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lunedì 10 Marzo 2025
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Taxi e fisco: la Cassazione ricostruisce costi, ricavi e valore della licenza e conferma la cartella esattoriale

I dati del Ministero dell’Economia rilevano che nel 2022 i tassi di attività dei tassisti sono tornati ai livelli pre Covid. Tuttavia le dichiarazioni dei redditi della categoria si attestano in media intorno ai 15.500 euro l’anno, che stridono con i costi sostenuti per le relative licenze (a Roma, il bando da mille nuove licenze le valuta in 73.000 euro ciascuna, ma a Bologna si arriva a 150.000 euro) e con l’andamento del turismo (con collegate, note, code alle pensiline), senza contare i costi sostenuti per l’acquisto dell’auto di servizio.

L’anomalia non è evidentemente sfuggita all’Erario e il contenzioso non si è fatto attendere, con già chiari responsi anche della Corte di Cassazione, la quale, con l’Ordinanza n. 30664 del 18/10/2022, ha trattato un caso di accertamento su un tassista, basato, fondamentalmente, sulla valenza presuntiva dell’antieconomicità.

Nel caso di specie, il contribuente, esercente l’attività di trasporto a mezzo taxi, impugnava, con due distinti ricorsi, dinanzi la Commissione Tributaria Provinciale, gli avvisi di accertamento con i quali l’Agenzia delle Entrate aveva recuperato a tassazione, ai sensi dell’art. 39, primo comma, lett. d) del Dpr. 29 settembre 1973, n. 600, ai fini IRPEF ed IRAP, maggiori imposte, oltre sanzioni e interessi.

La Commissione Tributaria Provinciale, previa riunione dei ricorsi, li accoglieva, annullando gli avvisi di accertamento. Contro tale decisione proponeva appello l’ufficio e la Commissione Tributaria Regionale ne accoglieva parzialmente l’appello, riducendo i ricavi nella misura del 40%.

Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale il contribuente proponeva infine ricorso per cassazione, deducendo l’illegittimità della sentenza per vizio di motivazione, nella parte in cui la CTR aveva ritenuto corretto l’accertamento perché sussistenti i presupposti di cui all’art. 39 del Dpr. 29 settembre 1973, n. 600 per il ricorso all’accertamento induttivo.

Con un secondo motivo di impugnazione il contribuente deduceva poi la nullità della pronuncia per omessa motivazione in relazione alla riduzione dei ricavi, induttivamente accertati, nella misura del 40%.

Ancora, il contribuente lamentava il vizio di motivazione nella parte in cui, nella sentenza impugnata, i giudici di secondo grado non avevano valutato le circostanze fattuali, a riprova dell’assenza di gravità, precisione e concordanza delle presunzioni utilizzate dall’ufficio e della congruità dei redditi dichiarati dal contribuente.

Secondo la Suprema Corte, tutti i motivi di ricorso, da trattarsi congiuntamente perché connessi, erano inammissibili prima che infondati.

Anzitutto, essi attenevano infatti al merito della vicenda, essendo le censure evidentemente preordinate ad un nuovo esame delle risultanze istruttorie, non ammissibile in sede di legittimità. In altri termini, veniva chiesto di effettuare un nuovo esame sul merito della controversia, con una valutazione degli elementi di prova difforme da quella fatta propria dal collegio di secondo grado, la cui decisione dava comunque contezza di come era stato ritenuto legittimo l’accertamento induttivo dell’ufficio  – e di conseguenza la maggiore capacità contributiva del contribuente (sebbene diminuita) – sulla base della discordanza tra i chilometri percorsi indicati nello studio di settore presentato e quelli rilevabili con le schede carburante.

Il tutto alla luce della obiettiva antieconomicità dell’attività in concreto svolta, atteso che la licenza di taxi aveva (all’epoca) un valore oscillante tra € 160.000,00 ed € 180.000,00, a fronte del quale il contribuente aveva dichiarato un reddito, nel 2007, pari ad € 9.227,00 e, nel 2008, pari ad € 11.231,00.

In punto di diritto, la Cassazione rilevava del resto che, in tema di accertamento induttivo dei redditi d’impresa di cui all’art. 39, comma 1, lett. d) del Dpr. n. 600 del 1973, qualora l’ufficio abbia sufficientemente motivato, specificando gli indici di inattendibilità dei dati contabili e dimostrando la loro astratta idoneità a rappresentare una capacità contributiva non dichiarata, l’atto di rettifica è assistito da presunzione di legittimità circa l’operato degli accertatori, nel senso che null’altro l’ufficio è tenuto a provare, mentre grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, anche in relazione alla contestata antieconomicità.

Ancora, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’Amministrazione finanziaria, in presenza di contabilità formalmente regolare, ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, può desumere in via induttiva, ai sensi dell’ art. 39, comma 1, lett. d), del Dpr. n. 600 del 1973 (e dell’art. 54, commi 2 e 3, del Dpr. 26 ottobre 1972, n. 633 in tema di IVA), sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente, utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ed incombendo sul contribuente l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni.

Gli elementi assunti a fonte di presunzione, peraltro, ricorda la Corte, non devono essere necessariamente plurimi, potendosi il convincimento del giudice fondare anche su di un elemento unico, purché preciso e grave, la cui valutazione non è sindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata.

Pertanto, una volta contestata dall’Erario l’antieconomicità di un comportamento del contribuente, poiché assolutamente contrario ai canoni dell’economia, incombe, sul medesimo l’onere di fornire, al riguardo, le necessarie spiegazioni, essendo – in difetto – pienamente legittimo il ricorso all’accertamento induttivo da parte dell’Amministrazione.

Allo stesso modo, rileva la Corte, erano state, nella specie, esplicitate con logica e chiarezza le ragioni fondanti la riduzione dei ricavi induttivamente accertati nella misura del 40%, leggendosi sul punto nella sentenza che tale rideterminazione era stata eseguita attesa la distanza dell’abitazione rispetto al luogo di lavoro, effettuata sia la mattina all’andata che la sera al ritorno, sempre a vuoto, e soprattutto, per il caso concreto, lo stato di salute e i problemi fisici del contribuente, che avevano inciso sul normale svolgimento dell’attività lavorativa, non riuscendo lo stesso contribuente a guidare l’autovettura fino a quattro ore consecutive.

In assenza di tali specifiche circostanze, tuttavia, la ricostruzione induttiva dei ricavi sarebbe stata confermata in misura integrale.

In definitiva, al di là dello specifico caso processuale, giova evidenziare che in tali tipi di accertamenti rileva la c.d. “resa chilometrica”: parametro dato dalla risultante della divisione dei ricavi, dichiarati dallo stesso contribuente, per i chilometri da lui indicati come percorsi nell’anno.

Il dato dichiarato può essere quindi, ad esempio, ritenuto inattendibile se rapportato alle tariffe stabilite con il Comune, soprattutto laddove la resa chilometrica indicata dal contribuente per ogni chilometro percorso risulti magari inferiore anche al costo per chilometro e quindi inverosimile.

Certamente in questi casi bisogna comunque tenere conto, come fatto anche nella pronuncia, dei chilometri relativi al tragitto di ritorno dal luogo in cui viene accompagnato il cliente al punto di stazionamento del taxi, e dei chilometri percorsi a vuoto, nel caso in cui il cliente, dopo la chiamata, non abbia poi atteso l’arrivo del mezzo. Ma, nel considerare tali fattori, bisognerà allora anche verificare se tali percorsi siano verosimilmente brevi, in considerazione, ad esempio, del numero cospicuo di piazzole di sosta e tenere comunque conto dell’addizionale sulla tariffa per lavoro festivo, notturno e per trasporto bagaglio.

Insomma, la realtà quotidiana deve coincidere con quella fiscale.

E questo vale anche sul fronte delle plusvalenze da cessione licenze taxi, laddove, da ultimo, la Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 4008 del 13.02.2024, relativa ad un contenzioso in cui l’Ufficio, a fronte di un corrispettivo dichiarato per cessione della licenza pari ad euro 40.000,00, aveva accertato la maggior somma di euro 170.000,00, ha rigettato il ricorso del contribuente, evidenziando anche che, a parte i profili di inammissibilità dell’impugnazione, la sentenza che aveva confermato la legittimità dell’accertamento si fondava su elementi di prova più che adeguati (quali, oltre a dichiarazioni di terzo, scrittura privata intercorsa tra le parti e copia degli assegni corrisposti per il pagamento), a nulla rilevando l’assenza di traccia dei titoli negli estratti conto del contribuente.

Il trasferimento della licenza di esercizio taxi si inserisce del resto nell’ambito di un’operazione negoziale di trasferimento di azienda, che è appunto, di norma, onerosa. E’ quindi onere del contribuente fornire la prova contraria della usuale onerosità della cessione, pur dovendo in ogni caso l’Amministrazione indicare i criteri logici e le fonti di convincimento in ordine alla determinazione dell’ammontare del ricavo evaso.

La natura onerosa della cessione è del resto del tutto ragionevole, anche considerato che, in un regime di limitazione del numero delle licenze rilasciate dal Comune, ragioni logiche e giuridiche inducono a ritenere che la licenza rappresenta un bene disponibile, commerciabile e con un proprio rilevante valore economico.

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