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sabato 5 Ottobre 2024
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Riforma fiscale, spunti di riflessione per una riorganizzazione complessiva del sistema

Negli ultimi tempi, causa anche la crisi economica indotta dall’emergenza “coronavirus”, si è intensificato il dibattito intorno al tema, sempre aperto, di una riforma sistemica dell’Ordinamento tributario italiano. L’obiettivo della riforma deve essere quello di modellare un fisco equo ed efficiente. L’equità è connessa all’attuazione del principio di capacità contributiva e del suo corollario della progressività dell’imposizione, l’efficienza richiede che il prelievo dev’essere tale da minimizzare le fisiologiche distorsioni indotte sul funzionamento dei mercati, cioè, non deve scoraggiare la produzione di ricchezza reale e deve incidere il meno possibile sui prezzi dei beni/servizi per i consumatori finali. Inoltre, l’efficienza ha anche un’ulteriore connotazione, connessa ai costi degli adempimenti fiscali conseguenti alla complessità del sistema, quindi, l’efficienza richiede anche una semplificazione del sistema fiscale. Per conciliare equità ed efficienza, il primo passo è quello di stabilire quali siano gli indicatori di capacità contributiva da porre come perno principale dell’imposizione. I tre principali indicatori di capacità contributiva sono il reddito, il patrimonio e i consumi. Perciò, l’equità e l’efficienza del sistema dipendono da come il prelievo è modulato su tali indicatori e sui meccanismi di quantificazione degli stessi, da cui derivano gli imponibili oggetto di tassazione. La scelta del legislatore della riforma dei primi anni Settanta è stata quella di porre il reddito come perno del sistema fiscale e, quindi, di porre l’Irpef, quale pilastro del sistema, sulla presupposizione che essa assurgesse a tributo personale onnicomprensivo e potesse assicurare l’effettiva progressività della tassazione sul reddito e, in tal modo, attuare il principio di capacità contributiva. Purtuttavia, l’Irpef ha mancato il suo fine di essere un’imposta onnicomprensiva, non solo per la volontà legislativa di istituire molteplici règimi sostitutivi (ad incominciare da quelli sui redditi di natura finanziaria), ma anche a causa dei fenomeni di erosione della base imponibile e di delocalizzazione dei redditi. Perciò, l’Irpef ha finito per gravare, soprattutto, sui redditi meno “mobili” e cioè quelli da lavoro dipendente e da pensione. Tutto ciò induce a ripensare il sistema impositivo, partendo proprio da una riconsiderazione degli imponibili da tassare, prendendo spunto dalle difficoltà connesse alla corretta determinazione del reddito imponibile ed alle sue multiformi configurazioni emergenti dalla legislazione fiscale. Infatti, esso è da sempre un oggetto di difficile identificazione, tanto è vero che, in base alla stessa legislazione fiscale, viene configurato a volte come reddito entrata, altre come reddito prodotto, altre ancora come reddito consumato, quest’ultimo inteso quale disponibilità di beni e servizi. Inoltre, spesso il confine tra ciò che è reddito e ciò che è patrimonio è alquanto labile. Ad esempio, per le imprese ciò che è reddito prodotto e ciò che è patrimonio dipende moltissimo dalle valutazioni in sede di scritture di assestamento (si pensi al processo di quantificazione delle quote di ammortamento, che ha la funzione di evitare che vengano distribuite quote di patrimonio come se fossero quote di reddito, che dimostra come il confine tra ciò che è reddito e ciò che è patrimonio dipende dai criteri di valutazione adottati). Si consideri, ancora, che in una fase dinamica il patrimonio si può tramutare in reddito entrata e viceversa: l’alienazione di elementi patrimoniali può determinare per l’impresa cedente la “monetizzazione” dei plusvalori latenti: ciò che concorreva al valore del patrimonio diviene reddito.

Anche il confine tra reddito e consumo non è assoluto. Per una persona fisica, ad esempio, il consumo, cioè l’acquisto di un bene/servizio di consumo, in una prospettiva neoclassica, costituisce reddito in termini reali, cioè in termini di disponibilità di un bene. Ancora, si può osservare che i confini tra reddito, patrimonio e consumo sono relativi al soggetto cui gli stessi vengono riferiti: la vendita di un immobile merce è un ricavo, ossia, un componente reddituale per l’impresa venditrice, ma diviene un
incremento patrimoniale per la persona fisica che lo acquista al di fuori di un’attività economica. A ciò si aggiunga che tale incremento patrimoniale per la persona fisica, si può tramutare in reddito in sede di accertamento sintetico del reddito complessivo. In altri casi, il consumo di un bene/servizio è un componente positivo di reddito per il fornitore, ma anche per la persona fisica si può tramutare in reddito in sede di determinazione sintetica del reddito complessivo nella fase dell’accertamento tributario. Si può, quindi, concludere che, sia sul piano economico che fiscale, le nozioni di patrimonio e di consumo siano una connotazione, la prima in senso statico e la seconda in senso dinamico, delle nozioni di reddito prodotto e di reddito entrata. Relativamente al “mondo impresa”, da alcuni anni, proprio prendendo atto dell’influenza dei profili valutativi (e, quindi, dei relativi arbitraggi) sulla determinazione del reddito prodotto, nonché della complessità della sua quantificazione, è stato introdotto, almeno per le imprese minori, una nozione di reddito entrata (o reddito liquido) “temperata” da alcuni elementi di competenza fiscale, come, ad esempio, gli ammortamenti, gli accantonamenti al Tfr, le plus/minusvalenze patrimoniali, le sopravvenienze. Tale “timidezza” nell’abbracciare una nozione di reddito entrata tout court dipende anche dalle possibili discrasie che tale modalità di quantificazione del reddito imponibile può determinare e, comunque, dai vantaggi offerti dalla nozione di reddito prodotto. Infatti, per certi versi il reddito prodotto ha il pregio di misurare l’incremento del valore del patrimonio netto aziendale causato dalla gestione dell’impresa nel periodo considerato (esercizio); ha il pregio di evidenziare il contributo che gli investimenti forniscono alla produzione del predetto incremento in ciascun esercizio, sottoforma, relativamente ai componenti positivi, di ricavi, plusvalenze patrimoniali, costi sospesi (rimanenze finali), di ricavi maturati a fronte dei quali non vi è un credito giuridicamente ancora esistente (ratei attivi, o, di quote
imputabili all’esercizio considerato di ricavi riscossi in anticipo (risconti passivi); mentre, relativamente ai componenti negativi, il reddito prodotto evidenzia le quote di costi pluriennali ritenuti di competenza dell’esercizio (ammortamenti, quote di accantonamenti a fondi rischi e oneri, risconti attivi), minusvalenze patrimoniali, quote di costi a cui non corrisponde ancora un’obbligazione venuta a giuridica esistenza (risconti passivi. Pertanto, il reddito prodotto misura l’incremento del patrimonio netto, inteso come il capitale proprio. Per altri versi, il reddito prodotto ha lo svantaggio della dipendenza dai criteri di formazione del bilancio e, soprattutto, dall’incidenza delle valutazioni, nonché, della complessità della sua determinazione.

Diversamente, il reddito entrata, quantificato in base ai flussi finanziari netti, misura in che modo il patrimonio netto investito nell’azienda genera flussi di cassa attivi. Esso presenta i seguenti vantaggi: maggiore oggettività nella sua concreta quantificazione; maggiore semplicità di determinazione, essendo già liquido. Tuttavia, presenta anche i seguenti svantaggi: le perdite di un periodo non sono riportabili in compensazione di altro periodo; il peso degli investimenti grava esclusivamente sull’esercizio in cui sono sostenuti. Dalla combinazione dei due svantaggi predetti, potrebbe derivare, per le imprese che hanno, nell’esercizio considerato, un saldo finanziario attivo non in grado di assorbire il peso degli investimenti in beni strumentali, un disincentivo ad investire con capitale proprio e di favorire il capitale di debito, con pagamenti ripartiti in più esercizi, favorendo il tanto censurato fenomeno della sottocapitalizzazione delle imprese italiane. Diversamente, per le imprese che hanno un saldo finanziario attivo sufficentemente ampio, la deduzione integrale degli investimenti in beni strumentali costituirebbe un vantaggio immediato. Con riferimento alle persone fisiche, il reddito imponibile è costituito dalla somma di ben 6 categorie reddituali, connotate da differenti regole di determinazione che sottendono una differente qualificazione del reddito. Infatti, si passa da una nozione di reddito medio- ordinario per la categoria dei redditi catastali, a quella di reddito entrata per i redditi di capitale e diversi, a quella di reddito entrata temperato da elementi di competenza fiscale per i redditi di lavoro autonomo e impresa minore, per poi passare ai redditi di lavoro
dipendente, qualificabili come reddito entrata temperato dalla tassazione anche delle utilità in natura corrisposte dal datore di lavoro (che costituiscono un reddito consumato). A ciò si aggiunga che il reddito complessivo è poi abbattuto da una serie di “tax expenditure” (oneri deducibili), corrispondenti a spese sostenute e, cioè, a reddito consumato. Infine, va considerato che, come detto, esistono una pluralità di règimi sostitutivi dell’Irpef che ne riducono il carattere onnicomprensivo. Ora, la circostanza che nel nostro Ordinamento tributario non sia ravvisabile una nozione unitaria di reddito fiscalmente rilevante costituisce un ostacolo non da poco per l’effettiva applicazione del principio di capacità contributiva. A ciò si aggiunga il fatto che in un sistema basato sull’imposizione personale sul reddito, la mancata onnicomprensività dell’Irpef pregiudica l’effettiva progressività della tassazione.
Tali evidenze, unite all’equivalenza economica tra reddito, patrimonio e consumi, laddove si osservino i tre fenomeni in un arco temporale pluriennale, ci induce a formulare alcune considerazioni sulla struttura del sistema impositivo.    

Al fine di dare attuazione al principio della capacità contributiva, è indubbio che il sistema impositivo debba essere incentrato su tributi di natura personale, ossia, aventi una base imponibile tendenzialmente onnicomprensiva (cioè, che ricomprenda il maggiore numero possibile di indicatori di capacità contributiva riferibili ad una persona), che si connoti per una progressività almeno tale da ridurre il peso a carico del soggetto più debole, mediante aliquote progressive per scaglioni (essendo tale modalità attuativa della progressività quella che presenta svantaggi minori). Inoltre, la semplificazione del sistema fiscale, si ritiene, implichi anche che la funzione redistributiva debba essere affidata alla spesa pubblica piuttosto che ad un complesso meccanismo di deduzioni/detrazioni/franchige connesse alle condizioni personali di ciascun contribuente. Purtuttavia, il legislatore della riforma dei primi anni Settanta ha ritenuto, assiomaticamente, che l’effettività della capacità contributiva potesse essere assicurata imperniando il sistema impositivo sulla tassazione personale del reddito. Invero, anche una tassazione sul patrimonio può avere carattere personale, quando abbia i cennati requisiti di onnicomprensività (almeno tendenziale) e progressività. Tanto premesso, si può ulteriormente considerare che gli incrementi patrimoniali riferibili ad una persona fisica possono essere osservati nel modo più appropriato possibile, solo alla fine della sua vita, come confronto tra la somma degli incrementi patrimoniali ottenuti e dei consumi goduti, che racchiudono le nozioni di reddito prodotto, di reddito entrata e di reddito consumato. Alla luce di tanto, ci piace immaginare un modello impositivo estremizzato e, pertanto, teorico, che può costituire, tuttavia, lo spunto per verificare in che modo ricalibrare il sistema impositivo. Si potrebbe immaginare di ridurre l’imposizione personale sul reddito e semplificarne la
determinazione, riconducendo tutte le categorie reddituali alla nozione di reddito entrata, eliminando il sistema di deduzioni/detrazioni/franchige (sostituendolo con sussidi mirati), modulando gli scaglioni e le aliquote in modo da assicurare una lieve progressività che miri, soprattutto, a minimizzare il sacrificio sul più debole e a non scoraggiare l’emersione dei redditi più elevati, tassare il reddito consumato all’atto del consumo e spostare il peso prevalente della tassazione sul patrimonio, individuando il momento impositivo in due macrocategorie di eventi. Un primo momento riguarderebbe la morte della persona fisica, con una tassazione attuata mediante l’imposizione sulle successioni, con un’imposta onnicomprensiva, progressiva per scaglioni, con franchige basse e che nel proprio imponibile includa anche gli atti a titolo gratuito inter vivos, di cui il contribuente è stato dante causa: infatti, mediante un atto a titolo gratuito si produce un depauperamento del patrimonio del dante causa e non una sua
parziale conversione, ad es., da immobili in liquidità. Dall’imposta lorda andrebbero detratte le imposte di donazione e successione sulle operazioni di cui il contribuente sia stato avente causa, con le debite rivalutazioni.

Durante la vita della persona, a fronte di una drastica riduzione dell’imposizione sul reddito, si potrebbe prevedere un’imposta sugli incrementi patrimoniali, personale, onnicomprensiva (includendo sia valori immobiliari che mobiliari) e progressiva, con applicazione pluriennale (ad es., ogni 5 anni). Tale sistema presuppone un meccanismo di costante aggiornamento catastale che consenta di individuare valori immobiliari che siano più vicini possibile ai valori di mercato, nonché, un efficace flusso informativo da parte non solo degli intermediari finanziari nazionali, ma anche esteri, mediante lo scambio automatico di informazioni, per intercettare le attività finanziarie e tutti i valori mobiliari. In tale prospettiva, la tassazione del reddito consumato dovrebbe essere affidata esclusivamente all’imposizione indiretta sugli scambi, eliminando le utilità in natura dal concorso alla formazione del reddito complessivo, mediante la sottoposizione soprattutto ad un’imposta neutrale per gli operatori economici come l’Iva, senza, tuttavia, imporre aliquote troppo elevate che pregiudichino i consumi e gli effetti moltiplicativi sul reddito reale indotti dai medesimi. Una tale impostazione avrebbe il pregio di favorire la crescita del reddito prodotto oincassato, in ragione della sostanziale equivalenza economica tra dette grandezze e gli incrementi patrimoniali e i consumi. Relativamente all’imposizione sulle imprese, si potrebbe valorizzare l’annosa esigenza di tenere distinta la determinazione del reddito ai fini economici, o comunque extrafiscali, dalla determinazione del reddito fiscalmente rilevante. In quest’ottica, si potrebbe pensare di estendere la tassazione sul reddito entrata a tutto il mondo delle imprese, evitando gli arbitraggi connessi alla determinazione del reddito prodotto. In tal modo si ridurrebbero i costi amministrativi per le imprese, i costi del controllo per l’Amministrazione finanziaria e si incentiverebbe la produzione di ricchezza reale. Di conseguenza, accanto al bilancio rilevante a tutti i fini extrafiscali, basterebbe un rendiconto finanziario rilevante ai soli fini impositivi.

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