La riforma fiscale disegnata dalla legge delega varata dal Governo ed ora all’esame del Parlamento rischia di diventare un’occasione mancata. In un precedente intervento avevamo auspicato una riforma organica del sistema impositivo italiano al fine di renderlo più equo ed efficiente ipotizzando l’introduzione di una nozione univoca di reddito imponibile, modellata sul concetto di reddito entrata, nonché, di ridistribuire il peso della tassazione dal reddito prodotto al patrimonio. A tale ultimo fine, si indicava l’opportunità di rilanciare l’imposta di successione e di riformare il catasto, in modo da avere valori patrimoniali e delle rendite più vicini possibili a quelli di mercato. Sotto quest’ultimo profilo, indubbiamente, la legge delega, all’articolo 7, contiene buoni propositi, se non fosse per il fatto che il riallineamento dei valori catastali a quelli di mercato produrrà effetti fiscali non prima del 2026.
Nel complesso, i criteri direttivi contenuti nella legge delega non appaiono tali da sortire
l’effetto di determinare una riforma sostanziale ed organica del sistema fiscale domestico.
Infatti, riguardo all’imposizione sul reddito viene confermato il sistema duale e cioè di
tassare con aliquota proporzionale i redditi (o la frazione di essi) derivanti dall’impiego di
capitale e con aliquote progressive i redditi derivanti da lavoro (articolo 3, lett. a). Va
sottolineato che per redditi derivanti dall’impiego di capitale si intendono quelli derivanti
sia dall’impiego di capitale finanziario che da immobili e che per essi si sta pensando ad una
cedolare secca allineata per tutti al 23%, pari, attualmente, all’aliquota prevista per il primo
scagliione IRPEF ed inferiore all’imposta sostitutiva del 26%, attualmente prevista per i
redditi di capitale e diversi, sia di natura finanziaria che immobiliare. Se a ciò si aggiunge
l’intenzione di prevedere una forma di imposizione omogenea per tutte le attività di impresa
(quasi sicuramente consistente in un’imposizione proporzionale allineata all’aliquota IRES),
a prescindere dal fatto che siano esercitate in forma individuale, di società di persone o di
capitali (articolo 4, lett. D), ne deriva che l’imposizione progressiva graverà soltanto sui
redditi da lavoro. Con specifico riferimento all’imposizione sul reddito delle persone fisiche, a parte l’intenzione di rivedere gli scaglioni e le aliquote in modo da ridurre l’incidenza del prelievo sui ceti medi, di favorire l’ingresso nel mercato del lavoro per i giovani e per i “secondi percettori di reddito”, nonché, di addivenire ad una semplificazione delle tax expenditure, non sembra di poter evincere altro.
Ora ci soffermiamo in particolare su due profili e cioè quello concernente i riflessi dei criteri direttivi ivi enunciati sulla determinazione dell’imponibile IRES e sulla disciplina del processo tributario, rinviando ad altri interventi ulteriori approfondimenti su altri aspetti della delega. Relativamente alla tassazione sulle società di capitali, vi è un timido tentativo di semplificazione consistente nell’avvicinare l’imponibile IRES al risultato economico di bilancio, “con particolare riferimento agli ammortamenti (articolo 4, lett. B). Tale criterio direttivo si muove nel solco del progressivo ampliamento della derivazione rafforzata dell’imponibile fiscale dalle risultanze del bilancio. Tale processo di derivazione è stato inaugurato dalla L. n. 244/2007, allo scopo di attribuire rilevanza fiscale ai criteri di qualificazione, classificazione e imputazione temporale previsti dai principi contabili internazionali IAS/IFRS, in modo da avvicinare l’imponibile fiscale al risultato economico scaturente dal bilancio redatto secondo detti principi contabili. Di poi, con il D.L. n. 244 del 30/12/2016 tale meccanismo di derivazione rafforzata è stato esteso anche ai soggetti, diversi dalle microimprese (di cui all’art. 2435-ter c.c.), che redigono il bilancio secondo i principi contabili nazionali OIC. L’introduzione della cennata derivazione rafforzata, se da un lato ha avvicinato l’imponibile fiscale al risultato economico di bilancio, dall’altro ha determinato complessi problemi di integrazione dei criteri di qualificazione, classificazione ed imputazione temporale previsti dai principi contabili, soprattutto da quelli internazionali, nel sistema di determinazione dell’imponibile IRES, disciplinato dal Titolo II del D.P.R. n. 917/1986 (TUIR).
Tali problemi scaturiscono, soprattutto, dalla difficoltà di individuare correttamente i limiti dell’operatività della derivazione rafforzata, connessi, ad esempio, alla distinzione tra qualificazioni-valutazioni, per le quali la derivazione rafforzata è operante, e valutazioni- quantificazioni, per le quali non opera la derivazione dal bilancio. In tale ultimo ambito rientrano, quali componenti valutativo-quantitativi, anche gli ammortamenti. Orbene, nella prospettiva di una possibile estensione della derivazione rafforzata anche agli ammortamenti, occorre considerare gli effetti che una progressiva estensione dell’operatività di siffatto meccanismo implica sull’attività di controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria. Infatti, al crescere della rilevanza fiscale dei criteri di redazione del bilancio, l’attività di controllo fiscale diviene, inevitabilmente, un controllo sul bilancio tout court, ossia, sulla corretta applicazione dei principi contabili di riferimento. Perciò, si ritorna, anche in questa sede, sulla considerazione che una vera semplificazione non può derivare dal costante avvicinamento dell’imponibile fiscale al risultato economico di bilancio, ma dovrebbe consistere in una netta separazione del bilancio, destinato a soddisfare le esigenze informative di tutti gli stakeholders dell’impresa, e l’imponibile fiscale, che dovrebbe essere preordinato a soddisfare preminentemente l’esigenza di una equa contribuzione ai carichi pubblici. In tale guisa, una vera semplificazione potrebbe essere quella di connotare l’imponibile fiscale alla stregua del reddito entrata, per la cui determinazione si potrebbe attingere ai dati della fatturazione elettronica (generalizzandone
l’obbligatorietà).
Per quanto concerne il processo tributario, l’articolo 9 del Disegno di Legge Delega,
dedicato alla codificazione tributaria, menziona anche la giustizia tributaria tra gli ambiti
interessati da detta codificazione e alla lett. B) indica tra i criteri direttivi quello del
coordinamento con la normativa dell’Unione Europea. Proprio con riferimento all’adeguamento del processo tributario alla normativa europea, alcuni parlano della possibilità di introdurre la prova testimoniale in detto giudizio. Riguardo a tale tematica, si ritiene che la codificazione del processo tributario, ancorchè costituire l’occasione per un mero innesto di istituti tratti da altri riti, rappresenti una importante occasione per sciogliere il nodo fondamentale della giustizia tributaria (non affrontato espressamente dal progetto di riforma), ossia, quale debba essere l’inquadramento del giudice tributario all’interno dell’Ordinamento giudiziario e della natura del processo tributario, la cui disciplina, attualmente, è sospesa tra quella del processo civile e quella del processo amministrativo. Infatti, il processo tributario, da un lato, ha natura di giudizio di impugnazione, mentre, dall’altro, al giudice sono attribuiti poteri non solo rescindenti (di annullamento dell’atto impugnato), ma già nel giudizio di cognizione, gli sono attribuiti anche poteri rescissori (di regolazione del rapporto giuridico d’imposta). Insomma, la
contraddizione di fondo che vive il processo tributario è connessa al fatto che esso può essere innescato solo da un’opposizione ad un provvedimento che incide sulla sfera giuridica del ricorrente (rimanendo escluso da tale processo il c.d. “accertamento negativo”), mentre, al giudice è dato il potere di giudicare non solo dell’atto impugnato (giudizio di legittimità-annullamento), ma anche del rapporto giuridico d’imposta (giudizio di merito): tuttavia, per disciplinare il rapporto giuridico di imposta nel modo più aderente all’art. 53 Cost., il giudice tributario dovrebbe essere legittimato ad accertare i fatti materiali costitutivi dell’obbligazione tributaria, in modo da consentire anche al contribuente di provare l’inesistenza degli stessi. In altri termini, si ritiene che la criticità di fondo da cui derivano le principali imperfezioni degli istituti del processo tributario (che si riflettono sulla effettività della parità delle parti nel giudizio) si riconduce all’incertezza sulla natura del giudice tributario quale giudice del solo atto o di giudice anche del fatto.
Tale inquadramento ha implicazioni pratiche dirimenti, ad esempio, sulla possibilità di introdurre
la prova testimoniale nel processo tributario, attualmente esclusa, così come è esclusa dai
giudizi che hanno ad oggetto la legittimità di provvedimenti amministrativi (processo
amministrativo), mentre ha un ruolo centrale nei processi che hanno ad oggetto vicende
giuridiche, come i processi civili e penali. Pertanto, si ritiene che introdurre “ex abrupto” nel
corpus del processo tributario, senza una revisione organica della relativa disciplina, la
prova testimoniale determinerebbe più squilibri che benefici. D’altra parte, la possibilità di
attribuire al giudice tributario una cognizione piena del fatto si connette alla collocazione di
tale giudice nell’Ordinamento giudiziario. Invero, nel nostro Ordinamento la potestà piena
di accertare i fatti è attribuita soltanto ai giudici civile e penale ed alla Corte dei Conti
Qquando esercita la giurisdizione sindacatoria. Si ritiene difficile, alla luce del principio
costituzionale che vieta l’istituzione di giudici speciali, ammettere la possibilità di affidare
ad un giudice speciale una cognizione piena sul fatto. Perciò, si ritiene che, poiché è
opinione condivisa che il giudice tributario debba avere un potere pieno di accertamento dei
fatti (anche materiali) allegati dalle parti, la scelta di fondo da operare sia quella di superare
il sistema delle Commissioni tributarie, a prescindere se esse venissero composte da
magistrati a tempo pieno, e fare confluire la giustizia tributaria in capo al giudice civile o
alla Corte dei Conti, scontando, ovviamente, anche i problemi più strettamente logistici e
organizzativi che ne deriverebbero nella fase iniziale.