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sabato 27 Luglio 2024
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Renzi, la sinistra e le tasse

 Fisco Equo riprende l’articolo di Roberto Tamborini pubblicato sul sito www.nelmerito.com, che analizza la relazione tra pressione fiscale e capitale produttivo, alla luce della politica fiscale intrapresa dal governo Renzi.  

Durante l’estate Renzi ha annunciato l’abolizione dell’imposta sulla prima casa, perché “le tasse in Italia sono troppo alte” e “ridurre le tasse è di sinistra”. Il senso economico dell’ennesimo intervento in questo settore è, quanto meno, controverso, come segnalano anche i commenti non positivi della Commissione europea. Ma per Renzi si tratta innanzitutto di un cavallo di battaglia della destra italiana che egli vuol cavalcare secondo la sua strategia di andare ad occupare quello spazio politico, e sul quale buona parte della sinistra invece non vuol salire. La sinistra moderna e vincente del XXI secolo deve tagliare le tasse? E quali?

Una delle critiche rivolte alla sinistra tradizionale è di avere una visione ideologica (positiva) delle tasse, esclusivamente imperniata sulla loro funzione redistributiva del reddito e della ricchezza, e sul loro contenuto valoriale di partecipazione alla spesa collettiva. “Tassa e spendi” è la caricatura di destra della politica fiscale dei governi “socialisti” – il Presidente Obama ne sa qualcosa. D’altro canto, anche la visione opposta (negativa) che delle tasse vede esclusivamente il lato invasivo e distorsivo dello Stato, e la limitazione della libertà di spesa personale, è altrettanto ideologica. Il fatto è che il sistema fiscale è il pezzo più complesso e delicato della cassetta degli strumenti della politica economica. Qualunque visione che ne enfatizzi un aspetto, ignorando la complessità delle sue ramificazioni, è nociva e può produrre seri danni al buon governo dell’economia.

L’ideologia si nutre di luoghi comuni. Uno è che la pressione fiscale italiana è la più alta del mondo. Se per pressione fiscale intendiamo, correttamente, il prelievo complessivo annuale dello Stato rispetto al PIL, questo luogo comune va molto ridimensionato. Dall’ingresso nella Zona Euro, il prelievo totale in Italia è oscillato tra il 43% e il 45% del PIL, rimanendo al di sotto della media della Zona Euro (primi 12 paesi) fino al 2006 (figura 1).

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Fonte: Eurostat

Negli anni successivi c’è stato un aumento di circa 2 punti di PIL dovuto alle politiche di austerità, che ci hanno portato al di sopra della media. La moratoria dell’austerità degli ultimi due anni ci ha riportati al di sotto. Ad ogni modo si sappia che l’Italia non è, e non è mai stato, il paese europeo con la maggior pressione fiscale. Stabilmente in cima alla classifica ci sono, come noto, i paesi nordici dove lo Stato preleva circa il 50% del PIL. L’Italia gravita nella fascia medio-alta in compagnia degli altri paesi più avanzati del continente, come Francia, Germania e Olanda. E’ interessante osservare che stabilmente in fondo alla classifica della pressione fiscale si trovano, o almeno si trovavano fino alla crisi del debito, i paesi meno avanzati, cioè Spagna, Portogallo, Grecia e Irlanda.

Non c’è una relazione semplice e diretta tra pressione fiscale e livello di sviluppo di un paese. L’inferno (o il paradiso) fiscale sta nei dettagli: com’è distribuito il carico fiscale tra soggetti e cespiti diversi, qual è il livello di evasione e di elusione, e naturalmente come vengono spesi i soldi pubblici. E’ ben noto agli studiosi che i veri problemi fiscali del nostro paese stanno in questi “dettagli”, non nel valore assoluto del prelievo o della spesa. La sinistra che si accoda alla destra su questo luogo comune viene meno alla propria ragione sociale e non giova al buon governo del paese.

La visione liberista delle tasse mette l’accento sul singolo cittadino. In effetti, il PIL può essere una grandezza economica poco tangibile a livello individuale. Quanto costa lo Stato a ciascuno di noi? Il prelievo fiscale procapite è un indicatore che trovate raramente, ma è suggestivo. Ebbene, se in Italia ci fosse l’imposta capitaria che piaceva alla signora Thatcher, e tutti la pagassero, il cittadino italiano non sarebbe il più tartassato d’Europa (figura 2). Tenendo conto dell’inflazione, il prelievo procapite è nell’ordine di 11000 euro l’anno, contro una media della Zona Euro che è salita dagli 11500 del 2000 ai 12500 del 2014.

Figura 2. Prelievo fiscale procapite a prezzi costanti

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Fonte: Eurostat

Come mai nel nostro paese la pressione fiscale sul PIL è cresciuta sopra la media europea, mentre il prelievo procapite è rimasto costantemente al di sotto? La ragione principale di questo apparente paradosso è che in questi anni il nostro reddito medio ha perso terreno rispetto a quello dei concittadini europei. Lo Stato italiano non è diventato più esoso in assoluto, ma il reddito del suo contribuente medio è diventato un po’ più basso di quello degli altri.

Sapendo che il proprio contribuente medio è un po’ meno “capiente” − per usare il gergo tributario − lo Stato non dovrebbe cercare di prelevare meno? La risposta più semplice e popolare è sì. Ma tagliare le tasse non ha sempre solo effetti positivi. Possono prodursi effetti indiretti sull’economia e sul benessere dei contribuenti, effetti che a lungo andare possono essere anche inattesi o indesiderabili. Quindi il taglio andrebbe fatto avendo ben in chiaro in mente qual è l’effetto finale desiderato (oltre ad aumentare i voti, of course), quali sono precisamente gli effetti indiretti, e di conseguenza quanto e cosa è meglio tagliare. A questo scopo l’autorità fiscale deve porsi una domanda antipatica e difficile: come vengono spesi i soldi non più prelevati dallo Stato? Un esempio storico su grande scala di effetti indesiderabili e inaspettati di riduzione del prelievo fiscale è quello che ha dato vita al best seller mondiale di Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo. Il libro è famoso per aver rimesso al centro del dibattito sia economico che politico il tema della disuguaglianza dei redditi e della ricchezza nei paesi capitalistici avanzati. Il metro di giudizio di Piketty non è morale, ma essenzialmente economico-politico, scritto a chiare lettere nel passo dell’articolo 1 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 citato in capo al libro: “Le distinzioni sociali non possono che fondarsi sull’utilità comune”.

A partire dagli anni ’80 del secolo scorso si sviluppa la rivoluzione neoliberista, i cui imperativi fiscali sono la riduzione complessiva del carico fiscale, soprattutto per i percettori di redditi da capitale (fondiario, industriale, finanziario) e di redditi manageriali, e la corrispettiva riduzione delle funzioni e della spesa del settore pubblico dell’economia. Uno degli argomenti principali, in chiave d’interesse collettivo, è che questa ricetta avrebbe dato giusto premio e giusto incentivo a chi ha mezzi e talenti per fare e rischiare, liberando gli animal spirits del capitalismo e rimettendo in moto la più potente macchina del benessere inventata sinora. Il prevedibile aumento delle disparità di reddito e ricchezza sarebbe andato a beneficio di tutti secondo il famoso motto: “quando l’acqua si alza tutte le barche salgono”. La tesi di Piketty è che questa nuova era di prosperità collettiva non si è materializzata. Al contrario, il capitalismo del XXI secolo sembra avviato su un mesto sentiero che gli economisti americani chiamano di “stagnazione secolare” (secular stagnation). Vediamo qualche dato per capire meglio la questione.

L’epicentro della rivoluzione fiscale neoliberista son stati i paesi anglosassoni. Le figure 3 e 4 mostrano l’andamento dell’aliquota massima d’imposta sul reddito e sul patrimonio dal 1900 ad oggi negli Stati Uniti e Regno Unito, a confronto con Germania e Francia. Il trattamento fiscale dei più ricchi divenne via via più severo fino agli anni ’70; oggi è tornato simile a quello di un secolo fa. Nel resto del mondo capitalistico questi fenomeni sono stati meno marcati, ma con analoghe tendenze di fondo.

Figura 3. Aliquota massima dell’imposta sul reddito

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Fonte: T. Piketty, op. cit., Fig. 14.1

 

Figura 4. Aliquota massima dell’imposta sul patrimonioSchermata_10-2457299_alle_00.14.07.png

Fonte: T. Piketty, op. cit., Fig. 14.2

 

Di conseguenza si è interrotta e poi invertita l’onda lunga di perequazione sociale del cinquantennio 1930-80. La figura 5 illustra una delle famose “curve a U” di Piketty, ossia la quota del reddito nazionale appropriata dal primo 1% dei contribuenti. L’andamento è ovviamente speculare a quello dell’aliquota sul reddito. Nell’Europa continentale (tra cui l’Italia) e in Giappone la ‘U’ è più piatta, ma sussiste l’inversione di tendenza degli ultimi trent’anni. Come mostra la figura 6, anche la quota della ricchezza patrimoniale nazionale del primo 1% dei contribuenti riprende a salire dopo il 1970, e su questo fronte Europa e Stati Uniti seguono un profilo assai simile.

Figura 5. Quota del reddito nazionale del primo centile. Paesi anglosassoniSchermata_10-2457299_alle_00.15.08.png

 

Europa continentale e Giappone

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Fonte: T. Piketty, op. cit., Figg. 9.2 e 9.3

 

Figura 6. Quota della ricchezza del primo centileSchermata_10-2457299_alle_00.16.11.png

Fonte: T. Piketty, op. cit. Tab. S10.1

 

Il problema è che mentre la quota di reddito e ricchezza appropriata dal top della popolazione si riportava verso i livelli prebellici, la performance dell’economia in termini d’investimenti, crescita, produttività, innovazione tecnologica, e quindi, secondo la tesi classica di Kuznets, anche riequilibrio della ricchezza e innalzamento del benessere delle classi meno abbienti, è stata assai più modesta. La ricerca sulla stagnazione secolare è in pieno svolgimento, ma pochi semplici dati aiutano a capire qual è il problema.

Le figure 7 e 8 presentano due indicatori primari di sviluppo di lungo termine, la crescita del PIL procapite, che è la base per la distribuzione del reddito, e quella del prodotto per ora lavorata, che misura il passo della produttività del lavoro. I paesi sono quelli più rappresentativi delle diverse famiglie economiche occidentali considerate anche da Piketty.

Figura 7. Tassi di crescita medi decennali del PIL procapite

 

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Fonte: Eurostat

Figura 8. Tassi di crescita medi decennali del prodotto per ora lavorataSchermata_10-2457299_alle_00.27.58.png

Fonte: Eurostat

 

Ebbene nel corso della rivoluzione fiscale neoliberista il tasso di crescita annuale medio di entrambi gli indicatori è costantemente diminuito con sorprendente sincronia in tutti i paesi considerati, da quelli meno a quelli più rivoluzionari. Il fenomeno è di lunga durata, e non è dovuto all’attuale crisi economico-finanziaria. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito si osserva un incremento della produttività oraria in seguito al boom dell’informatica e telecomunicazioni di fine secolo, ma è stato di durata relativamente breve. Inoltre, come abbiamo visto, ciò non ha impedito il rallentamento della crescita del prodotto procapite. Negli altri paesi il declino è stato costante e inesorabile. Oggi tutti i campioni del capitalismo occidentale hanno sostanzialmente dimezzato il loro ritmo di crescita e produttività rispetto agli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Non possiamo stabilire qui un nesso di causa-effetto, ma la domanda come vengono spesi i soldi non più prelevati dallo Stato appare pertinente.

Rispondere a questa domanda è difficile, ma abbiamo qualche indizio. Probabilmente le maggiori risorse a disposizione dei soggetti beneficiati dalla rivoluzione fiscale non sono state spese come fecero i capitalisti delle precedenti generazioni, ossia nell’accumulazione del capitale industriale. La figura 9 mostra come il suo tasso di crescita netto sia anch’esso inesorabilmente sceso in tutti i paesi. Negli anni del “fisco socialista” lo stock di capitale produttivo cresceva in media tra il 3% e il 5% all’anno, oggi quasi di un terzo.

Figura 9. Tassi di crescita medi decennali del capitale produttivoSchermata_10-2457299_alle_00.29.05.png

Fonte: Eurostat

Ancor più significativo è il fatto evidenziato dalla figura 10, ossia che il capitale industriale ha smesso di crescere non solo in assoluto, ma anche in rapporto al fattore lavoro, così che l’incremento di mezzi di produzione messo a disposizione dei lavoratori è molto inferiore che in passato. E’ giusto ricordare che gli studi più recenti sulla crescita economica hanno ridimensionato il ruolo dell’accumulazione del capitale fisico in quanto tale, enfatizzando invece una serie di altri fattori immateriali, come l’accumulazione di competenze e la diffusione delle conoscenze, il cosiddetto capitale umano, in grado di creare innovazione e progresso tecnologico. Tuttavia secondo diversi studi il veicolo dei processi di crescita trainati da conoscenza e innovazione è proprio l’intensità di capitale, ossia il rapporto capitale/lavoro. Non stupisce quindi quel che mostrano le figure 10 (declino della crescita dell’intensità di capitale) e 8 (declino della crescita della produttività). I dati che ho presentati non affermano che la rivoluzione fiscale neoliberista sia stata la causa della stagnazione secolare. Però ci dicono che essa non l’ha impedita anche laddove è stata più intensa, né si è realizzata la promessa di una nuova era di sviluppo e benessere generale.

Figura 10. Tassi di crescita medi decennali del capitale netto per occupato

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Fonte: Eurostat

 

In concomitanza con l’annuncio di Renzi dell’abolizione dell’imposta sulla prima casa, il quotidiano La Repubblica pubblicava il testo di una conferenza dell’ex leader laburista Tony Blair, sotto il titolo “Per vincere la sinistra deve adattarsi al mondo” (23-7-2015). Blair rievoca e spiega come vinse due mandati ventun anni orsono, assecondando i ceti che aspiravano a partecipare direttamente all’arricchimento promesso dal New Capitalism piuttosto che attraverso la mediazione della mano pubblica. “Dovremmo sempre schierarci a favore della giustizia sociale, affinché ricchezza, opportunità e potere siano affidati alle mani di molti e non di pochi. Ma non è quella la sfida. La vera sfida è capire come farlo nel mondo moderno”. La sfida del mondo moderno di oggi per la sinistra è come correggere un’estensione delle disuguaglianze divenuta socialmente ed economicamente insostenibile ed uscire dalla trappola della stagnazione secolare. Detassare la proprietà immobiliare forse non è il modo migliore o più impellente per cominciare.

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