimarca che «la sentenza europea non incide sulla disciplina e sui termini di prescrizione, ma solo sulla durata massima della interruzione, peraltro comportando l’applicazione anche per le gravi frodi in tema di IVA di una norma già prevista per altri casi concernenti imposte nazionali» e richiama l’insegnamento della sentenza n. 236 del 2011 della Corte Costituzionale per confermare che le norme interessate dalla disapplicazione non beneficiano della copertura dell’art. 25 Cost. e dell’art. 7 CEDU. Nell’occasione, infatti, il giudice delle leggi italiano, senza attivare alcun contro limite, aveva utilizzato il precedente giurisprudenziale della sentenza 22 giugno 2000 (Coéme e altri contro Belgio) con cui la Corte di Strasburgo aveva ritenuto non in contrasto con la citata norma convenzionale una legge belga che prolungava, con efficacia retroattiva, i tempi di prescrizione dei reati. Rimangono irrisolte alcune problematiche interpretative, delle quali la Corte regolatrice non ha ravvisato la rilevanza nel caso posto alla sua valutazione. La Cassazione sembra non escludere che l’obbligo di disapplicazione possa operare non soltanto per i procedimenti relativi alle “frodi” in materia di IVA, estendendosi a «qualsiasi reato tributario che comporti, nel caso concreto, l’evasione in misura grave di tributi IVA (ad es. l’omessa dichiarazione ex art. 5 o l’omesso versamento del tributo ex art. 10-ter D.Lgs. n. 74 del 2000); di certo, non si impegna nel risolvere la questione se, per valutare la gravità della frode (o della violazione IVA), ci si debba limitare ai singoli reati oppure se si debba avere riguardo alla totalità di tutti i reati posti in continuazione, anche dei reati dichiarati estinti per prescrizione, tenendo o meno conto del valore complessivo dell’evasione. Conclusivamente, per i reati non ancora estinti per prescrizione, secondo la Corte di Cassazione il giudice nazionale dovrà distinguere: a) se l’eventuale futura dichiarazione di prescrizione dipende dal mancato rispetto dei termini di cui all’art. 157 c.p., nulla quaestio, non essendo stato questo punto toccato dalla pronuncia della C.G.U.E.; b) se l’eventuale futura dichiarazione di estinzione dipende, invece, dal combinato disposto degli artt. 160, comma 3, e 161, comma 3 c.p., queste norme devono essere disapplicate. In questo ultimo caso, dunque, il soggetto non ha alcun diritto soggettivo che prevale sulla pretesa punitiva dello Stato, né è titolare di una aspettativa giuridica al maturarsi della prescrizione (cfr. Corte Cost., Ord. n. 452 del 1999). Il mutamento della durata massima della interruzione, quindi, viene considerato attenere a «termine di natura squisitamente processuale, il quale deve considerarsi subvalente rispetto alla fedeltà agli obblighi europei discendenti dagli artt. 4 TUE e 325 TFUE: il contrasto con gli obblighi europei concerne, pertanto, unicamente il regime della durata massima del termine che comincia a decorrere dopo l’interruzione della prescrizione, regime che non riceve copertura dall’art. 25 Cost.».
Con successiva sentenza (Cass. Pen., Sez. 4, n. 7914 del 25/01/2016 ud., dep. 26/02/2016, Rv. 266078, est. G. Pavich), la Corte di Cassazione ha ritenuto che i principi affermati dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande sezione, Taricco e altri dell’8 settembre 2015, C-105/14, in ordine alla possibilità di disapplicazione della disciplina della prescrizione prevista dagli artt. 160 e 161 cod. pen. se ritenuta idonea a pregiudicare gli obblighi imposti a tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea, non si applicano ai fatti già prescritti alla data di pubblicazione di tale pronuncia (3 settembre 2015), in tal senso reputando non rilevante la questione di costituzionalità sollecitata.
Con diversa pronuncia (Cass. pen., sez. 3, ord. n. 28346 del 30 marzo 2016, dep. 8 luglio 2016, Est. Riccardi) la Cassazione, per contro, sì è determinata a sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130, che ordina l’esecuzione del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 (TFUE), nella parte che impone di applicare l’art. 325, § 1 e 2, TFUE, dalla quale – nell’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia, 08/09/2015, causa C – 105/14, Taricco – discende l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160, comma 3, e 161, comma 2, cod. pen., in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, allorquando ne derivi la sistematica impunità delle gravi frodi in materia di IVA, anche se dalla disapplicazione, e dal conseguente prolungamento del termine di prescrizione, discendano effetti sfavorevoli per l’imputato, per contrasto di tale norma con gli artt. 3, 11, 25, comma 2, 27, comma 3, 101, comma 2, Cost.
Nell’occasione è stata richiamata la dottrina dei controlimiti (p. 20-22 della ordinanza ) e segnalata la non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità per la prospettata violazione di una serie di seguenti principi che li sostanziano. Tra essi: (i) il principio di irretroattività della legge penale (art. 25, comma 2, Cost.), atteso che la disapplicazione in esame determinerebbe la retroattività in malam partem della normativa nazionale risultante, con l’effetto di allungare i tempi della prescrizione anche in relazione a fatti commessi prima della sentenza Taricco, in contraddizione con il corretto inquadramento della prescrizione tra i presupposti e le condizioni della punibilità; non apparendo persuasiva la tesi secondo la quale la disciplina della prescrizione avrebbe natura sostanziale prima dell’esercizio dell’azione penale, assumendo invece natura processuale dopo l’attivazione della pretesa punitiva, con la conseguenza che solo la disciplina dell’interruzione della prescrizione sarebbe attratta nella logica del processo, sottratta alla garanzia dell’art. 25, comma 2, Cost. e governata dal principio tempus regit actum; infatti, la distinzione tra disciplina sostanziale della prescrizione e disciplina processuale dell’interruzione della prescrizione appare «una fictio insuscettibile di fondare, comunque, un’applicazione di più lunghi termini di prescrizione a fatti commessi in precedenza; (ii) l’irretroattività della legge penale, il diritto di difesa (art. 24 Cost.) ed il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), per la violazione del diritto dell’imputato a non subire l’applicazione, imprevista, di una disciplina penale complessivamente più rigorosa rispetto a quella vigente al momento di commissione del fatto; (iii) il principio di riserva assoluta di legge in materia penale (art. 25, comma 2, Cost.); il fondamento ed i presupposti della responsabilità penale, compresa la dimensione della punibilità, devono essere previsti esclusivamente dalla legge statale, nozione nella quale non rientra (Corte cost., 230 del 2012) il più ampio concetto di “law”, comprensivo anche del diritto giurisprudenziale (pur nella più ampia dimensione sovranazionale); (iv) il principio di tassatività e determinatezza (art. 25, comma 2, Cost.), atteso che la Corte di Giustizia individua i presupposti dell’obbligo di disapplicazione delle norme sull’interruzione della prescrizione in concetti vaghi ed indeterminati, quali “la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’UE” ed il “numero considerevole di casi di frode grave” che dovrebbe essere oggetto di accertamento giudiziale; (v) il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), atteso che da disapplicazione determinare che «la prescrizione, nel settore delle frodi gravi agli interessi finanziari dell’UE, non avrà più i contorni di una disciplina pret à porter, confezionata in serie, ma assumerà i connotati di una disciplina ‘su misura’ del singolo processo, o del singolo imputato, o, addirittura, di gruppi di imputati»; (vi) il principio di separazione dei poteri e di sottoposizione del giudice soltanto alla legge (art. 101, comma 2, Cost.), essendo affidato al giudice l’individuazione dell’oggetto (“frode grave”), dell’ambito di applicabilità (“la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’UE”), e la valutazione di ineffettività della disciplina (“in un numero considerevole di casi di frode grave”), assegnando all’ordine giudiziario un potere normativo riservato al legislatore; (vii) il principio della finalità rieducativa della pena (art. 27, comma 3, Cost.), con prolungamento dei termini di prescrizione, e quindi della punibilità, in ragione della tutela degli interessi finanziari dell’U.E., con funzionalizzazione della pena eccentrica rispetto al teleologismo costituzionale: la pena non tende più alla rieducazione del condannato, secondo quanto previsto dall’art. 27, comma 3, Cost., ma diviene strumento di tutela degli interessi finanziari dell’Unione; (viii) i principi di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e della finalità rieducativa della pena (art. 27, comma 3, Cost.), poiché nel caso dell’obbligo di disapplicazione sancito dalla Corte di Giustizia, il prolungamento dei termini di prescrizione riguarderebbe non già “alcuni tipi di reato”, ma soltanto i reati che ledono gli interessi finanziari dell’UE; non è il “tipo di reato” che viene assunto a discrimen del differente trattamento, ragionevole in virtù del maggior allarme sociale o della complessità dell’accertamento, ma il “tipo di fatto”, in quanto offensivo degli interessi finanziari dell’UE; (ix) il principio del rispetto dei controlimiti alle limitazioni di sovranità (art. 11 Cost.), la dottrina dei “controlimiti” non dovendo esser intesa come forma di resistenza degli Stati nazionali ai processi di integrazione sovranazionale e internazionale, ma quale espressione rigorosa della sovranità popolare, nella sua dimensione irrinunciabile.
1.4.3. La causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p. ed i reati tributari.
La Cassazione ha escluso l’applicabilità dell’istituto di cui all’art. 131-bis c.p., per insussistenza dei presupposti sul piano oggettivo, con riferimento ad un omesso versamento IVA quantificato nella somma complessiva di 255.486,00 euro, ovvero di 5.486 euro superiore alla nuova soglia fissata dal d.lgs. n. 158/2015. La Corte ha affermato, in particolare, che «in tema di reati tributari, non è applicabile la causa di non punibilità della “particolare tenuità del fatto” alla condotta di omesso versamento di IVA per un importo di poco superiore alla soglia di punibilità, fissata a 250.000 euro dall’art. 8 del D.Lgs. n. 158 del 2015, atteso che l’eventuale particolare tenuità dell’offesa non deve essere valutata con riferimento alla sola eccedenza rispetto alla soglia di punibilità prevista dal legislatore, bensì in rapporto alla condotta nella sua interezza, avendo, dunque, riguardo all’ammontare complessivo dell’imposta non versata (Cass. Pen. Sez. 3, n. 51020 del 11/11/2015 Ud., dep. 29/12/2015, Rv. 265982, estensore Mengoni E.). Da tale principio la Corte ha tratto il convincimento che la violazione riscontrata a carico dell’imputato «deve esser quantificata nella complessiva somma di 255.486,00 euro, non anche nel minor importo di 5.486,00 euro, sì da non potersi all’evidenza riconoscere che l’offesa al bene tutelato dalla norma sia stata di particolare tenuità. Salvo aggiungere, comunque, che nel caso di specie difetterebbe anche il requisito della “non abitualità” della condotta, ancora previsto dall’art. 131-bis in esame, atteso che il ricorrente è stato riconosciuto colpevole del medesimo reato anche con riguardo all’anno di imposta 2005, sebbene l’omissione debba esser dichiarata estinta per sopravvenuta prescrizione».
In ogni caso, «in tema omesso versamento di IVA, la causa di non punibilità della “particolare tenuità del fatto”, prevista dall’art. 131-bis cod. pen., è applicabile soltanto alla omissione per un ammontare vicinissimo alla soglia di punibilità, fissata a 250.000 euro dall’art. 10-ter D.Lgs. n. 74 del 2000, in considerazione del fatto che il grado di offensività che dà luogo a reato è già stato valutato dal legislatore nella determinazione della soglia di rilevanza penale (Sez. 3, Sentenza n. 13218 del 20/11/2015 Ud., dep. 01/04/2016, Rv. 266570, est. Andronio)». In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto non particolarmente tenue, sul piano oggettivo, l’omesso versamento di 270.703 euro .
1.4.4. Limiti dell’efficacia estintiva dello “scudo fiscale”.
La Corte di Cassazione (Sez. 3, n. 2221 del 06/10/2015 Cc., dep. 20/01/2016, Rv. 266012, est. Aceto) ha confermato che «ai fini della applicazione della speciale causa di non punibilità introdotta dall’art. 13 bis, D.L.1 luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla Legge 3 agosto 2009, n. 102, come ulteriormente modificato dal D.L. 3 agosto 2009, n. 103, convertito, con modificazioni, dalla Legge 3 ottobre 2009, n. 141, relativa al rimpatrio di attività finanziarie e patrimoniali detenute irregolarmente fuori dal territorio dello Stato (cosiddetto “scudo fiscale”), è preciso onere dell’interessato indicare gli specifici elementi e le circostanze dai quali poter desumere che le somme rimpatriate o regolarizzate corrispondono a quelle oggetto della condotta incriminata o comunque hanno attinenza con il reato contestato». Come noto, ai sensi dell’art. 13-bis, comma 4, d.l. 1 luglio 2009, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, come ulteriormente modificato dal d.l. 3 agosto 2009, n. 103, convertito con modificazioni dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141, il rimpatrio (o la regolarizzazione) delle attività finanziarie e patrimoniali illecitamente trasferite e detenute all’estero e l’effettivo pagamento dell’imposta straordinaria di cui al comma 1 escludono la punibilità per i reati tributari di cui agli articoli 2, 3, 4, 5 e 10 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74. L’imposta di cui al comma 1 si applica sulle attività finanziarie e patrimoniali detenute a partire da una data non successiva al 31 dicembre 2008. In proposito, la Cassazione « ha già affermato che l’adesione allo “scudo fiscale” non determina un’immunità soggettiva in relazione ai reati fiscali nella cui condotta non rilevino affatto i capitali trasferiti e posseduti all’estero, e successivamente oggetto di rimpatrio, ciò perché la causa di non punibilità prevista dall’art. 1 d.l. n. 103 del 2009, cit., si riferisce alle sole condotte afferenti i capitali oggetto della procedura di rimpatrio e si applica esclusivamente ai delitti in materia di dichiarazione, fraudolenta o infedele, al delitto di omessa dichiarazione nonché a quello di occultamento o distruzione di scritture contabili, ed offre copertura penale solo per i reati in cui sono rilevanti i capitali trasferiti e posseduti all’estero, poi rimpatriati o regolarizzati (Sez. 3, n. 28724 del 05/05/2011, Lamprecht, Rv. 250605; Sez. 3, n. 41947 del 02/07/2014, Societa’ Rentcar Chartering Gmbh, Rv. 261395)..Come è stato efficacemente spiegato, <
2. Questioni di diritto processuale.
2.1. Le prove.
2.1.1. Regole probatorie: – significato penale delle presunzioni tributarie: differenze tra giudizio di merito e valutazione cautelare; l’accertamento induttivo, dati bancari e specifica valutazione autonoma da parte del giudice; – significato penale della regola dell’art. 14, comma 4- bis, L. n. 537 del 1993: casi di indeducibilità (penale) dei costi per operazioni soggettivamente inesistenti.
Significato penale delle presunzioni tributarie: differenze tra giudizio di merito e valutazione cautelare.
In merito al significato indiziario nel processo penale delle presunzioni tributarie, la Corte di Cassazione (Sez. 3, n. 19333 dell’11.2.2015, dep. 11.5.2015, est. Scarcella), ha ribadito «il principio, valevole in generale nel processo tributario ed anche, con delle limitazioni, nel processo penale, secondo cui la prova dell’inesistenza, oggettiva o soggettiva, delle operazioni può essere fornita anche mediante presunzioni (in particolare, ai sensi degli artt. 39, comma primo, lett. d), e 40 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e 54, comma secondo, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633). Ed invero, l’autonomia del procedimento penale rispetto a quello tributario non esclude che, ai fini della formazione del suo convincimento, il giudice penale possa avvalersi degli stessi elementi che determinano presunzioni secondo la disciplina tributaria, a condizione però che gli stessi siano assunti non con l’efficacia di certezza legale, ma come dati processuali oggetto di libera valutazione ai fini probatori. Inoltre, dette presunzioni hanno il valore di un indizio sicché per assurgere a dignità di prova devono trovare oggettivo riscontro o in distinti elementi di prova ovvero in altre presunzioni, purché siano gravi precise e concordanti (v., tra le tante: Sez. 3, n. 2246 del 01/02/1996 – dep. 01/03/1996, Zullo, Rv. 205395)». In particolare, a fronte di una sentenza di condanna emessa dei giudici territoriali per il delitto previsto dall’art. 2 d.lgs. n. 74/2000, nella quale erano stati indicati i motivi che inducevano a ritenere oggettivamente inesistenti le operazioni documentate dalle fatture contestate (la mancata produzione documentale di esse, il loro contenuto generico, l’elevata percentuale riconosciuta all’emittente nonostante l’inesperienza, la cessazione dell’attività dell’emittente e la sua cancellazione dal registro delle imprese già nel primo anno rispetto ai due in cui risultavano emesse, infine, la disponibilità da parte dell’emittente di un ulteriore numero di partita IVA utilizzato nei rapporti con società partecipi del medesimo meccanismo fraudolento), la difesa aveva censurato la valutazione del compendio indiziario svolta ai sensi dell’art. 192 cod. proc. pen.. La Cassazione ha rigettato il ricorso ritenendo che i primi giudici erano pervenuti, in base ad una valutazione complessiva degli elementi indiziari, a considerare provata la inesistenza oggettiva delle operazioni sottese alle fatture emesse, «ciò in base al criterio, applicabile in sede penale, secondo cui nel momento valutativo della prova indiziaria, il procedimento induttivo deve restringersi alla regola di una necessaria derivazione logica del dato ignoto da quello noto da cui si è partiti, con la conseguenza che un’affermazione di responsabilità può essere fondata su elementi indizianti soltanto se gli stessi, partitamente indicati in motivazione ed esattamente valutati nel loro nesso logico, diano la sicura certezza dell’attribuibilità del fatto all’azione dell’imputato, nel senso che non solo venga dimostrato che il fatto può essere accaduto nel modo che si assume, ma venga altresì dimostrato che il fatto stesso non può essersi svolto in modo contrario, ciò proprio a causa dell’assenza di qualsiasi elemento documentale che la stessa difesa si era riservata di produrre sin dalla verifica fiscale a sostegno della tesi della realtà delle operazioni, rimasta sul piano delle labiali affermazioni (v., ad es.: Sez. 1, n. 8092 del 19/01/1987 – dep. 04/07/1987, Cillari, Rv. 176349)». In presenza di tale compendio indiziario volto a provare l’inesistenza oggettiva delle operazioni, dunque, «era onere dell’imputato fornire elementi idonei a dimostrare invece la realtà effettuale delle operazioni contestate».
Il principio per cui «le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione dell’illecito, assumendo il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa» è stato rimarcato da altra pronuncia della Cassazione (Sez. 3, 30890 del 23/06/2015 Ud. , dep. 16/07/2015, Rv. 264251, est. Pezzella), che ha precisato che il riscontro può essere fornito o da distinti elementi di prova, o anche da altre presunzioni, purché gravi, precise e concordanti. Infatti, in tema di reati tributari, ai fini della prova del reato, il giudice può fare legittimamente ricorso agli accertamenti condotti dalla Guardia di Finanza o dall’ufficio finanziario, anche ai fini della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, pur dovendo il proprio esame estendersi a valutare ogni altro eventuale indizio acquisito in quanto l’autonomia del procedimento penale rispetto a quello tributario non esclude che, ai fini della formazione del suo convincimento, il giudice penale possa avvalersi degli stessi elementi che determinano presunzioni secondo la disciplina tributaria, a condizione però che detti elementi siano assunti non con l’efficacia di certezza legale, ma come dati processuali oggetto di libera valutazione ai fini probatori e, siccome dette presunzioni hanno il valore di un indizio, esse, per assurgere a dignità di prova, devono trovare oggettivo riscontro o in distinti elementi di prova ovvero in altre presunzioni, purché siano gravi, precise e concordanti.
La sentenza ha altresì ribadito il consolidato orientamento della Corte che differenzia i casi della pronuncia di merito da quella cautelare, riaffermando «il principio che le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire di per sé fonte di prova della commissione dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, hanno un valore indiziario sufficiente ad integrare il “fumus commissi delicti” idoneo, in assenza di elementi di segno contrario, a giustificare l’applicazione di una misura cautelare reale (cfr. anche la recente sez. 3 n. 2006 del 2.10.2014, dep. 16.1.2015, Scatena, rv. 261928, fattispecie relativa a sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente del profitto del reato)». Infatti, se nel giudizio di merito deve seguirsi il principio sopra enunciato e già ricordato da Cass. Pen., Sez. 3, n. 7078 del 23.1.2013, Piccolo, rv. 254852 (fattispecie nella quale è stata ritenuta inutilizzabile la presunzione contenuta nell’art. 32 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che configura come ricavi sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari, conf. sez. 3, n. 2246 del 1.2.1996, Zullo, rv. 205395), nella prospettiva cautelare, invece, «proprio per la loro natura di dati di fatto aventi valore indiziario, le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, ben possono essere poste a fondamento di un provvedimento cautelare reale. In proposito va ricordato, infatti, che, ai fini della applicazione della cautela reale, non occorre che il compendio indiziario si configuri come grave ai sensi dell’art. 273 cod. proc. pen., essendo sufficiente l’esistenza del “fumus delicti” in concreto (cfr. sez. 6, n. 45591 del 24.10.2013, Ferro, rv. 257816; Sez. 3, n. 37851 del 4.6.2014, Parrelli, non mass.), dovendosi cioè verificare in modo puntuale e coerente la serietà degli elementi in base ai quali il giudice ritenga concretamente esistente il reato configurato e la conseguente possibilità di sussumere la fattispecie in quella astratta, tenendo anche conto delle concrete risultanze processuali e della effettiva situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti».
Anche successiva sentenza della Cassazione (Sez. 3, n. 25451 del 14.10.2015, dep. 20.6.2015, est. Gentili) ha ribadito che «le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire di per sé fonte di prova della commissione dei reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, hanno un valore indiziario sufficiente ad integrare il fumus commissi delicti idoneo, in assenza di elementi di segno contrario, a giustificare, come nel caso che interessa, l’applicazione di una misura cautelare reale (Cass., Sez. 3, 16 gennaio 2015, n. 2006; id., 13 febbraio 2013, n. 7078)». La vicenda esaminata dalla Cassazione aveva riguardo all’annullamento del decreto con il quale il Gip aveva disposto il sequestro, finalizzato alla confisca per equivalente dei beni mobili ed immobili in danno di indagato, tra l’altro, per il reato previsto dall’articolo 4 del d.lgs. n. 74/2000 per aver omesso di dichiarare elementi reddituali a lui pervenuti tramite rimesse bancarie operate sul suo conto corrente da società di diritto croato. Secondo il Tribunale, che aveva disposto l’annullamento, la presunzione tributaria non era invocabile nei confronti del contribuente persona fisica. Inoltre, la presunzione di attrazione a reddito delle rimesse bancarie, non dichiarate in sede di denunzia dei redditi e delle quali l’interessato non aveva saputo dare una giustificazione di irrilevanza tributaria, poteva essere valida in ambito strettamente tributario, ma era inidonea a fondare un giudizio di omessa dichiarazione tributaria sotto il profilo penalistico poiché le presunzioni legali previste dal diritto tributario «non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato». La Cassazione ha disatteso la distinzione operata dal Tribunale in ordine alla sussistenza della presunzione di ripresa a reddito delle somme versate sui conti correnti bancari del contribuente solo nelle ipotesi in cui la movimentazione in questione sia relativa a conti bancari intestati a persone giuridiche . Inoltre, ha rilevato che l’ordinanza impugnata contraddiceva l’orientamento della Corte che ha puntualizzato come le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire di per sé fonte di prova della commissione dei reati previsti dal d.lgs n. 74 del 2000, hanno un valore indiziario sufficiente ad integrare il fumus commissi delicti idoneo, in assenza di elementi di segno contrario, a giustificare l’applicazione di una misura cautelare reale.
L’accertamento induttivo, dati bancari e specifica valutazione autonoma da parte del giudice.
La Cassazione ha anche confermato (Sez. 3, n. 46500 del 24.9.2015, dep. 24.11.2015, est. Amoresano) che «l’accertamento induttivo compiuto dagli uffici finanziari può rappresentare un valido elemento di indagine per stabilire, in sede penale, se vi sia stata evasione e se questa abbia raggiunto le soglie di punibilità previste dalla legge, a condizione che il Giudice non si limiti a constatarne l’esistenza e non faccia apodittico richiamo agli elementi in essi evidenziati, ma proceda a specifica autonoma valutazione degli elementi nello stesso descritti comparandoli con quelli eventualmente acquisiti “aliunde” (conf. cfr.Cass.sez.3 n.1904 del 21/12/1999, Zarbo; conf.Cass.sez.3, 20/10/1995 Perillo) .
Rispetto alla contestata omessa dichiarazione ex art. 5 d.lgs. n. 74/2000, in tema di rilevanza delle presunzioni tributarie offerte dalle risultanze dei dati bancari ex art. 32, d.P.R. n. 600 del 1973 e dall’accertamento induttivo in relazione alle determinazione dell’imposta evasa, nella fase dibattimentale, affidata all’autonomia attribuita al giudice penale, la Cassazione (Sez. 3, 15889 del 2.3.2016 dep. 18.4.2016, est. Scarcella) ha stimato «non autosufficienti a fini di prova le risultanze, neutre ed asettiche in assenza di concreta esplicazione dei loro contenuti descrittivi, degli accertamenti bancari» ed ha affermato che le risultanze derivanti dalle indagini bancarie, in relazione alla inutilizzabilità della presunzione di cui all’art. 32, d.P.R. n. 600 del 1973, a rappresentare, ex se, idoneo elemento di prova a sorreggere la tesi dell’accusa , non sono corroborabili con il silenzio serbato dal contribuente – imputato che, a fronte delle contestazioni mossegli in sede tributaria ed in sede penale, non fornisca giustificazioni alternative rispetto a tali emergenze documentali.
In particolare, la Cassazione ha osservato che se è vero che «in tema di reati tributari, ai fini della prova del reato di dichiarazione infedele, il giudice può fare legittimamente ricorso ai verbali di constatazione redatti dalla Guardia di Finanza ai fini della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, nonché ricorrere all’accertamento induttivo dell’imponibile quando le scritture contabili imposte dalla legge siano state irregolarmente tenute (Sez. 3, n. 5786 del 18/12/2007 – dep. 06/02/2008, D’Amico, Rv. 238825) e, dall’altro, che il giudice può legittimamente fondare il proprio convincimento, in tema di responsabilità dell’imputato per omessa annotazione di ricavi, sia sull’informativa della G.d F. che abbia fatto riferimento a percentuali di ricarico attraverso una indagine sui dati mercato, che sull’accertamento induttivo dell’imponibile operato dall’ufficio finanziario quando la contabilità imposta dalla legge non sia stata tenuta regolarmente», è altresì necessario che «che il giudice non si limiti a constatarne l’esistenza e non faccia apodittico richiamo agli elementi in esso evidenziati, ma proceda a specifica, autonoma valutazione degli elementi nello stesso descritti comparandoli con quelli eventualmente acquisiti aliunde (Sez. 3, n. 1904 del 21/12/1999 – dep. 21/02/2000, Zarbo E, Rv. 215694)». Una volta attribuita limitata rilevanza in chiave probatoria alla presunzione tributaria di cui all’art. 32, d.P.R. n. 600 del 1973 (che configura come ricavi sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari), «inutilizzabile in base al principio secondo cui le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa (Sez. 3, n. 7078 del 23/01/2013 – dep. 13/02/2013, Piccolo, Rv. 254852)» è indispensabile la verifica di elementi oggettivi di riscontro rispetto alle emergenze dei dati bancari ed un’autonoma loro valutazione, non avvalorate né da dichiarazione che si limitino alla loro illustrazione in funzione della determinazione dell’imponibile e della imposta evasa sulla base dell’accertamento induttivo né dal silenzio serbato dal contribuente – imputato, prima, in sede di contraddittorio con l’Amministrazione finanziaria e, poi, in sede penale .
Significato penale della regola dell’art. 14, comma 4- bis, L. n. 537 del 1993: casi di indeducibilità (penale) dei costi per operazioni soggettivamente inesistenti.
In tema d’incidenza dell’art. 8 del D.L. 16/2012, conv. in Legge n. 44 del 2012, che ha modificato l’art. 14, comma 4- bis, L. n. 537 del 1993 sul reato di dichiarazione dei redditi mediante uso di fatture per operazioni inesistenti è stato affrontato dalla Corte di Cassazione sin dal 2012, affermando, ripetutamente, il principio secondo il quale in tema di reati tributari, tale norma «indica una regola valida per le sole procedure di accertamento tributario ai fini delle imposte sui redditi che non ha, invece, alcuna incidenza sulle condotte di dichiarazione fraudolenta punite dall’art.2 d.lgs. n. 74 del 2000» .
Nel periodo di interesse di questa rassegna, la Cassazione non pare aver mutato indirizzo. Sempre in tema di deducibilità dei costi per operazioni soggettivamente inesistenti, per la possibile incidenza sull’ammontare complessivo dell’imposta evasa e con ricadute sui provvedimenti cautelari in materia tributaria, la Corte di Cassazione (Sez.3, n. 31628 del 22.1.2015, dep. 21.7.2015, est. Grillo) ha ricordato l’approdo cui è pervenuta la Sezione Civile Tributaria della Cassazione, valorizzando, altresì, le indicazioni della relazione illustrativa della riforma del 2012 ed affermando il principio di diritto secondo il quale «in tema di imposte sui redditi, a norma della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4-bis, nella formulazione introdotta con il D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, sono deducibili per l’acquirente dei beni i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti, per il solo fatto che essi sono sostenuti nel quadro di una c.d. “frode carosello”, anche per l’ipotesi che l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi che a norma del TUIR siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità» (Cass. Civ. Sez. 5^ 13.3.2012 n. 10167). Conseguentemente, se «è vero che per effetto della normativa sopra richiamata sia prevista e consentita la deducibilità dei costi relativamente ad operazioni soggettivamente inesistenti è del pari escluso, alla luce del principio di diritto sopra enunciato e della lettura coordinata del testo normativo e della relazione governativa, che tale deducibilità possa essere consentita quando si verta in ipotesi di costi che a norma del T.U.I.R. risultino in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità». Quest’ultimo «costituisce una sorta di limite invalicabile oltre il quale non è consentita quell’operazione di deduzione di costi altrimenti ammissibile. Non entra quindi in gioco la natura soggettiva o meno – dell’operazione di emissione di fatture per operazioni inesistenti, quanto il principio generale della “effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità” che, se superato, inibisce l’operazione deduttiva: ne consegue che occorre verificare in concreto e nei limiti, comunque, degli elementi probatori a disposizione …., il rispetto, o meno, di tali limiti raffrontandoli alle operazioni fiscali compiute dalla società». La Corte di Cassazione, dunque, ha affermato di ritenere corretta l’interpretazione della disposizione in esame «nel senso che sono indeducibili i costi comunque “riconducibili” alla condotta criminosa». Traendone la conseguenza che «i costi sostenuti per la realizzazione di una frode essendo essi stessi lo strumento per realizzare l’evasione di imposta, sono indeducibili e l’intervento legislativo, attuato con il D.L. n. 16 del 2012, convertito con modificazioni dalla L. 26 aprile 2012, n. 144, non ha alcuna incidenza sulle fattispecie in esame».
Nello stesso senso, la Cassazione (Sez. 3, n. 22108 del 19/12/2014 Cc., dep. 27/05/2015, Rv. 264010, est. Aceto) aveva affermato che «in tema di reati tributari, l’indeducibilità dei componenti negativi relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di delitti non colposi, di cui all’art. 14, comma quarto-bis, l. n. 537 del 1993 (come modificato dall’art. 8 del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, conv. in l. n. 44 del 2012) non deriva esclusivamente dal loro impiego per finanziare atti immediatamente qualificabili come delitto doloso, ma anche dalla loro inerenza a più generali attività delittuose alle quali l’impresa non sia estranea e per il cui perseguimento abbia sostenuto i costi fittiziamente fatturati, ancorché realmente sostenuti» . Fattispecie di utilizzo di fatture per prestazioni effettivamente rese, i cui costi venivano fraudolentemente trasferiti a società “cartiere” costruite per frodare il Fisco.
Muovendo da tali approdi la Cassazione (Sez. 3, n. 42994 del 07/07/2015 Cc., dep. 26/10/2015, Rv. 265154 Est. Di Nicola V. ) ha ribadito che «in tema di reati tributari, la regola della indeducibilità dei componenti negativi del reddito relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di delitti non colposi (prevista dall’art. 14, comma 4-bis, l. n. 537 del 1993, come modificato dall’art. 8 del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, conv. in l. n. 44 del 2012), trova applicazione anche per i costi esposti in fatture che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi nell’ambito di una frode c.d. carosello, trattandosi di costi comunque riconducibili ad una condotta criminosa». Indi, ha confermato che la disposizione richiamata si limita a precisare una regola per le procedure di accertamento tributario ai fini delle imposte sui redditi, ma non ha alcuna incidenza sulla configurabilità delle condotte di dichiarazione fraudolenta punite dall’articolo 2 D.Lgs. n. 74 del 2000 (conf. sent. n. 43393/15, non massimata) . In motivazione, la Corte ha sottolineato che, nel caso dei costi scaturenti da sistemi di frode carosello, propriamente, a difettare è il requisito dell’inerenza della spesa, in quanto i «costi da reato hanno pertanto una destinazione extra imprenditoriale e, come tali, non sono fiscalmente deducibili perché non attinenti al conseguimento del reddito imponibile». In particolare, «i costi documentati in fatture per operazioni soggettivamente inesistenti non possono essere dedotti ai fini delle imposte dirette dal committente/cessionario, che consapevolmente li abbia sostenuti, in quanto essi sono espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività dell’impresa, comportando la cessazione dell’indefettibile requisito dell’inerenza tra i costi medesimi e l’attività imprenditoriale. Perciò la consapevolezza da parte del contribuente di partecipare ad un sistema sofisticato di frode fiscale comporta tuttora l’indeducibilità di qualsiasi componente negativo (costi o spese) riconducibile a fatti, atti o attività qualificabili come reato, per violazione del principio di inerenza, laddove la mancanza di tale consapevolezza (ex art. 14, comma 4-bis, della legge n. 537 del 1993, come novellato) comporta la deducibilità del costo, salvo che i componenti negativi del reddito siano comunque relativi a beni e servizi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività, che configurino condotte delittuose non colpose. Ne consegue che la condotta dolosa o consapevole del cessionario, così come impedisce l’insorgenza del diritto alla detrazione dell’Iva per mancato perfezionamento dello scambio, non essendo, nel caso di specie, l’apparente cedente l’effettivo fornitore della prestazione, allo stesso modo comporta l’indeducibilità dei costi ai fini delle imposte sui redditi, sicché il delitto di utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 74 del 2000 è configurabile anche in caso di fatturazione solo soggettivamente falsa sia ai fini dell’imposta sul valore aggiunto che ai fini dell’imposta sui redditi» .
I principi affermati dalla Corte paiono di persistente attualità rispetto al delitto ex art. 2 d.lgs. n. 74/2000, rispetto al quale la nozione di elementi passivi fittizi resta presente nel tessuto lessicale ed ancorata ad un’impostazione nella quale assume rilevanza penale l’indeducibilità o la non inerenza di costi effettivamente sostenuti, diversamente da quanto previsto per il delitto di dichiarazione infedele ex art. 4, comma 1 e 1 bis, d.lgs. n. 74/2000 .
2.1.2. Il regime di utilizzabilità del processo verbale di constatazione: atto irripetibile e/o documento e la regola fissata dall’art. 220 disp. att. C.p.p.
Secondo la Corte di Cassazione (Sez. 3, 1973 del 29.5.2014, dep. 16.1.2015, est. Savino) il processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza per accertare o riferire violazioni a norme di leggi finanziarie o tributarie ben può essere utilizzato quale prova ai fini della decisione dibattimentale in quanto costituisce atto irripetibile e può quindi essere inserito nel fascicolo per il dibattimento (conf. ex pluris Cass. Sez. III ha confermato n. 36399/ 2011).
La Corte di Cassazione (Sez. 3, 4919 del 18.11.2014, dep. 3.2.2015, est. Franco) ha poi confermato che «il processo verbale di constatazione redatto dalla guardia di finanza o dai funzionari degli uffici finanziari è un atto amministrativo extraprocessuale, come tale acquisibile ed utilizzabile ex art. 234 cod. proc. pen. a fini probatori. Tuttavia, qualora emergano indizi di reato, occorre procedere secondo le modalità previste dall’art. 220 disp. att., giacché altrimenti la parte del documento redatta successivamente a detta emersione non può assumere efficacia probatoria e, quindi, non è utilizzabile» (conf. Sez. 3, 1.4.1998, n. 7820. Molayem. Rv. 211225; id., 18.11.2008, n. 6881 del 2009, Ceragioli, Rv. 242523). Infatti, «è causa di inutilizzabilità dei risultati probatori la violazione delle disposizioni del codice di procedura penale la cui osservanza, nell’ambito di attività ispettive o di vigilanza, è prevista per assicurare le fonti di prova in presenza di indizi di reato» (conf. Sez. 3, 10.2.2010, n. 15372, Fiorillo, Rv. 246599). In particolare, nella recente occasione la Cassazione ha chiarito che «le dette modalità debbono essere seguite quando emergono indizi di reato e non solo quando emerga la prova di un reato, il che significa che per rendere operante la norma di garanzia non occorre che sia stata già raggiunta la prova del superamento della soglia di punibilità, ma è sufficiente che vi sia una concreta probabilità che la soglia possa essere superata». Infatti, ha osservato la Corte regolatrice, «se, invero, si devono aspettare i risultati complessivi dell’accertamento per valutare se vi sia stato o meno il superamento della soglia di punibilità, allora la conseguenza sarebbe che per i reati tributari che prevedono una tale soglia non dovrebbero mai essere adottate le modalità previste dall’art. 220 disp. att. durante gli accertamenti ed i processi verbali di constatazione redatti dalla guardia di finanza o dai funzionari degli uffici finanziari: il che non pare possa ammettersi, perché porterebbe in definitiva ad una elusione degli obblighi di legge, con lesione del diritto di difesa e dei principi del giusto processo».
Con altra pronuncia (Cass. Pen, Sez. 3, Sentenza n. 15236 del 16/01/2015 Ud. , dep. 14/04/2015, Rv. 263051, est. Andreazza) la Cassazione ha ammesso l’acquisibilità in sé dei verbali della Guardia di Finanza formati ai sensi degli artt. 52 e 63 del d.P.R. n. 633 del 1972, per la natura del processo verbale di constatazione quale atto amministrativo extraprocessuale, costituente prova documentale. Lo stesso non è un atto processuale, poiché non previsto come tale dal codice di rito o dalle norme di attuazione, né può essere qualificato quale “particolare modalità di inoltro della notizia di reato” (art. 221 disp. att.), in quanto i connotati di quest’ultima sono diversi (cfr. Cass. pen., Sez. 3, n. 4432 del 10/04/1997). Allo stesso modo sono atti di natura amministrativa anche gli elementi raccolti durante gli accessi, le ispezioni e le verifiche compiute dalla Guardia di Finanza per l’accertamento IVA e delle II DD ai sensi dell’art.52 d.P.R. 633/72 e dell’art. 33 d.P.R. 600/73 (cfr., Sez.3, n. 1668 del 03/12/1997, Riberti, Rv. 209572). Secondo la pronuncia della Cassazione in esame, tali atti sono acquisibili «non già in quanto atti irripetibili di p.g. (che sin ab origine dovrebbero essere inclusi nel fascicolo per il dibattimento) ma in quanto, appunto, prove documentali, ex art. 234 c.p.p.».
Quanto alle censure rivolte rispetto a tale tipologie di atti amministrativi nell’ambito di attività ispettive o di vigilanza per la violazione della disposizione dell’art. 220 disp. att. c.p.p. (norma che impone, in corrispondenza con l’emersione di indizi di reato, l’osservanza delle disposizioni del codice di procedura penale per compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e per raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale) la Corte di Cassazione ritiene insufficiente la mera allegazione che non assolva l’onere, a carico di chi avanzi la doglianza, di precisare la parte inutilizzabile di tali atti redatta dopo l’insorgenza degli indizi di reato.
Poiché «la parte di documento compilata prima dell’insorgere degli indizi, ha sempre efficacia probatoria ed è utilizzabile, mentre non è tale quella redatta successivamente, qualora non siano state rispettate le disposizioni del codice di rito» (cfr. Cass. Pen., Sez. 3, Sez. 3, n. 4432 del 10/04/1997 – dep. 13/05/1997, Cosentini, Rv. 208030), la Corte ha ritenuto inammissibile «una generica contestazione in ordine alla acquisibilità dei verbali di constatazione, senza precisare quali parti di detti verbali siano state redatte dopo l’insorgere degli indizi di reato» (Cass. Pen., Sez. 3, n. 38780 del 14/05/2015 Ud., dep. 24/09/2015, Rv. 264971, est. Scarcella).
La pronuncia ha esaminato deduzioni difensive che, invero in maniera ricorrente, vengono svolte per confortare l’inutilizzabilità delle informazioni tratte dai p.v.c. o riferite dai verificatori in sede dibattimentale, adducendo (i) il mancato rispetto delle garanzie scaturenti dal riconoscimento di situazione ex art. 347 c.p.p., (ii) la violazione del divieto di testimonianza indiretta del verbalizzante sulle dichiarazioni dell’indagato ex art. 62 c.p.p. e (iii) la violazione dell’art. 12 dello Statuto del contribuente, assumendo nello specifico superati i limiti dell’autorizzazione concessa per tale accertamento (limitata ad alcune annualità ma estesa senza provvedimento anche ad altre), nonché per il mancato rispetto dei diritti del soggetto nei cui confronti successivamente scaturite le indagini, non avendo il medesimo avuto formale comunicazione dell’espletamento dell’indagine ispettiva né delle ragioni per cui è stata avviata l’iniziativa.
Quanto alla dedotta mancata attivazione delle garanzie difensive previste nei confronti dell’indagato, è stato affermato «che il processo verbale di constatazione redatto dal personale della Agenzia delle Entrate, per la sua natura di atto amministrativo extraprocessuale, non presuppone l’obbligo di avvisare il soggetto sottoposto a verifica fiscale della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia» (conf. Sez. 3, n. 7930 del 30/01/2015 – dep. 23/02/2015, Marchetti e altro, Rv. 262518).
In relazione alla presunta violazione dell’art. 62 c.p.p. «… nessun divieto sussiste per l’agente accertatore di riferire su quanto dichiarato da terzi (e non anche dall’indagato, valendo il divieto ex art. 62 cod. proc. pen. solo per chi tale qualità rivesta, anche potenzialmente) nel corso dell’attività ispettiva, non essendovi dunque alcuna violazione al disposto dell’art. 195 cod. proc. pen. » (nel caso in esame, il verbalizzante aveva riferito su quanto dichiaratogli dai clienti e dai fornitori che avevano intrattenuto rapporti commerciali con l’impresa sottoposta a verifica). Infatti, «non sussiste il divieto di testimonianza indiretta degli ufficiali ed agenti di P.G. di cui all’art. 195, comma quarto, cod. proc. pen. con riguardo alle dichiarazioni ricevute dal pubblico ufficiale durante l’inchiesta amministrativa dallo stesso effettuata anteriormente al procedimento penale, difettando in tal caso il necessario presupposto soggettivo della qualifica di agente od ufficiale di polizia giudiziaria (Sez. 3, n. 3050 del 14/11/2007 – dep. 21/01/2008, Di Girolamo e altri, Rv. 238562)».
Il divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell’imputato o dell’indagato ed il connesso divieto di utilizzazione, inoltre, «possono trovare applicazione alla testimonianza resa da un appartenente alla Guardia di Finanza su quanto a lui riferito da persona nei cui confronti siano emersi, nel corso dell’attività ispettiva, anche semplici dati indicativi di un fatto apprezzabile come reato e le cui dichiarazioni, ciononostante, siano state assunte in violazione delle norme poste a garanzia del diritto di difesa, atteso che il significato dell’espressione “quando… emergano indizi di reato” – contenuta nell’art.220 disp. att. cod. proc. pen. e tesa a fissare il momento a partire dal quale, nell’ipotesi di svolgimento di ispezioni o di attività di vigilanza, sorge l’obbligo di osservare le disposizioni del codice di procedura penale per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire ai fini dell’applicazione della legge penale – deve intendersi nel senso che presupposto dell’operatività della norma sia non l’insorgenza di una prova indiretta quale indicata dall’art.192 cod. proc. pen., bensì la sussistenza della mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall’inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata (Sez. U, n. 45477 del 28/11/2001 – dep. 20/12/2001, Raineri, Rv. 220291)»
In relazione all’invocata inutilizzabilità per violazione del disposto dell’art. 12 dello Statuto del contribuente (legge n. 212 del 2000), la Corte ha osservato «che tale ultima disposizione prevede “diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali”; trattasi di norma, pertanto, applicabile esclusivamente in detta sede. L’inutilizzabilità cui invece si riferisce l’art. 191 cod. proc. pen. riguarda l’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge (s’intende, processuale penale). Ed è pacifico che agli elementi raccolti in sede di accessi ispettivi della Guardia di Finanza non è mai applicabile la disciplina sull’inutilizzabilità». Infatti risponde ad orientamento consolidato delle Corte ritenere che «in materia di illeciti tributari gli elementi raccolti durante gli accessi, le ispezioni e le verifiche compite dalla Guardia di Finanza per l’accertamento dell’IVA e delle imposte dirette ai sensi dell’art. 52 d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 e dell’art. 33 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 sono sempre utilizzabili quale “notitia criminis”». Infatti, «a tali accessi non è applicabile la disciplina prevista dal codice di rito per l’attività di polizia giudiziaria e, trattandosi di atti amministrativi e non giudiziari, la mancanza o la irregolarità formale dell’autorizzazione può essere considerata causa di invalidità dell’accertamento fiscale, ma non riverbera i suoi effetti sull’accertamento penale (Sez. 3, n. 11307 del 11/10/1995 – dep. 22/11/1995, Pariani, Rv. 202943; v., in senso conforme: Sez. 3, n. 12017 del 07/02/2007 – dep. 22/03/2007, Monni, Rv. 235927; Sez. 3, n. 1668 del 03/12/1997 – dep. 11/02/1998, Riberti, Rv. 209572)».
2.1.3. Effetti sul processo penale della nullità avviso di accertamento sottoscritto da funzionario carente di potere.
La Corte di Cassazione (Sez. 3, n. 35294 del 12.4.2016, dep. 23.8.2016, est. Aceto) ha rigettato la tesi secondo cui l’inesistenza/nullità dell’avviso di accertamento sottoscritto da funzionario carente di potere, in particolare, per effetto delle statuizioni della sentenza n. 37 del 2015 della Corte Costituzionale , possa determinare la automatica inutilizzabilità, a fini penali, dell’avviso e del processo verbale di constatazione. Secondo la Cassazione, infatti, «le patologie dell’avviso di accertamento si esauriscono nell’ambito del rapporto giuridico processual-tributario e attengono esclusivamente la pretesa che con esso viene esercitata dall’Erario». In particolare, esse «non incidono sulla attitudine dell’atto a veicolare nel processo penale le informazioni che se ne possono trarre». Se in sede tributaria l’avviso di accertamento è l’atto con cui l’Erario promuove la pretesa all’esatto adempimento dell’obbligazione tributaria ed è atto di impulso che per la sua validità deve possedere specifici requisiti il cui rispetto è presidiato dalla sanzione di nullità che paralizza la pretesa stessa, «in sede penale l’avviso di accertamento subisce una trasformazione genetica: non è più atto di impulso, ma documento che veicola informazioni. In sede penale il promotore dell’azione è il pubblico ministero che la esercita nei modi e nelle forme previsti dal codice di rito; l’avviso di accertamento è strumentale all’esercizio dell’azione, non ne è l’atto che l’incorpora. Il suo statuto non è l’art. 42, d.P.R. n. 600 del 1973, ma l’art. 191, cod. proc. pen.» .
2.1.4. Le perquisizioni locali in materia tributaria e il ruolo del personale dell’Agenzia delle Entrate.
Ai fini della esecuzione della speciale perquisizione locale prevista dall’art. 33 della legge 7 gennaio 1929, n. 4 per la repressione delle violazioni delle leggi finanziarie, la Corte di Cassazione ha affermato il principio che «la polizia giudiziaria può legittimamente avvalersi, trattandosi di operazione che richiede specifiche competenze tecniche, di personale dell’Agenzia delle Entrate, a nulla rilevando che tale amministrazione sia abilitata a costituirsi parte civile nell’eventuale processo penale per i reati accertati (Sez. 3, n. 5923 del 11/11/2014 Cc., dep. 10/02/2015, Rv. 262412, est. Di Nicola). La Corte ha ricordato che «la possibilità che soggetti terzi partecipino ad atti di indagine e di assicurazione delle fonti di prova è espressamente prevista dall’art. 348, comma 4, cod. proc. pen. in base al quale “la polizia giudiziaria, quando, di propria iniziativa o a seguito di delega del pubblico ministero, compie atti o operazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, può avvalersi di persone idonee le quali non possono rifiutare la propria opera”». In ogni caso, «non si può certo dubitare della specifica competenza tecnica del personale dell’Agenzia delle entrate in materia di evasione d’imposte, sicché occorre considerare che la legge n. 4 del 1929 all’art. 32 disciplina specificamente i casi di collaborazione nell’accertamento dei reati da parte della polizia giudiziaria e di quella tributaria e l’art. 33 faculta la polizia tributaria, della cui qualifica al personale dell’agenzia delle entrate neppure il ricorrente dubita, ad eseguire perquisizioni locali limitatamente al sospetto di violazione di leggi finanziarie costituenti, come nella specie, reato» .
2.2. Questioni processuali poste dall’innalzamento delle soglie di punibilità: -formula assolutoria; – efficacia extra-penale della sentenza penale di assoluzione; – annullamento di ufficio ex art. 609 c.p.p.
Formula assolutoria.
In merito alla formula assolutoria da utilizzare in ipotesi di mancata integrazione della soglia di punibilità del reato tributario (ad esempio perché, essendo stato contestato un fatto integrante la soglia, lo stesso, a seguito dell’accertamento processuale, è invece risultato sotto-soglia, oppure, perché, la soglia di punibilità è stata elevata a seguito della declaratoria di incostituzionalità della disposizione che la prevede o per ius superveniens) si è profilato un dissidio interpretativo.
Dopo sentenza 7-8 aprile 2014, n. 80 della Corte Costituzionale, la Cassazione (Sez. 3, n. 15824 del 25.11.2014, dep. 16.4.2015, est. Aceto) aveva ritenuto che la condotta tenuta dall’imputato «si poneva radicalmente al di fuori della soglia della penale rilevanza», sicché l’annullamento andava deliberato con la formula «il fatto non è previsto dalla legge come reato» e non con quella «il fatto non sussiste» che, presuppone, invece, già a livello descrittivo, l’ipotetica attrazione della condotta contestata in una fattispecie incriminatrice (cfr., sul punto, Sez. U, n. 37954 del 25/05/2011, Rv. 250975, Sez. U, n. 4049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240814). Secondo la Cassazione, nell’occasione, «avuto riguardo alle conseguenze della dichiarazione di incostituzionalità della norma con effetto ex tunc, si deve ritenere che la condotta tenuta dall’imputato non ha mai superato la soglia della penale rilevanza e dunque non è mai stata prevista come reato». Nello stesso cfr. Sez. 5, Sentenza n. 25532 del 03/06/2015 Ud., dep. 17/06/2015, Rv. 263912, est. Pistorelli, che riconosce nella pronunzia del giudice delle leggi una sostanziale abolitio criminis parziale .
Nei pronunciamenti più recenti, i giudici della Cassazione si sono persuasi che la corretta formula terminativa è rappresentata da quella per cui “il fatto non sussiste”. La Corte, in tal senso, ha anche riconosciuto l’interesse ad impugnare la pronuncia che non contenga la formula più favorevole . Con la sentenza n. 3098/2016, cit., ha richiamato l’insegnamento delle Sezioni Unite penali Orlando (Sez. U, n. 37954 del 25/05/2011, Orlando, Rv. 250975), pervenendo a soluzione diversa da quella in precedenza preferita. Tale pronuncia ha avuto modo di affermare che nel caso in cui manchi un elemento costitutivo, di natura oggettiva, del reato contestato, l’assoluzione dell’imputato va deliberata con la formula «il fatto non sussiste», non con quella «il fatto non è previsto dalla legge come reato», che riguarda la diversa ipotesi in cui manchi una qualsiasi norma penale cui ricondurre il fatto imputato (cfr. anche; Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008, cit.) e che, dunque, non potrebbe essere utilizzata neanche nell’ipotesi di mancanza di una condizione obiettiva di punibilità. L’adozione della formula «il fatto non è previsto dalla legge come reato» dipende dal tenore formale dell’imputazione, dalla circostanza cioè che con essa si assume la riconducibilità della fattispecie concreta ad una fattispecie astratta mai esistita, abrogata o dichiarata (in toto) costituzionalmente illegittima, «mentre, quando il fatto storico, così come ricostruito, non è idoneo, come nella specie, ad essere sussunto nella fattispecie astratta, per la mancanza di un elemento costitutivo del reato, occorre adottare la formula «il fatto non sussiste» (Sez. U, n. 37954 del 25/05/2011, Orlando, cit.). Nello stesso senso si è espressa la Corte con riferimento ad ipotesi di omessi versamenti di ritenute certificate ex art. 10-bis d.lgs. n. 74/2000 e dichiarazioni infedeli ex art. 4 d.lgs. n. 74/2000 per importi, nelle more del giudizio di legittimità, “divenuti” inferiori alle più elevate soglie fissate dal d.lgs. n. 158/2015 (per il reato ex art. 10-bis cit. cfr. Cass. Pen., 3, n. 6105 del 18.11.2015, dep. 15.2.2016, est. Di Nicola, Cass. Pen., 3, n. 18692 del 22.3.2016, dep. 5.5.2016, est. Scarcella; per il reato ex art. 4 cit. cfr. Cass. Pen., 3, n. 891 dell’11.11.2015, dep. 13.1.2016, est. Mengoni, Cass. Pen., 3, n. 30148, ud. 01/06/2016 dep. 15/07/2016, est. Scarcella; per il reato ex art. 10-ter cit. Cass. Pen., Sez. 3, n. 51020 del 11/11/2015 Ud., dep. 29/12/2015, Rv. 26598, est. Mengoni).
Efficacia extra-penale della sentenza penale di assoluzione.
Quanto agli effetti della sentenza penale definitiva dichiarativa dell’insussistenza del fatto per la mancata integrazione (pure sopravvenuta) della soglia di punibilità, la Corte ha precisato che essa attiene alla «inconfigurabilità della fattispecie incriminatrice quanto all’accertamento che non sussiste il fatto che sia stata raggiunta una soglia pari o superiore a quella prevista per la realizzazione del reato». Con la conseguenza che «è esclusivamente rispetto a tale fatto che, ai sensi dell’art. 652 cod. proc. pen., la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata a seguito di dibattimento ha efficacia di giudicato, restando impregiudicata, ….., l’eventuale mancato versamento dell’Iva in misura inferiore alla soglia di punibilità (che integra un fatto diverso, penalmente irrilevante e sanzionabile in via amministrativa) e potendo l’amministrazione finanziaria quindi procedere in via amministrativa all’accertamento della violazione e all’irrogazione delle relative sanzioni in relazione all’imposta dovuta e non versata, purché sotto soglia» (Cass., Pen., 3, n. 3098/2016, cit.) .
Annullamento di ufficio ex art. 609 c.p.p.
La Cassazione ha fatto applicazione del suo potere di annullamento di ufficio ex art. 609 c.p.p., pure in presenza di ricorso inammissibile, in rapporto ad evenienze di soglie del delitto ex art. 4 d.lgs. n. 74/2000 “divenute”, pur se solo nel periodo successivo alla presentazione del ricorso per cassazione, inferiori a quelle introdotte con d.lgs. 4 settembre 2015, n. 158. Nel caso, peraltro, la formula assolutoria terminativa è stata quella «perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato» (Cass. Pen., Sez.7, n. 26928 del 23.10.2015, dep. 1.7.2016, est. Aceto)
2.3. I sequestri e le confische.
2.3.1. Il profitto dei reati tributari: – in genere; – profitto in denaro; – profitto dei reati tributari ex artt. 2, 5, 8 ed 11 d.lgs. n 74/2000; – beni vincolabili e non vincolabili: gravati da ipoteche o altre garanzie, pegno regolare ed irregolare, beni della massa fallimentare.
In genere.
Secondo l’insegnamento consolidato della Corte di Cassazione, in tema di reati tributari, il profitto, confiscabile anche nella forma per equivalente, è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario (Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255036; Sez. 3, n. 11836 del 04/07/2012, Bardazzi, Rv. 254737; Sez. 5, n. 1843 del 10/11/2011, Mazzieri, Rv. 253480; più in generale, sulla riconducibilità al profitto del “risparmio di spesa” si veda, altresì, Sez. U, n. 38343, n. 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261117). Anche il bene acquisito in modo diretto con il reinvestimento delle somme non versate all’Erario va ascritto alla categoria del “profitto” del reato (Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert; Sez. 6, n. 11918 del 14/11/2013, Rossi, Rv. 262613; Sez. 6, n. 4114 del 21/10/1994, Giacalone, Rv. 200855; più in generale, cfr. anche Sez. U, n. 10280 del 25/10/2007, Miragliotta, Rv. 238700).
Profitto in denaro.
Secondo l’arresto delle Sezioni Unite n. 31617/2015 (Ud. del 26/06/2015, dep. 21/07/2015, Rv. 264435, est. A. Macchia) «qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme di cui il soggetto abbia comunque la disponibilità deve essere qualificata come confisca diretta; in tal caso, tenuto conto della particolare natura del bene, non occorre la prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della confisca e il reato» (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci). Si sostiene, in proposito, che «ove il profitto o il prezzo del reato sia rappresentato da una somma di denaro, questa, non soltanto si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell’autore del fatto, ma perde – per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza del reo – qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica. Non avrebbe, infatti, alcuna ragion d’essere – né sul piano economico né su quello giuridico – la necessità di accertare se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell’illecito sia stata spesa, occultata o investita: ciò che rileva è che le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma, legittimando, dunque, la confisca in forma diretta del relativo importo, ovunque o presso chiunque custodito nell’interesse del reo. Soltanto, quindi, nella ipotesi in cui sia impossibile la confisca di denaro sorge la eventualità di far luogo ad una confisca per equivalente degli altri beni di cui disponga l’imputato e per un valore corrispondente a quello del prezzo o profitto del reato, giacché, in tal caso, si avrebbe quella necessaria novazione oggettiva che costituisce il naturale presupposto per poter procedere alla confisca di valore (l’oggetto della confisca diretta non può essere appreso e si legittima, così, l’ablazione di altro bene dì pari valore)». Ciò significa, dunque, che nel caso di prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato .
Va ricordato, in proposito, che la Cassazione aveva già chiarito, nel caso in cui il profitto di reato sia rappresentato da denaro, che «la confisca di somme rinvenute nella disponibilità del soggetto (persona fisica o giuridica) che lo ha percepito, anche sotto forma di un risparmio di spesa attraverso l’evasione dei tributi, avviene, alla luce della fungibilità di esso, sempre in forma specifica sul profitto diretto e mai per equivalente» (Cass. Pen, Sez. 3, n. 37846 del 7.5.2014, dep. il 16.9.2014) .
Con sentenze successive, la Cassazione (Sez. 3, n. 30486 del 28/05/2015 Cc., dep. 15/07/2015, Rv. 264392, est. Pezzella) ha rilevato a fronte di un reato, «la cui condotta si sostanzi nell’omissione di un versamento di una somma di danaro all’Erario, ad un Ente Previdenziale o a chicchessia, il profitto si identifica nel risparmio di spesa. E se nelle casse di colui (persona fisica o società) su cui gravava l’obbligo di versamento viene rinvenuto del danaro, trattasi di profitto sequestrabile direttamente riconducibile al reato. Reiteratamene, sul punto, questa Corte ha affermato che la nozione di profitto confiscabile va individuata nel vantaggio patrimoniale di diretta derivazione dal reato (cfr. sez. 6, n. 37556 del 27.9.2007, De Petro Mazarino, rv. 238033). E le Sezioni Unite hanno ribadito il principio secondo cui, in tema di reati tributari, il profitto confiscabile anche nella forma per equivalente è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito dalla consumazione del reato e può dunque consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario (Sez. un., n. 18734 del 31.1.2013, Adami, rv. 255036). Ma vi è di più. Non è necessario che il danaro rinvenuto sia liquido. Questa Corte Suprema, condivisibilmente, ha precisato che in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca prevista dall’art. 322 ter cod. pen., costituiscono “profitto” del reato anche gli impieghi redditizi del denaro di provenienza delittuosa e i beni in cui questo è trasformato, in quanto tali attività di impiego di trasformazione non possono impedire che venga sottoposto ad ablazione ciò che rappresenta l’obiettivo del reato posto in essere (sez. 6, n. 11918 del 14.11.2013 dep. il 12.3.2014, Rossi, rv. 262613). E, ancora di recente, è stato ribadito che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del denaro, costituente il profitto del reato, può colpire sia la somma che si identifica proprio in quella che è stata acquisita attraverso l’attività criminosa sia la somma corrispondente al valore nominale, ovunque sia stata rinvenuta e comunque sia stata investita (sez. 2, n. 14600 del 12.3.2014, Ber Banca spa, fattispecie relativa al sequestro preventivo di denaro, titoli, valori, beni mobili, immobili ed altre utilità nella disponibilità di una banca, corrispondenti al prezzo del reato di “market abuse”, commesso dai legali rappresentati della banca medesima)» (nello stesso senso, cfr. Cass. Pen., Sez. 3, n. 30484 del 28/05/2015 Cc., dep. 15/07/2015, est. Pezzella).
Profitto dei reati tributari ex artt. 2, 5, 8 ed 11 d.lgs. n 74/2000.
Con riferimento al delitto ex art. 2 d.lgs. n. 74/2000, la Corte (Sez. 3, 24965 del 22.4.2015, dep. 16.6.2015, est. Mengoni) ha escluso che il profitto possa individuarsi oltre che nell’imposta evasa anche nel complessivo ammontare delle fatture per operazioni inesistenti indicate nella dichiarazione dei redditi. Infatti, il valore delle fatture per operazioni inesistenti «deve esser considerato con caratteri non assoluti, ma necessariamente relativi; in altri termini, il profitto illecito derivante dalla fattura (e suscettibile di sequestro, quindi di confisca) non è dato dall’importo in sé, nella sua totalità, ma dall’ammontare di imposta che lo stesso consente di evadere, attraverso una indebita indicazione di elementi passivi fittizi nella dichiarazione annuale. Imposta che deve essere calcolata inserendo quella fattura nel complesso degli elementi attivi e passivi risultanti dalla dichiarazione medesima, e che non coincide affatto – ex se – con l’importo che la fattura contiene quale valore (assoluto), ma si identifica con il risultato contabile (relativo) ricavabile solo dalla più ampia lettura di tutti i dati indicati dal dichiarante».
In relazione al delitto ex art. 5 d.lgs. n. 74/2000, la Corte di Cassazione (Sez. 3, Sentenza n. 12810 del 26/01/2016 Cc., dep. 30/03/2016, Rv. 266486, Est. Di Nicola V.) ha dichiarato che, ai fini del della quantificazione del profitto vincolabile con il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, «è irrilevante l’evasione dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP), non trattandosi di un’imposta sui redditi in senso tecnico». La legge non conferisce rilevanza penale all’eventuale evasione dell’imposta regionale sulle attività produttive (non trattandosi di un’imposta sui redditi in senso tecnico) e le dichiarazioni costituenti l’oggetto materiale del reato di cui al d.lgs. n. 74 del 2000, art. 5, «sono solamente le dichiarazioni dei redditi e le dichiarazioni annuali IVA». Una conferma, in tal senso, si trae anche dalla circolare del Ministero delle Finanze n. 154/E del 4 agosto 2000, che motiva l’esclusione della dichiarazione IRAP con la natura reale di siffatta imposta, non incidente sul reddito (cfr. anche Sez. 3, n. 11147 del 15/11/2011, dep. 2012, Prati, Rv. 252359).
In merito al delitto ex art. 8 d.lgs. n. 74/2000 la Corte di Cassazione (Sez. 3, n. 30168 del 22.4.2015, dep. 14.7.2015, est. Amoresano) ha riconosciuto che non vi è incompatibilità ontologicatra tale fattispecie e la confisca per equivalente, atteso il richiamo a tale reato in senso all’art.1 comma 143, L.244/07 ed a quanto stabilmente ritenuto in relazione alla nozione di profitto funzionale alla confisca, nella quale rientrano «non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell’attività criminosa” (cfr.Cass.sez.2 n.45389 del 6/11/2008)». Per contro, «per individuare il profitto, non può farsi riferimento all’evasione di imposta conseguita da chi abbia poi utilizzato le fatture relative ad operazioni inesistenti» ed «il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente non può, invero, essere disposto sui beni dell’emittente per il valore corrispondente al profitto conseguito dall’utilizzatore delle fatture medesime, poiché il regime derogatorio previsto dall’art.9 D.L.vo n.74/2000- escludendo la configurabilità dl concorso reciproco tra chi emette le fatture per operazioni inesistenti e chi se ne avvale- impedisce l’applicazione in questo caso del principio solidaristico, valido nei soli casi di illecito plurisoggettivo (Cass. sez. 3 n.42641 del 26/09/2013)».
Profitto del reato ex art. 11 d.lgs. n. 74/2000. La Cassazione ha affermato che «in tema di reati tributari, il profitto, confiscabile anche nella forma per equivalente, del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte di cui all’art. 11 del D.Lgs. n. 74 del 2000, va individuato nella riduzione simulata o fraudolenta del patrimonio del soggetto obbligato e, quindi, consiste nel valore dei beni idonei a fungere da garanzia nei confronti dell’amministrazione finanziaria che agisce per il recupero delle somme evase costituenti oggetto delle condotte artificiose considerate dalla norma (Sez. 3, Sentenza n. 10214 del 22/01/2015 Cc. dep. 11/03/2015 Rv. 262754, est. Andreazza ; conf. Cass.pen., Sez. 3, n. 33184 del 2013 Rv. 256850). Anche successiva pronuncia della Corte di Cassazione (Sez. 3, n. 40534 del 06/05/2015 Cc., dep. 09/10/2015, Rv. 265036, est. Andronio) ha confermato il principio, già espresso dalla Terza Sezione penale (sentenza n. 16 maggio 2012, n. 25677), secondo cui «con riguardo al reato di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 74 del 2000, il profitto va individuato non nell’ammontare del debito tributario rimasto inadempiuto, ma nella riduzione simulata o fraudolenta del patrimonio su cui il fisco ha diritto di soddisfarsi e, quindi, nella somma di denaro la cui sottrazione all’erario viene perseguita, non importa se con esito favorevole o meno, attesa la struttura di pericolo della fattispecie, attraverso l’atto di vendita simulata o gli atti fraudolenti posti in essere» . Non sembra disconosciuta, in assoluto, la necessità di proporzione rispetto all’importo del credito garantito . Con recente sentenza (Sez. 3, n. 4097 del 19/01/2016 Cc., dep. 01/02/2016, Rv. 265844, est. Scarcella A.) la Cassazione ha statuito che «la confisca per equivalente, disposta in relazione al reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte di cui all’art. 11 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 attuato mediante atti fraudolenti o simulati compiuti sui beni di una società dichiarata fallita, non può riguardare somme superiori all’effettivo profitto conseguito, quantificato decurtando dal valore del patrimonio sottratto le somme recuperate dal fisco a seguito delle cessioni di ramo d’azienda e dei versamenti effettuati dall’imputato» .
Beni vincolabili e non vincolabili: – gravati da ipoteche o altre garanzie; – pegno regolare ed irregolare; – beni della massa fallimentare.
La Cassazione (Sez. 3, Sentenza n. 42464 del 10/06/2015 Cc. , dep. 22/10/2015, Rv. 265392, Est. Andronio AM) ha confermato l’orientamento per cui «in tema di sequestro preventivo, l’esistenza di ipoteche sui beni o di altre forme di garanzia non esclude la assoggettabilità a sequestro dei beni medesimi, trovando il diritto di sequela del creditore ipotecario o pignoratizio soddisfazione solo nella successiva fase processuale, relativa alla confisca ed alla esecuzione della stessa (ex plurimis, sez. 2, 12 febbraio 2014, n. 22176, rv. 259573)» . Né la circostanza che oggetto del sequestro siano strumenti finanziari muta il quadro della situazione. Infatti, «gli artt. 83-bis e seguenti del d.lgs. n. 58 del 1998 prevedono, infatti, che gli strumenti finanziari negoziati o destinati alla negoziazione in mercati regolamentati italiani possono essere trasferiti soltanto tramite intermediari e che soggiacciono ai vincoli, tra cui il pegno, realizzati mediante registrazione in apposito conto tenuto dall’intermediario stesso. Ciò non significa, però, che il proprietario non possa giuridicamente disporne, perché le previsioni normative di cui sopra riguardano proprio atti di disposizione su tali strumenti, quali il loro trasferimento o la costituzione del pegno».
Per contro, nella sentenza n. 42464/2015 cit. in esame trova conferma il principio che «non può essere disposto il sequestro preventivo di un conto corrente bancario le cui somme risultino già costituite in pegno irregolare a garanzia dell’anticipazione concessa dalla banca al correntista», poiché, a sensi dell’articolo 1851 cod. civ., lo stesso attribuisce alla Banca il diritto di proprietà su tale somma .
Ammissibilità del sequestro e della confisca del profitto diretto di reati tributari individuato nei saldi attivi di conti correnti di società dichiarata fallita.
La Cassazione (Sez. 3, n. 30484 del 28/05/2015 Cc., dep. 15/07/2015, est. Pezzella; nello stesso senso Sez. 3, Sentenza n. 23907 del 1.3.2016, dep. 9.6.2016, est. Andreazza) ha ammesso la coesistenza del vincolo derivante dal sequestro funzionale alla confisca diretta e dalla procedura fallimentare, assumendo che le finalità di quello imposto dall’apertura della procedura fallimentare e di quello derivante dal sequestro e/o dalla confisca sono differenti ma non confliggenti . In tal senso nella citata sentenza n. 30484/2015 è stato ripercorso l’iter argomentativo già seguito dalle Sezioni Unite Uniland (Sez. U, Sentenza n. 11170 del 25/09/2014 Cc., dep. 17/03/2015, Rv. 263685, est. Marasca) per risolvere i problemi derivanti dal rapporto tra il sequestro/confisca ex art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001 e la procedura fallimentare, abbandonando l’impostazione della sentenza Focarelli (Sez. U, n. 29951 del 24/05/2004 Cc., dep. 09/07/2004, Rv. 228166, est Fiale) .
La Cassazione muove dal rilievo che la confisca costituisce uno strumento volto a ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato-presupposto, i cui effetti economici sono comunque andati a vantaggio dell’ente collettivo, che finirebbe, in caso contrario, per conseguire un profitto geneticamente illecito. Sussistono limiti alla confisca, ancorché obbligatoria (come nel caso del profitto diretto del reato tributario), e, conseguentemente, anche al sequestro, non potendo essere incisi i diritti del danneggiato dal reato ed i diritti acquisiti dai terzi in buona fede sui beni provento dell’illecito. Come indicato dalle Sezioni Unite Uniland, ad essere salvaguardati non sono i diritti di credito eventualmente vantati da terzi su questi ultimi ma «il diritto di proprietà del terzo acquisito in buona fede, oltre agli altri diritti reali insistenti sui predetti beni, mobili o immobili che siano», come avvalorato dall’espressione, usata dall’art. 240, comma 3, c.p., «appartiene a persona estranea al reato». Spetta al giudice penale valutare se eventuali diritti vantati da terzi siano o meno stati acquisiti in buona fede ed in caso di esito positivo di tale verifica evitare di sottoporre a sequestro o confisca il bene rientrante nella titolarità di un terzo. Il sistema «non pone alcun limite temporale alla prova della acquisizione del diritto, nel senso che non è vero che la titolarità del diritto al terzo debba essere riconosciuta prima che venga disposta la confisca. Può benissimo accadere, infatti, che al terzo venga riconosciuta l’acquisizione in buona fede del diritto dopo che sia stata disposta la confisca »; anche in siffatta situazione deve essere salvaguardato il diritto del terzo e tale ultima ipotesi è proprio quella che si verifica in caso di apertura della procedura fallimentare. In essa, il diritto del terzo viene riconosciuto soltanto alla chiusura della procedura fallimentare, poiché coloro che si insinuano nel fallimento «vantando un diritto di credito non possono essere ritenuti per tale solo fatto titolari di un diritto reale sul bene, perché sarà proprio con la procedura fallimentare che, sulla scorta delle scritture contabili e degli altri elementi conoscitivi propri della procedura, si stabilirà se il credito vantato possa o meno essere ammesso al passivo fallimentare. Il curatore nel contempo individuerà tutti i beni che debbono formare la massa attiva del fallimento, arricchendola degli eventuali esiti favorevoli di azioni revocatorie, e soltanto alla fine della procedura si potrà, previa vendita dei beni ed autorizzazione da parte del giudice delegato del piano di riparto, procedere alla assegnazione dei beni ai creditori. E’ soltanto in questo momento che i creditori potranno essere ritenuti titolari di un diritto sui beni che potranno far valere nelle sedi adeguate». Infatti, «il creditore che non abbia ancora ottenuto l’assegnazione del bene a conclusione della procedura concorsuale non può assolutamente essere considerato “terzo titolare di un diritto acquisito in buona fede” perché prima di tale momento egli vanta una semplice pretesa, ma non certo la titolarità di un diritto reale su un bene. E perciò legittimamente su quei beni potranno insistere il sequestro penale prima e la confisca poi».
2.3.2. Altri temi comuni: – confisca obbligatoria del profitto dei reati tributari in assenza di sequestro; – riparto di competenze tra il giudice della cognizione ed il Pm nell’indicazione dell’importo da sequestrare e nell’individuazione dei beni; – accordo tra contribuente ed Amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito: pagamento dei ratei, procedura coattiva di pignoramento presso terzi ex art. 72-bis del d.P.R. n. 602 del 1973 e riduzione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente; ammissibilità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca dopo l’introduzione dell’art. 12-bis, comma 2, d.lgs. n. 74/2000.
Confisca obbligatoria del profitto dei reati tributari in assenza di sequestro e riparto di competenze tra il giudice della cognizione ed il Pm nell’indicazione dell’importo da sequestrare e nell’individuazione dei beni.
La legge 24 dicembre 2007, n. 244, art. 1, comma 143, aveva esteso l’applicazione dell’art. 322 ter c.p., anche ai reati tributari previsti dagli artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10 bis, 10 ter, 10 quater e 11 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74. Tale disposizione è stata sostituita dall’articolo 12-bis, comma 1, d.lgs. n. 74/2000 che così recita: «nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale per uno dei delitti previsti dal presente decreto, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto».
La Cassazione (Sez. 3, 12013 del 21.1.2015, dep. 23.3.2015, est. L. Orilia) ha confermato alcuni principi rispetto all’istituto in esame affermando che: (i) si tratta di un’ipotesi di confisca obbligatoria «con la conseguenza che la sua applicazione, in forma diretta o per equivalente, non è rimessa alla discrezionalità del giudice, ma consegue obbligatoriamente all’accertamento del reato tributario»; (ii) «il giudice che emette il provvedimento ablativo è tenuto soltanto ad indicare l’importo complessivo da sequestrare, mentre l’individuazione specifica dei beni da apprendere e la verifica della corrispondenza del loro valore al “quantum” indicato nel sequestro è riservata alla fase esecutiva demandata al pubblico ministero (Sez. 3, 12/07/2012, n. 10567, 07/03/2013, Falcherò, Rv. 254918)»; (iii) «che la confisca può essere ordinata anche in assenza di un precedente provvedimento cautelare di sequestro, purché sussistano norme che la consentano o la impongano, a prescindere dalla eventualità che, per l’assenza di precedente tempestiva cautela reale, il provvedimento ablativo della proprietà non riesca a conseguire gli effetti concreti che gli sono propri (Sez. 3, Sentenza n. 20776 del 06/03/2014 Ud. dep. 22/05/2014 Rv. 259661; Sez. 3, 04/02/2013, n. 17066, Volpe, Rv. 255113; Sez. 6, Sentenza n. 5617 del 15/02/1994 Ud. dep. 12/05/1994 Rv. 198827)».
Pur non essendo necessariamente tenuto ad indicare i beni da confiscare, il giudice della cognizione può esercitare una tale facoltà, se ed in quanto i beni siano stati previamente individuati. D’altro canto, qualora di tale facoltà non si sia avvalso, la parte può ricorrere al giudice dell’esecuzione «nel caso dovesse ritenersi pregiudicato quanto ai criteri di scelta adottati dal pubblico ministero, criteri che dovranno essere esercitati nei limiti del valore, indicato dal giudice, dei beni confiscabili, dovendo detto valore essere adeguato e proporzionale all’importo predeterminato e dovendo la stima costituire oggetto di ponderata valutazione (così Sez. 3, Sentenza n. 20776/2014 cit.)».
Accordo tra contribuente ed Amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito: pagamento dei ratei, procedura coattiva di pignoramento presso terzi ex art. 72-bis del d.P.R. n. 602 del 1973 e riduzione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente.
La Corte di Cassazione (Sez. 3, n. 20887 del 15/04/2015 Cc., dep. 20/05/2015, Rv. 263409, Est. Pezzella V.) ha confermato il principio che «in tema di reati tributari, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, qualora sia stato perfezionato un accordo tra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito tributario, non può essere mantenuto sull’intero ammontare del profitto derivante dal mancato pagamento dell’imposta evasa, ma deve essere ridotto in misura corrispondente ai ratei versati per effetto della convenzione, poiché, altrimenti, verrebbe a determinarsi una inammissibile duplicazione sanzionatoria, in contrasto con il principio secondo il quale l’ablazione definitiva di un bene non può mai essere superiore al vantaggio economico conseguito dall’azione delittuosa». Già in precedenza, del resto, la Corte di legittimità (sez. 3, n. 46726 del 12/07/2012 – dep. 03/12/2012, Lanzalone, Rv. 253851; conf. Sez. 3, n. 10120 del 01/12/2010 – dep. 11/03/2011, Provenzale, Rv. 249752) aveva affermato che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente del profitto del reato, corrispondente all’ammontare dell’imposta evasa, può essere legittimamente mantenuto fino a quando permane l’indebito arricchimento derivante dall’azione illecita, che cessa con l’adempimento dell’obbligazione tributaria. Solo «l’adempimento completo dell’obbligazione tributaria fa venir meno la ragione giustificativa della misura ablatoria, non rilevando quindi ai fini della revoca della misura la mera rateizzazione del pagamento (che rileva sul piano amministrativo – tributario de terminando la sospensione della procedura esecutiva di recupero), non essendo questa un’ipotesi equiparata all’adempimento». D’altro canto, «il raggiungimento di un accordo per la rateizzazione del debito tributario con l’Amministrazione finanziaria non può ritenersi esplicare i suoi effetti nel limitato campo amministrativo, estendendo infatti la sua portata anche nel campo penale e, segnatamente, incidere sul quantum della somma sequestrata per equivalente in relazione al profitto derivato dal mancato pagamento dell’imposta evasa. Il mantenimento del sequestro preventivo in vista della confisca nel suo quantum iniziale, nonostante il pagamento – sebbene parziale – del debito erariale, darebbe luogo ad una inammissibile duplicazione sanzionatoria, in contrasto col principio che l’espropriazione definitiva di un bene non può mai essere superiore al profitto derivato (cfr. sez. 3, n. 3260 del 4.4.2012 – dep. il 22/1/2013, Curro, rv. 254679)». In tale evenienza, «il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, qualora sia stato perfezionato un accordo tra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito tributario, non può essere mantenuto sull’intero ammontare del profitto derivante dal mancato pagamento dell’imposta evasa, ma deve essere ridotto in misura corrispondente ai ratei versati per effetto della convenzione, poiché, altri menti, verrebbe a determinarsi una inammissibile duplicazione sanzionatoria, in contrasto con il principio secondo il quale l’ablazione definitiva di un bene non può mai essere superiore al vantaggio economico conseguito dall’azione delittuosa (così, di recente, questa sez. 3, n. 6635 dell’8.1.2014, Cavatorta, rv. 258903)». La stessa sentenza 6635/2014 cit. ha peraltro chiarito che «analogamente, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente del profitto corrispondente all’imposta evasa non può essere mantenuto qualora, a seguito di procedura coattiva di pignoramento presso terzi, intrapresa dall’agente della riscossione ex art. 72-bis del d.P.R. n. 602 del 1973, il debito di imposta sia stato integralmente adempiuto dal terzo debitore in luogo del contribuente effettivamente obbligato verso l’Amministrazione finanziaria, posto che, per effetto di questa operazione solutoria, non residua all’indagato alcun indebito arricchimento o vantaggio economico conseguito dall’azione delittuosa». Ciò significa, dunque, che man mano che intervengano i pagamenti delle rate concordate, l’indagato potrà richiedere al giudice della cautela di ridurre l’importo del sequestro in atto.
Accordo fra contribuente ed erario per la rateizzazione del debito tributario ed ammissibilità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca dopo l’entrata in vigore dell’art. 12, comma 2 bis, del d.lgs. n. 74/2000.
A seguito della entrata in vigore dell’art. 12, comma 2 bis, del d.lgs. n. 74/2000 (norma che recita «la confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro. Nel caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta») la Corte (Sez. 3, n. 5728 del 14/01/2016 Cc., dep. 11/02/2016, Rv. 266038, est. Andreazza; conf. Sez. 3, n. 35246 del 13/07/2016 Cc., dep. 22/08/2016, est. Scarcella) ha ribadito tale approdo, fissando i seguenti principi di diritto: la previsione di cui al comma secondo dell’art. 12-bis cit. «si riferisce ai soli casi di obbligo assunto in maniera formale , tra i quali rientra l’ipotesi di accordo, raggiunto con l’Agenzia delle Entrate, per il pagamento rateale del debito di imposta»; inoltre, tale disposizione, nel disporre che la confisca diretta o di valore dei beni costituenti profitto o prodotto del reato “non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro” e che “nel caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta”, non preclude l’adozione del sequestro preventivo ad essa confisca finalizzato, relativamente agli importi non ancora corrisposti». La Corte ha escluso, anzitutto, per ragioni discendenti dalla necessità di attribuzione di un senso logico alla norma, che il legislatore abbia inteso costruire una disposizione intrinsecamente contraddittoria, «ammettendo da un lato il sequestro e tuttavia, dall’altro, negando la ragione dello stesso posto che la confisca in vista della quale il sequestro ex art. 321, comma 2, c.p.p. sarebbe disposto non potrebbe essere adottata». Piuttosto, «la locuzione “non opera” non significa affatto che la confisca, a fronte dell’accordo rateale intervenuto, non possa essere adottata ma che la stessa non divenga, più semplicemente, efficace con riguardo alla parte “coperta” da tale impegno salvo ad essere “disposta”, come recita il comma 2 dell’art. 12 bis cit., allorquando l’impegno non venga rispettato e il versamento “promesso” non si verifichi; e proprio tale ultima previsione finale pare, anzi, dimostrare che la funzione del sequestro, pur a fronte di impegno a versare in toto la somma dovuta, sarebbe proprio quella di garantire l’efficacia della confisca una volta constatato l’eventuale inadempimento di quanto in precedenza promesso».
2.3.3. Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta: – illiquidità conclamata della persona giuridica ed inutilità della preventiva ricerca del profitto diretto; – onere dell’indagato di allegazione dei beni costituenti profitto diretto; – l’estinzione del reato per prescrizione e inammissibilità della confisca diretta.
Illiquidità conclamata della persona giuridica ed inutilità della preventiva ricerca del profitto diretto.
In relazione ad evenienze di illiquidità conclamata della persona giuridica, sulla scia della indicazioni offerte dalle Sezioni Unite Gubert (Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014 – dep. 05/03/2014, Gubert, Rv. 258647) , la Corte di Cassazione (Sez. 3, n. 6205 del 29/10/2014 Cc., dep. 11/02/2015, Rv. 262770, est. Scarcella; conf. Sez. 3, 39536 del 26.5.2015 dep. 1.10.2015), dopo aver confermato di considerare «legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del profitto rimasto nella disponibilità di una persona giuridica, derivante dal reato tributario commesso dal suo legale rappresentante, non potendo considerarsi l’ente una persona estranea al detto reato», ha precisato che «tuttavia al fine di poter disporre la confisca diretta del profitto nei confronti della persona giuridica è pur sempre necessario che risulti la disponibilità nelle casse societarie di denaro da aggredire, non sussistendo un obbligo per la Pubblica Accusa di dover provvedere alla preventiva ricerca di liquidità o cespiti anche nel caso in cui risulti “ex actis” l’incapienza del patrimonio dell’ente». Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto legittimo il sequestro per equivalente in quanto dagli atti emergeva una situazione di oggettiva illiquidità desumibile dalla autorizzazione alla C.I.G. e dalla approvazione del programma di crisi aziendale .
Onere dell’indagato di allegazione dei beni costituenti profitto diretto.
In caso di mancato reperimento di beni costituenti il profitto del reato, la Corte di Cassazione ha confermato l’onere dell’indagato di indicare i beni sui quali sia possibile disporre la confisca diretta nei confronti della società. In particolare, ha affermato che «quando si procede per reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, è legittimo il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente dei beni dell’imputato sul presupposto dell’impossibilità di reperire il profitto del reato nel caso in cui dallo stesso soggetto non sia stata fornita la prova della concreta esistenza di beni nella disponibilità della persona giuridica su cui disporre la confisca diretta (Sez, 3, n. 42966 del 10/06/2015 Ud., dep. 26/10/2015, Rv. 265158, est. Di Nicola). Secondo la Corte di Cassazione, nella fase successiva all’imposizione del vincolo cautelare, sul presupposto della accertata impossibilità, quantunque transitoria, di reperire presso la persona giuridica il profitto cd. diretto, e prima che sia disposta la confisca per equivalente dei beni nella disponibilità dell’imputato, «vi è un onere di allegazione e prova da parte di quest’ultimo di indicare i beni sui quali sia possibile disporre la confisca diretta nei confronti della società, inosservando il quale la doglianza – che siano stati confiscati per equivalente beni nella sua disponibilità e non quelli costituenti il profitto del reato e asseritamente reperibili presso la persona giuridica – integra una censura generica, priva di specificità, e dunque inammissibile, salvo che dagli atti risulti che il profitto del reato sia reperibile presso la persona giuridica» . La sentenza 42966/2015 cit. chiarisce anche che la prova che ci si trovi di fronte al profitto del reato può dirsi raggiunta «solo quando emerga dagli atti, o sia comunque altrimenti provato, che somme equivalenti a quelle sottratte al pagamento all’erario, siano nella disponibilità della società» (cfr. sul sequestro del denaro come sequestro diretto senza necessità di dimostrare il nesso di pertinenzialità con il reato le Sezioni Unite “Lucci”, cit.) o «nei casi, estremamente rari, in cui sia possibile dimostrare che un determinato bene costituisca il profitto diretto del reato».
L’estinzione del reato per prescrizione e la confisca diretta.
La Corte di Cassazione (Sez. U, Sentenza n. 31617 del 26/06/2015 Ud., dep. 21/07/2015, Rv. 264435, est. Macchia A.) ha individuato diversi effetti dell’estinzione del reato per prescrizione rispetto alla possibilità del giudice di disporre la confisca diretta e di valore (per quest’ultima v. par. 2.3.4.). Nel primo caso, in particolare, è stato chiarito che «il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, può applicare, a norma dell’art. 240, secondo comma, n. 1, cod. pen., la confisca del prezzo del reato e, a norma dell’art. 322-ter cod. pen., la confisca del prezzo o del profitto del reato sempre che si tratti di confisca diretta e vi sia stata un precedente pronuncia di condanna, rispetto alla quale il giudizio di merito permanga inalterato quanto alla sussistenza del reato, alla responsabilità dell’imputato ed alla qualificazione del bene da confiscare come profitto o prezzo del reato».
In tal senso, la Corte ha ritenuto che la confisca del prezzo del reato non presenta connotazioni di tipo punitivo, dal momento che il patrimonio dell’imputato non viene intaccato in misura eccedente il pretium sceleris, direttamente desunto dal fatto illecito, e rispetto al quale l’interessato non avrebbe neppure titolo civilistico alla ripetizione, essendo frutto di un negozio contrario a norme imperative. Il provvedimento di ablazione sarebbe carente, quindi, di finalità tipicamente repressiva, «dal momento che l’acquisizione all’erario finisce per riguardare una res che l’ordinamento ritiene – secondo un apprezzamento legalmente tipizzato – non possa essere trattenuta dal suo avente causa, in quanto, per un verso, rappresentando la retribuzione per l’illecito, non è mai legalmente entrata a far parte del patrimonio del reo, mentre, sotto altro e corrispondente profilo, proprio per la specifica illiceità della causa negoziale da cui essa origina, assume i connotati della pericolosità intrinseca, non diversa dalle cose di cui è in ogni caso imposta la confisca, a norma dell’art. 240, secondo comma, n. 2, cod. pen.». La confisca del prezzo del reato, piuttosto, si connota per il periculum, nucleo dinamico e relazionale delle misure di sicurezza, «attraverso un meccanismo che finisce per correlare fra loro la persona, la cosa ed il vincolo di pertinenzialità tra questa e lo specifico reato che viene in considerazione» e non si atteggia alla stregua di una pena. Da questa premessa, «esce rafforzata l’idea che la stessa non presupponga un giudicato formale di condanna, quale unica fonte idonea a fungere da “titolo esecutivo”, dal momento che, ciò che risulta “convenzionalmente imposto, alla luce delle …pronunce della Corte EDU, e “costituzionalmente compatibile”, in ragione delle linee-guida tracciate dalla Corte costituzionale, in particolare nella già esaminata sentenza n. 49 del 2015, è che la responsabilità sia stata accertata con una sentenza di condanna, anche se il processo è stato definito con una declaratoria di estinzione del reato per prescrizione». Infatti, «l’opposta tesi dovrebbe fare i conti con la gamma non evanescente di valori costituzionali che verrebbero ad essere ineluttabilmente coinvolti da un sistema che, dopo aver accertato la sussistenza del reato, la responsabilità del suo autore e la percezione da parte di questi di una somma come prezzo del reato, non consentisse l’ablazione di tale prezzo, esclusivamente per l’intervento della prescrizione, che giustifica “l’oblio” ai fini della applicazione della pena, ma non impone certo la inapplicabilità della misura di sicurezza patrimoniale». In tal senso, «devono pertanto essere respinte le tesi di chi ritiene sufficiente, ai fini della confisca, un mero accertamento incidentale della responsabilità, dal momento che ciò si tradurrebbe in una non consentita trasformazione della confisca in una tipica actio in rem», poiché «l’accertamento della responsabilità deve dunque confluire in una pronuncia che, non solo sostanzialmente, ma anche formalmente, la dichiari, con la conseguenza che l’esistenza del reato, la circostanza che l’autore dello stesso abbia percepito una somma e che questa abbia rappresentato il prezzo del reato stesso, devono aver formato oggetto di una condanna, i cui termini essenziali non abbiano, nel corso del giudizio, subito mutazioni quanto alla sussistenza di un accertamento “al di là dì ogni ragionevole dubbio”» .
La logica che coinvolge e giustifica la obbligatoria confisca del prezzo del reato in base alla generale previsione dettata dall’art. 240, secondo comma, cod. pen., non risulta diversa da quella che ha indotto il legislatore ad introdurre previsioni speciali di confisca obbligatoria anche del profitto del reato, con «l’attrazione, accanto al prezzo, anche del profitto del reato, all’interno di un nucleo per così dire unitario di finalità ripristinatoria dello status quo ante, secondo la medesima prospettiva volta a sterilizzare, in funzione essenzialmente preventiva, tutte le utilità che il reato, a prescindere dalle relative forme e dal relativo titolo, può aver prodotto in capo al suo autore, e con specifico riferimento a figure di reato per le quali il legislatore ha ritenuto necessario optare per una simile scelta». E ritenuto «quindi, che la confisca diretta del profitto desunto dal reato non presenta, nel caso disciplinato dall’art. 322-ter cod. pen., natura giuridica diversa dalla confisca del prezzo del reato, se ne può dedurre che il concetto di “condanna” necessario e sufficiente per procedere alla confisca anche nella ipotesi in cui sia successivamente intervenuta la prescrizione del reato, deve essere “modulato,” per entrambe le figure di ablazione, in termini fra loro del tutto sovrapponibili».
2.3.4. Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente: – inammissibilità sui beni futuri; – oneri di verifica ed allegazione del Pubblico Ministero e di motivazione del GIP circa l’impossibilità del reperimento e del sequestro in forma specifica dei profitti illeciti; – tipologie di relazioni soggettive rispetto ai beni vincolabili: nozione di disponibilità; beni formalmente intestati a persona estranea al reato; trust e fondi patrimoniali familiari; società schermo; – l’estensione del sequestro all’intero ammontare del profitto nei confronti di ciascun concorrente; – la confisca di valore ed il principio solidaristico nel caso di pluralità di illeciti plurisoggettivi; – criteri per la stima dei beni sequestrati in funzione della confisca per equivalente; l’impossibilità della confisca per equivalente in caso di estinzione del reato per prescrizione.
Inammissibilità del sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente su beni futuri.
In proposito la Cassazione (Sez. 3, n. 4097 del 19/01/2016 Cc., dep. 01/02/2016, Rv. 265844, est. Scarcella A.) ha chiarito che «il sequestro funzionale alla confisca “per equivalente” ha natura sanzionatoria, sicché non sono sottoponibili a tale vincolo i beni futuri, non individuati né individuabili, ma solo quelli che già esistono nella sfera di disponibilità dell’imputato». In contrasto consapevole con decisioni difformi (cfr. Sez. 6, n. 33861 del 10/06/2014 – dep. 30/07/2014, Riggio, Rv. 260176), la Cassazione ha dato continuità all’insegnamento per cui «a differenza del sequestro preventivo previsto dall’art. 321 c.p.p., il sequestro funzionale alla confisca “per equivalente” ha natura sanzionatoria, per cui non sono sottoponibili a tale vincolo i beni meramente futuri (Sez. 3, n. 23649 del 27/02/2013 – dep. 31/05/2013, D’Addario, Rv. 256164). In particolare, ha chiarito la predetta decisione “a differenza di quanto può dirsi per il sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p., il sequestro “per equivalente” ha natura prettamente sanzionatoria e non è suscettibile di proiezione sul futuro. Nel primo caso, dunque, l’esigenza di impedire l’aggravarsi delle conseguenze da reato e di prevenire ulteriori offese al bene protetto autorizza l’autorità giudiziaria a sottoporre a vincolo anche i canoni di locazione e i vantaggi patrimoniali direttamente derivanti dalla gestione dei beni in sequestro (tali sono i fondamenti della citata sentenza Sez. 6^, n.26157 del 16/3/2011); non altrettanto può dirsi per il sequestro disposto ex art. 322 ter c.p., con la conseguenza che il vincolo sui canoni di locazione confermato dal Tribunale non trova giustificazione e deve essere revocato». La Corte ha ulteriormente chiarito: «Laddove il bene costituente profitto o prezzo del reato non sia possibile, è certamente possibile spostare la ablazione su altri beni che ricadono nella sfera di disponibilità dell’imputato, ma a condizione che si tratti di beni che già esistono nella sua sfera di disponibilità, e non certo su beni futuri, non individuati né individuabili».
Oneri di verifica ed allegazione del Pubblico Ministero e di motivazione del GIP circa l’impossibilità del reperimento e del sequestro in forma specifica dei profitti illeciti.
In proposito è stato confermato che costituisce necessario presupposto del sequestro finalizzato a confisca per equivalente la preventiva valutazione, allo stato degli atti, del patrimonio dell’ente beneficiato dal reato da parte del PM in funzione della verifica delle impossibilità di sequestrare il profitto diretto e la motivazione del Gip che dia conto di tale impossibilità, anche transitoria e reversibile, al momento dell’adozione della misura cautelare . Secondo la Cassazione (Sez.3, n. 36530 del 12/05/2015 Cc., dep. 10/09/2015, Rv. 264763), «in tema di reati tributari, il pubblico ministero è legittimato, sulla base del compendio indiziario emergente dagli atti processuali, a chiedere al giudice il sequestro preventivo nella forma per “equivalente”, invece che in quella “diretta”, solo all’esito di una valutazione allo stato degli atti in ordine alle risultanze relative al patrimonio dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato, non essendo invece necessario il compimento di specifici ed ulteriori accertamenti preliminari per rinvenire il prezzo o il profitto diretto del reato». Fattispecie in cui la Corte ha escluso la legittimità dell’emissione di un decreto di sequestro per equivalente in difetto di una verifica, sia pure sommaria e allo stato degli atti, dell’impossibilità di procedere al sequestro di somme di denaro, costituendo quest’ultimo un sequestro in forma “diretta”. In motivazione, la Cassazione ha sottolineato come né il pubblico ministero né il giudice della cautela avessero dato atto dell’impossibilità, fosse anche transitoria, di procedere al sequestro diretto o in forma specifica . Invece l’impossibilità del reperimento e del sequestro in forma specifica dei profitti illeciti condiziona l’adozione di un provvedimento di sequestro preventivo in funzione della futura confisca per equivalente. Lo conferma la lettera della legge perché l’art. 322 ter cod. pen. stabilisce che è ordinata la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello del profitto del reato, ma solo quando non sia possibile la confisca dei beni che costituiscono il profitto diretto del reato stesso. «Da ciò deriva che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente è legittimo solo quando il reperimento dei beni costituenti il profitto del reato sia impossibile, ovvero quando gli stessi non siano aggredibili, e la motivazione che lo dispone dia conto di tale impossibilità. Quindi, da un lato, non è necessario un vero e proprio accertamento quale presupposto della richiesta cautelare di un sequestro preventivo per equivalente e, dall’altro, il pubblico ministero non ha una libera scelta tra il sequestro diretto e quello per equivalente ma, sulla base del compendio indiziario emergente dagli atti processuali, può chiedere al giudice il sequestro preventivo nella forma per “equivalente”, invece che in quella “diretta”, all’esito di una valutazione allo stato degli atti in ordine alle risultanze relative al patrimonio dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato, non essendo invece necessario il compimento di specifici ed ulteriori accertamenti preliminari per rinvenire il prezzo o il profitto nelle casse della società o per ricercare in forma generalizzata i beni che ne costituiscono la trasformazione, incombendo, invece, al soggetto destinatario del provvedimento cautelare l’onere di dimostrare la sussistenza dei presupposti per disporre il sequestro in forma diretta (Sez. 3, n. 1738 del 11/11/2014, dep. 15/01/2015, Bartolini, Rv. 261929)».
Tipologie di relazioni soggettive rispetto ai beni vincolabili: nozione di disponibilità; beni formalmente intestati a persona estranea al reato; trust e fondi patrimoniali familiari; società “schermo fittizio”.
Nozione di disponibilità. In motivazione, la Corte di Cassazione (Sez. 3, n. 4097 del 19/01/2016 Cc., dep. 01/02/2016, Rv. 265844, est. Scarcella A.) ha precisato che possono considerarsi beni che già esistono nella sfera di disponibilità dell’imputato «non solo il denaro e i cespiti di cui il soggetto sia formalmente titolare, ma anche i beni su cui lo stesso possa vantare un potere informale purché diretto, anche se esercitato tramite terzi, ed oggettivo». Infatti, «la definizione di disponibilità dell’indagato, al pari della nozione civilistica del possesso, è riferibile a tutte quelle situazioni nelle quali i beni ricadano nella sfera degli interessi economici del reo, ancorché il potere dispositivo su di essi venga esercitato per il tramite di terzi (v., ad es.: Sez. 3, n. 15210 del 08/03/2012 – dep. 20/04/2012, Costagliola e altri, Rv. 252378)».
Beni formalmente intestati a persona estranea al reato. In proposito la Cassazione (Sez. 3, Sentenza n. 36530 del 12/05/2015 Cc. , dep. 10/09/2015, Rv. 264763, est. Di Nicola V.) ha chiarito che «ai fini dell’applicazione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente su beni formalmente intestati a persona estranea al reato, non è sufficiente la dimostrazione della mancanza, in capo a quest’ultima, delle risorse finanziarie necessarie per acquisire il possesso dei cespiti, essendo invece necessaria la prova, con onere a carico del P.M., della disponibilità degli stessi da parte dell’indagato. In tal senso, «il sequestro preventivo, funzionale alla confisca per equivalente, può ricadere su beni anche solo nella disponibilità dell’indagato, per essa dovendosi intendere la relazione effettuale con il bene, connotata dall’esercizio dei poteri di fatto corrispondenti al diritto di proprietà (Sez. 2, n. 22153 del 22/02/2013, Ucci e altri, Rv. 255950), cosicché i beni, se anche siano formalmente intestati a terzi estranei al reato, devono ritenersi nella disponibilità dell’indagato quando essi, sulla base di elementi specifici e dunque non congetturali, rientrino nella sfera degli interessi economici del reo, ancorché il potere dispositivo su di essi venga esercitato per il tramite di terzi (Sez. 3, n. 15210 del 08/03/2012, Costagliola ed altri, Rv. 252378)». In tal senso, con riferimento a beni immobili sequestrati alla moglie dell’imputato, estranea al reato, è stata stimata adeguata la motivazione circa la disponibilità di essi da parte dell’indagato sulla base di elementi specifici scrutinati “in positivo”, nel senso cioè che non soltanto era stato argomentato circa il fatto che la ricorrente non avesse mai avuto le provviste per entrarne in possesso ma era stato ritenuto, sulla base degli atti, che gli acquisti erano avvenuti con disponibilità finanziarie interamente a carico dell’indagato, pervenendo alla conclusione, non discutibile in sede di legittimità, che l’effettiva titolarità di essi fosse in capo all’indagato che infatti ne aveva il godimento, nonostante risultasse residente altrove e legalmente separato dalla moglie ricorrente. A diverse conclusione, invece, è pervenuta la Corte con riferimento ai beni mobili per i quali mancava la motivazione circa la disponibilità in capo all’indagato di detti beni, avendo il Collegio cautelare motivato esclusivamente “in negativo”, nel senso cioè che la ricorrente non avesse avuto le disponibilità finanziarie per acquisirne il possesso e da ciò solo desumendo che invece la disponibilità, anche di essi, fosse da attribuirsi all’indagato .
Trust e fondi patrimoniali familiari. La Corte (Sez. 3, n. 9229 del 30/06/2015 Cc., dep. 07/03/2016, Rv. 266450, est. Gentili A.) ha dichiarato «legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di beni conferiti in un “trust” dall’indagato, ove sussistano elementi presuntivi tali da far ritenere che questo sia stato costituito a fini meramente simulatori». Fattispecie di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di beni, conferiti in trust, individuati come profitto di reati tributari, nella quale la Corte ha censurato l’ordinanza del Tribunale che aveva accolto l’istanza di riesame non adeguatamente valutando, sulla base della struttura e dei concreti effetti del negozio giuridico posto in essere, le reali finalità elusive del programma di segregazione.
La questione sottoposta all’esame della Corte atteneva alla possibilità di sottoporre, nel corso delle indagini preliminari, a sequestro preventivo strumentale ad una successiva confisca per equivalente, beni in relazione ai quali l’indagato aveva attuato «meccanismi di segregazione patrimoniale, tali da condurre ad una diversificazione fra il suo patrimonio personale, pacificamente aggredibile, e quello segregato, che viceversa potrebbe essere inteso in linea di principio escluso dall’ambito della pretesa ablatoria, e quindi anche cautelare, del giudice penale». In tal senso, ai fini della dimostrazione della assoggettabilità a sequestro del bene formalmente attribuito a soggetti terzi rispetto all’indagato, grava sull’organo della pubblica accusa l’onere di provare l’esistenza di una situazione che avalli concretamente lo scarto fra la realtà apparente e la pretesa realtà effettuale, mentre spetta al giudice della cautela valutare, previa loro stringente controllo, la concludenza dimostrativa degli elementi addotti dalla pubblica accusa onde verificare se i dati probatori, anche meramente indiziari o frutto della applicazione di massime di esperienza, forniti dalla pubblica accusa portano a deporre nel senso della strumentalità, anche tramite modalità simulatorie, della intestazione del bene al terzo esclusivamente, o quantomeno principalmente, finalizzata allo scopo di sottrarre il compendio patrimoniale all’interesse dello Stato alla confisca del profitto e del prodotto del reato. La Corte ha ricordato che la tematica non è nuova ed è stata esaminata a proposito della compatibilità fra l’azione ablatoria del giudice penale ed il conferimento da parte dell’indagato di beni in un fondo patrimoniale familiare . Per quanto attiene al fondo patrimoniale la confiscabilità dei beni in tal modo segregati è ammessa in maniera meno problematica ed articolata di quanto lo sia per il trust. La Corte ha ritenuto di segnalare la «natura atipica del rapporto che lega il trustee ai beni conferiti nel trust, tale da escludere che la sua sia, rispetto ad essi, una posizione dominicale piena tale da esautorare completamente la posizione del disponente, ma dovendosi, per converso, riconoscere che sui beni permanga, quanto meno sotto il profilo della loro destinazione, un vincolo riconducibile alla volontà dell’originario disponente, che pertanto conserva, pur dopo la costituzione del trust, una forma di dominio sui beni ad esso conferiti» .
Nel caso del trust , in particolare, occorre considerare lo stesso «può essere costituito anche a fini meramente simulatori: infatti, in tale ipotesi, la giurisprudenza di questa Corte, ha chiarito che presupposto coessenziale alla stessa natura dell’istituto è che il detto disponente perda la disponibilità di quanto abbia conferito in trust, al di là di determinati poteri che possano competergli in base alle norme costitutive. Tale condizione è ineludibile al punto che, ove risulti che la perdita del controllo dei beni da parte del disponente sia solo apparente, il trust è nullo (sham trust) e non produce l’effetto segregativo che gli è proprio (Corte di cassazione, Sezione V penale, 30 marzo 2011, n. 13276). In tali ipotesi, è ovvio che l’onere probatorio gravante sul Pubblico Ministero è quello proprio dei negozi simulati». La Corte ha dunque rimarcato che «quale strumento negoziale astratto, il trust può essere piegato, invero, al raggiungimento dei più vari scopi pratici; occorre perciò esaminare, al fine di valutarne la liceità, le circostanze del caso di specie, da cui desumere la causa concreta dell’operazione», essendo «irrilevante, quindi, che l’indagato abbia costituito un trust, se quello strumento sia stato utilizzato al fine di sottrarre i beni alla confisca», non potendosi né consentire né ammettere che il semplice utilizzo di un lecito istituto giuridico sia sufficiente ad eludere la rigida normativa prevista nel diritto penale a presidio di norme inderogabili di diritto pubblico. La Cassazione ha ricordato gli elementi elaborati dalla giurisprudenza per individuarne, al di là del conseguito risultato del programma di segregazione, le reali finalità e ritenuto che la revoca del sequestro del trust disposta dal Tribunale non si era attenuta al principio di diritto sopra enunciato .
Società “schermo fittizio”.
La Cassazione (Sez. 3, n. 19761 del 20.1.2015, dep. 30.6.2015, est. L. Esposito) ha confermato il proprio orientamento (Sez. U, Sentenza n. 10561 del 30/01/2014 Rv. 258646), secondo cui «non è possibile la confisca per equivalente di beni della persona giuridica per reati tributari commessi da suoi organi, salva l’ipotesi in cui la persona giuridica stessa sia in concreto priva di autonomia e rappresenti solo uno schermo attraverso cui l’amministratore agisca come effettivo titolare», come affermato in numerose pronunzie (nello stesso senso Sez. 3, n. 42476 del 20/09/2013, Salvatori, Rv. 257353; Sez. 3, n. 42638 del 26/09/2013, Preziosi; Sez. 3, n. 42350 del 10/07/2013, Stigelbauer, Rv. 257129; Sez. 3, n. 33182 del 14/05/2013, De Salvia, Rv. 255871, già citata; Sez. 3, n. 15349 del 23/10/2012, dep. 2013, Gimeli, Rv. 254739; Sez. 3, n. 1256 del 19/09/2012, dep. 2013, Unicredit s.p.a., Rv. 254796; Sez. 3, n. 33371 del 04/07/2012, Failli; Sez. 3, n. 25774 del 14/06/2012, Amoddio, Rv. 253062; Sez. 6, n. 42703 del 12/10/2010, Giani). Infatti, in un ipotesi di società schermo «la trasmigrazione del profitto del reato in capo all’ente non si atteggia alla stregua di trasferimento effettivo di valori, ma quale espediente fraudolento non dissimile dalla figura della interposizione fittizia; con la conseguenza che il denaro o il valore trasferito devono ritenersi ancora pertinenti, sul piano sostanziale, alla disponibilità del soggetto che ha commesso il reato, in “apparente” vantaggio dell’ente ma, nella sostanza, a favore proprio». Nel caso esaminato, la Cassazione ha escluso che la mancanza assoluta di autonomia della società di capitali rispetto alla persona fisica dell’indagato, con funzione di mero schermo, potesse basarsi esclusivamente sulla composizione societaria, specie ove siano coinvolti numerosi altri soggetti, ancorché familiari dell’indagato.
L’estensione del sequestro all’intero ammontare del profitto nei confronti di ciascun concorrente.
Secondo la Cassazione, il concorso di persone nel reato implica l’imputazione dell’intera azione delittuosa e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente ed il sequestro non è collegato all’arricchimento personale di ciascuno dei correi, bensì alla corresponsabilità di tutti nella commissione dell’illecito (cfr. Sez. 2, n. 10838 del 20/12/2006 (dep. 2007), Napolitano, Rv. 235832). Dunque «la misura reale può incidere contemporaneamente od indifferentemente sui beni di ciascuno dei concorrenti, fermo restando che il valore dei beni sequestrati non può complessivamente eccedere il valore del prezzo o del profitto del reato, in quanto il sequestro preventivo non può avere un ambito più vasto della futura confisca (così, Cass., Sez. 3, 24967 del 14.5.2015 dep. 16.6.2015; cfr. su tale ultimo aspetto, v. Sez. 6, n. 28264 del 26/3/2013, Anemone e altro, Rv. 255610. Conf. Sez. 2, n. 2488 del 27/11/2014 (dep. 2015), Giacchetto, Rv. 261853; Sez. 6, n. 34566 del 22/5/2014, Pieracci, Rv. 260815; Sez. 6, n. 17713 del 18/2/2014, Argento, Rv. 259338; Sez. 2, n. 47066 del 3/10/2013, Pieracci e altro, Rv. 257968).
La confisca di valore ed il principio solidaristico nel caso di pluralità di illeciti plurisoggettivi.
La Corte (Sez. 3, n. 27072 del 12/05/2015 Cc., dep. 26/06/2015, Rv. 264343, est. Pezzella; nello stesso senso Sez. 3, Sentenza n. 891 del 11/11/2015 Ud., dep. 13/01/2016, est. Mengoni) ha altresì affermato il principio che «nel caso di pluralità di illeciti plurisoggettivi, la confisca di valore può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato, ma l’espropriazione non può eccedere nel “quantum” né l’ammontare del profitto complessivo, né in caso di imputato cui non sono attribuibili tutti i reati accertati – il profitto corrispondente ai reati specificamente attribuiti al soggetto attinto dal provvedimento ablatorio». Fattispecie relativa ad associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati tributari, nella quale la Corte ha annullato il provvedimento di confisca, con rinvio per l’individuazione del profitto anche avendo riguardo alla necessità di individuare gli specifici reati fine attribuibili a ciascun coimputato. Se di fronte ad un illecito plurisoggettivo «deve applicarsi il principio solidaristico che informa la disciplina del concorso nel reato e che implica l’imputazione dell’intera azione delittuosa e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente», «perduta l’individualità storica del profitto illecito, la confisca di valore può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato (entro logicamente i limiti quantitativi dello stesso), non essendo esso ricollegato, per quello che emerge allo stato degli atti, all’arricchimento di uno piuttosto che di un altro soggetto coinvolto, bensì alla corresponsabilità di tutti nella commissione dell’illecito, senza che rilevi il riparto del relativo onere tra i concorrenti, che costituisce fatto interno a questi ultimi (cfr. anche anche sez. 2, n. 31989 del 14/6/2006, Troso; n. 38599 del 20.9.2007, Angelucci; n. 9786 del 21.2.2007 Alfieri; n. 10838 del 20/12/2006, Napoletano; n. 30729 del 6/7/2006,Carere)» . Secondo il Collegio il principio solidaristico «può trovare la sua massima espansione di fronte ad un provvedimento provvisorio qual è il sequestro, ma non certo per la confisca che, ancorché per equivalente, non può andare oltre quello che è il profitto complessivo del singolo reato» e che, se «non dovrà riguardare la quota del profitto del singolo, potendo evidentemente eccederla, ma il quantum complessivo della stessa», comunque «non può andare oltre il profitto realizzato dai concorrenti di quello specifico reato» . Alla luce di tale principio, la Cassazione ha indicato al giudice di rinvio, in sede di patteggiamento con confisca per più reati fine tributari, non tutti riferiti agli stessi imputati, di uniformarsi a queste regole: a) individuare non un profitto del reato omnicomprensivo, bensì relazionato anche ai diversi reati-fine, cui evidentemente non concorrono tutti i destinatari dei provvedimenti ablatori; b) dare conto dell’insussistenza di un profitto diretto da confiscare; c) indicare con chiarezza i valori monetari in gioco; d) specificare il valore dei singoli beni in sequestro e i criteri con cui si è pervenuti all’individuazione dello stesso.
Criteri per la stima dei beni sequestrati in funzione della confisca per equivalente.
La Cassazione (Sez. 3, Sentenza n. 9146 del 14/10/2015 Cc., dep. 04/03/2016, Rv. 266453, est. Aceto A.) ha statuito che «in tema di sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, il valore dei beni da sottoporre a vincolo deve essere adeguato e proporzionato al prezzo o al profitto del reato e il giudice, nel compiere tale verifica, deve fare riferimento alle valutazioni di mercato degli stessi, avendo riguardo al momento in cui il sequestro viene disposto». Fattispecie di sequestro di immobile finalizzato alla confisca e alla acquisizione al patrimonio comunale, in cui la Corte ha ritenuto illegittimo il ricorso al valore catastale del bene, che la difesa aveva evidenziato essere sensibilmente sproporzionato rispetto al valore iscritto nel bilancio del comune beneficiario.
La Cassazione ha ricordato che, al fine di evitare che la misura cautelare del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente si riveli eccessiva nei confronti del destinatario ed in ossequio al principio di adeguatezza, gradualità e proporzionalità comune a tutte le misure cautelari, corrisponde a suo stabile orientamento esigere che «anche il valore delle cose sequestrate deve essere adeguato e proporzionale all’importo del credito garantito e la stima deve costituire oggetto di ponderata valutazione preventiva da parte del giudice della cautela, controllabile dal Tribunale del riesame e non differibile alla fase esecutiva della confisca, sicché il valore dei beni da sottoporre a vincolo deve essere adeguato e proporzionato al prezzo o al profitto del reato e il giudice, nel compiere tale verifica, deve fare riferimento alle valutazioni di mercato degli stessi, avendo riguardo al momento in cui il sequestro viene disposto (Sez. 3, n. 17465 del 22/03/2012, Crisci, Rv. 252380; Sez. 3, n. 3260 del 04/04/2012, Currò, Rv. 254679; Sez. 3, n. 42639 del 26/09/2013, Lorenzini, Rv. 257439; Sez. 6, n. 15807 del 09/01/2014, Anemone, Rv. 259702; Sez. 2, n. 36464 del 21/07/2015, Armeli, Rv. 265059)».
In particolare, poiché i beni immobili confiscati ai sensi dell’art. 322-ter, cod. pen. sono acquisiti di diritto e gratuitamente al patrimonio disponibile del comune nel cui territorio si trovano (art. 6, comma 4, legge 27 marzo 2001, n. 97) ed i beni che entrano a far parte del patrimonio degli enti locali sono valutati secondo le modalità previste dal principio applicato dalla contabilità economico-patrimoniale di cui all’allegato n. 4/3 del d.lgs. 23 giugno 2011, n. 118, e successive modificazioni (art. 230, comma 4, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267) assume rilievo tale allegato 4/3 (principio contabile applicato concernente la contabilità economico-patrimoniale degli enti in contabilità finanziaria) . Ora, «se gli immobili acquisiti gratuitamente al patrimonio immobiliare del comune devono essere iscritti al loro valore di mercato, non si può utilizzare, in sede di sequestro finalizzato alla confisca, un criterio eterogeneo che rende concreto e immediatamente percepibile il rischio della violazione dei principi sopra indicati di adeguatezza, gradualità e proporzionalità della misura cautelare reale». Ciò «non equivale, naturalmente, ad affermare che il valore catastale dell’immobile non sia utilizzabile, soprattutto se non si discosta sensibilmente dal valore di mercato del bene da sequestrare. Ma quando la sproporzione tra i due valori è tale da pregiudicare il rispetto dei principi di gradualità sopra indicati è dovere del giudice fornire una risposta convincente sul motivo di una scelta apparentemente contraria al principio di adeguatezza e gradualità» . In concreto, non sarà eludibile l’esame e la valutazione delle eventuali confutazioni sollevate dall’indagato, in particolare ove documentate e specifiche in ordine alla sproporzione del sequestro.
L’impossibilità della confisca per equivalente in caso di estinzione del reato per prescrizione.
Come si anticipava (cfr. par.2.3.3.) la Corte di Cassazione (Sez. U, Sentenza n. 31617 del 26/06/2015 Ud., dep. 21/07/2015, Rv. 264435, est. Macchia A) ha individuato diversi effetti della estinzione dei reato per prescrizione rispetto alla confisca diretta e di valore. In quest’ultimo caso, «il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, non può disporre, atteso il suo carattere afflittivo e sanzionatorio, la confisca per equivalente delle cose che ne costituiscono il prezzo o il profitto». Tale misura, di natura certo ripristinatoria (della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l’imposizione a carico del responsabile di un sacrificio patrimoniale di valore corrispondente all’arricchimento provocato dall’illecito) è connotata da sicura finalità sanzionatoria ed in particolare «dal carattere afflittivo e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, mentre esula dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza (ex plurimis, Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255037; Sez. 3, n. 18311 del 06/03/2014, Cialini, Rv 259103; Sez. 3, n. 23649 del 27/02/2013, D’Addario, Rv. 256164)» .